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Barbari

Epidemie barbariche
in Koinè, anno XXVII – 2020
«Tempi Covid moderni»
pagine 83-101

  • Pdf del saggio
  • Indice del saggio
    -Una premessa politica
    -Didattica distante
    -Spaziotempo
    -Un documento
    -Razionalità e barbarie

Un luogo collettivo dentro il quale la servitù consapevole o istintiva ha dispiegato i propri effetti in modo pervasivo e quotidiano, e continua a farlo, è la didattica. Se scuole e università hanno potuto chiudere con tanta immediatezza e facilità le loro porte agli studenti – studenti senza i quali scuole e università non hanno ragione di esistere – è perché strumenti e apparati erano già pronti a sostituire la relazione educativa con degli ologrammi disincarnati. Senza questi software sarebbe stato inconcepibile chiudere per mesi o per anni le scuole e le università. Sono dunque le piattaforme MS Teams, Zoom e altre analoghe ad aver causato un processo di impoverimento didattico e culturale che forse è solo agli inizi. La cosiddetta DAD, Didattica a distanza, è – in questa prospettiva – l’incipit della barbarie pedagogica. E questo perché ‘insegnare a distanzaè una contraddizione in termini. Corporeità vivente e vissuta è infatti la persona che insegna. Non un insieme astratto di parole, di dati, di informazioni ma un corpo che si confronta con altri corpi in uno spaziotempo condiviso.
In questo saggio ho cercato di argomentare a favore della dimensione corporea dell’insegnamento e della trasmissione culturale, riferendomi al pensiero di La Boétie (Discorso sulla servitù volontaria), Husserl (La crisi delle scienze europee), Heidegger (Essere e tempo) e attingendo a testi e documenti di vari colleghi, della Rete29aprile, di corpi & politica.

Sulla violenza

Wolfgang Sofsky
Saggio sulla violenza
(Traktat über die Gewalt, Fischer Verlag, 1996)
Trad. di B. Trapani e L. Lamberti
Einaudi, 1998
Pagine 196

Perché la violenza dell’uomo contro altri uomini, contro le cose, contro la natura è così costante nel tempo, così presente nei contesti storici più diversi, così pervasiva della condizione umana? A una domanda tanto diretta e centrale molte etiche e antropologie della modernità rispondono con le varie forme del riduzionismo storico. Per esse, infatti, il male è qualcosa di contingente, nato nel tempo storico e quindi nel tempo storico superabile. Il libro di Wolfgang Sofsky ha il merito di dimostrare che invece «la violenza è il destino della nostra specie. Ciò che cambia sono le forme, i luoghi e i tempi, l’efficienza tecnica, la cornice istituzionale e lo scopo legittimante» (p. 193).
Se vogliamo capire, dobbiamo partire dalla corporeità che tutti ci accomuna, al di là delle differenze nello spazio, nel tempo, nella ricchezza e nell’intelligenza. La società si fonda sui corpi e sul loro bisogno di nutrirsi e di difendersi. Un’antropologia davvero materialistica non può non riconoscere che «il corpo non è una parte dell’uomo, bensì il centro della sua costituzione» (53). Il corpo è sempre sottoposto al rischio di diventare vittima della violenza altrui ma può trasformarsi esso stesso in un’arma volta a distruggere gli altri. In effetti, chi volesse eliminare tutte le armi dal mondo non dovrebbe svuotarlo solo di ogni oggetto ma dovrebbe trasfigurare l’uomo stesso in un ente incorporeo.
L’insieme dei corpi uniti alla difesa forma la società. Essa nasce insieme ai tabù, ai divieti, alle leggi tese a salvaguardare la comunità umana, a impedire la violenza della condizione di natura: «la società è una misura preventiva di reciproca difesa» (5). E tuttavia la società genera un ordine che implica anch’esso l’utilizzo sistematico della violenza: «la violenza crea caos e l’ordine crea violenza. Questo dilemma è irrisolvibile» (5). Il potere nato per limitare la violenza la innalza invece a livelli assoluti. Sta anche qui il vicolo cieco della storia umana.

L’insieme delle tecniche giuridiche, etiche, sociali, religiose tese a tenere la violenza sotto controllo è ciò che chiamiamo cultura/civiltà (Kultur). E tuttavia in nome di valori come lo stato, la sicurezza, il dio, la violenza si moltiplica, si radicalizza, giustifica se stessa come strumento del Bene, dell’Unità, della Giustizia. Dove dominano dei valori assoluti altrettanto assoluta si fa la violenza. La difesa del Valore sacrifica le Vite, le immola a un principio più importante, le immola all’Etica.
L’assolutizzazione dei valori genera l’utopia. In suo nome e per suo conto la violenza si scatena senza più alcun freno. Nulla può opporsi alla speranza della Perfezione. Ogni sacrificio dell’oggi è benedetto in nome della gioia di domani. Gli epigoni secolari dei preti fanno della storia lo spazio dell’assoluto e in nome del Bene sono disposti a uccidere un numero sterminato di vittime. «Il terrore rivoluzionario accade nel segno della virtù, della ragione o della giustizia. Il totalitarismo moderno propaga la completa uguaglianza sociale o l’omogeneità razziale e inevitabilmente sfocia nello sterminio dell’uomo. Il sogno dell’assoluto partorisce violenza assoluta» (191). Ogni progetto rivoluzionario che è riuscito a prendere il potere ha esasperato la violenza, conferendole una dimensione salvifica tesa ad annullare ogni possibile critica.
Corporeità, società/Stato, Kultur e utopia sono intessuti di violenza. Una tale pervasività non può essere compresa né spiegata con motivazioni soltanto economicistiche, sociologiche, contingenti: «nonostante tutti gli sforzi morali, tutte le fatiche per domare la brutalità il male è eterno. Gli strati più primitivi dell’anima sono ciò che è realmente immortale» (194).
La violenza, infatti, soddisfa alcuni dei desideri più specifici e profondi dell’essere umano. Ciò che di solito viene letto come espressione di patologie individuali, di fanatismo collettivo, di arretratezza storica, di lotta ideologica -la crudeltà infanticida di Gilles de Rais, le torture delle Inquisizioni cattoliche o staliniste, i pogrom, le lotte fra gladiatori, i massacri di civili durante le guerre, gli autodafé e molto altro- ha alla sua radice l’illusione di onnipotenza che nasce dal dare la morte, dal sopravvivere agli altri. Ecco perché «la crudeltà non ha un fine. Non ha alcun altro senso oltre se stessa» (41); il suo senso, infatti, è la perpetuazione dell’atto di dominio con il quale il sopravvissuto gioisce dell’esserci ancora, esulta del potere assoluto che gli conferisce il dare la morte. Ed è qui che l’intuizione freudiana, l’Unbehagen della Kultur mostra la sua fecondità euristica: «la cultura è lo sforzo vano di superare la morte. Essa ha la medesima radice della violenza assoluta: la megalomania della sopravvivenza […] Il mostruoso sogno di dominare la morte partorisce solo mostri. La violenza è inerente alla Civiltà [Kultur, qui mal tradotto con “cultura”]: è completamente plasmata dalla morte e dalla violenza» (185 e 188).

Soltanto un’antropologia negativa può comprendere davvero cosa si muove dietro le quinte del teatro della storia, può smascherare quella «superstizione dell’ottimismo» (184) che in nome di speranze assolute ha fatto del Novecento il secolo dello sterminio: «il ventesimo secolo infine non sperimentò solo un immenso progresso delle tecniche belliche, ma anche il costante incremento dell’uso della tortura, nelle guerre grandi e piccole, nelle camere di tortura delle dittature e dei regimi di occupazione, nei campi di concentramento del totalitarismo […] Alla fine della civilizzazione l’impeto creativo della crudeltà è giunto a un momentaneo apice» (71) . E dunque la spocchia di «vivere in un’età di progresso dei costumi è indice non solo di presunzione, ma anche di cecità storica; appartiene alla mitologia della civiltà moderna. La cronaca delle guerre e dei crimini di massa già da tempo ha smentito questa falsa credenza» (192).
Insieme a ogni ottimismo storico-teologico, Sofsky respinge le interpretazioni salvifiche del dolore, tese ad attribuirgli un valore del tutto fantastico e consolatorio. I racconti di violenza e di tormento fisico che scandiscono questo libro -a volte davvero duro- mostrano che «il dolore è il dolore. Non è un segno, né trasmette alcun messaggio. Non rimanda a nulla. Non è nient’altro che il più grande di tutti i mali» (56).
La natura umana è intrisa di violenza; il pactum unionis/subjectionis creato per limitarne i danni utilizza sistematicamente la medesima violenza. La civiltà è quindi plasmata da crudeltà, intessuta di morte. Vie d’uscita da questo circolo non sembrano esserci se è vero che proprio perché «non è guidato dagli istinti, poiché è un essere dotato di intelletto», l’uomo «è in grado di comportarsi peggio della più malvagia delle bestie» (194).
Una conclusione desolata ma non gratuita, fondata com’è su una miriade di testimonianze, esempi, racconti e soprattutto sulla capacità di individuare in esse alcune costanti antropologiche. Una delle principali fonti di Sofsky è, infatti, la visione dell’umano e della storia di Elias Canetti -soprattutto quell’unicum della cultura del Novecento che è Masse und Macht– con le sue intuizioni del corpo-massa, della muta, dell’uccidere come forma più elementare del sopravvivere, del potere come spina infitta nelle carni dell’uomo, quel Canetti che una splendida mostra al Beaubourg ha potuto definire «l’ennemi de la mort».
Se le risposte sembrano mancare, questo libro ha il merito di porre con estrema chiarezza alcune domande essenziali per capire ciò che siamo davvero. Il suo limite più consistente è un altro e sta nel permanere di un pregiudizio antropocentrico che sembra limitare la violenza alla specie umana. In realtà il divorare e il distruggere sono presenti ovunque ci sia animalità, ovunque si dia una vita consapevole. Perché il male è il βίος.

Naturacultura

Nel 1972 il Rapporto Meadows indicava i limiti dello sviluppo, l’impossibilità logica e ontologica di uno sviluppo illimitato in un pianeta dalle risorse finite. Questo richiamo non ebbe naturalmente alcun sèguito effettivo, in quanto «troppo radicale nelle sue conclusioni, è politicamente inascoltabile, poiché erode le fondamenta stesse dell’economia moderna, ossia il principio della crescita infinita sul quale è costruito il nostro mondo da due secoli» (Éric Maulin, in Diorama letterario 351, p. 14), quel principio che indusse George Bush -come i suoi predecessori e successori– a dire nel 1992 che «il nostro livello di vita non è negoziabile».
Conta ben poco che stia diventando un livello di morte; gli umani hanno la vista corta. Quando serve, però, vedono abbastanza lontano da comprendere a che punto sia il presente e da agire in vista di un obiettivo di media distanza: «A naso, e secondo l’agenda Attila del capitalismo, il pianeta va saccheggiato prima del 2050. Al di là di questo termine, il prodotto ‘Mondo’ non sarà più consumabile: troppo caldo, troppo popolato e troppo tossico -monouso in fondo, secondo i criteri dell’economia mercantile» (François Bousquet, ivi, 13).
Non si tratta ‘soltanto’ di economia, si tratta di politica, di ‘grande politica’. Lo scenario che comincia infatti a prendere vita –come testimoniano già e ormai le pratiche delle multinazionali contemporanee- è un ritorno alla schiavitù, seppur in forme giuridicamente diverse rispetto al passato. Se la schiavitù, infatti, «è stata abolita grazie alle risorse fossili (Arendt), è probabile che rinasca con il finire di queste energie» (Jean de Juganville, ivi, 17). Un finire inevitabile non soltanto perché le soglie prospettate dal Rapporto Meadows sono state oltrepassate ma anche perché non si tratta più di opzioni etiche dei singoli ma di strutture ontologiche oggettive:

Solo un quarto dell’insieme del consumo è imputabile direttamente agli individui. Il resto è dovuto all’industria, all’agro-alimentare, all’esercito, ai governi e alle multinazionali. Il Sistema stritola e digerisce dunque tutti i nostri gesti irrisori e prosegue la sua opera distruttrice. Solo una parte infima della popolazione si mobilita poiché l’immensa maggioranza vive sotto perfusione delle industrie del divertimento. In mezzo a questa minoranza, i movimenti sociali ed ecologisti non riescono neanche a frenare il crollo in corso. Perché? Perché nessun cambiamento radicale ha mai avuto successo con la discussione e nemmeno con l’esemplarità. La non-violenza è una grande amica dei governi, della polizia e delle Ong, la non violenza protegge lo Stato e ancor più il Sistema (Id., 18-19).

L’estremismo liberista ha bisogno di schiavi, per quanto mascherati, e ha bisogno di illusioni di sostenibilità. Ha bisogno della servitù volontaria, soddisfatta e inconsapevole. Ha bisogno della dissoluzione di ogni identità -soprattutto collettiva– a favore di un individualismo poietico, liquido, volatile. Come quello che si esprime in modo paradigmatico nei Gender Studies, che tra gli altri limiti possiedono anche quello di un costruzionismo totale.
L’umano, invece, non è certo soltanto biologia e innatismo ma non è neppure soltanto cultura e costruzione. «Come nella cosmogonia cristiana Dio crea il mondo dal nulla, così l’individuo delle teorie gender (transessuali, lgbt), in un delirio di onnipotenza, si pensa come una sorta di ‘dio unico che non deve niente a nessuno, né agli altri (attraverso la cultura), né alle potenze celesti o telluriche (attraverso la natura)’» (Giuseppe Giaccio, ivi, 37-38).
I mandarini del politicamente corretto hanno fretta; devono e vogliono sbarazzarsi quanto prima possibile di ogni differenza, in modo da garantire un pensare e un sentire uniformi, indifferenti alla varietà del reale, alla varietà culturale, etica, etnica, sessuale. Uno degli strumenti a questo scopo è l’attacco –davvero sconcertante– nei confronti del suffragio universale. Nel XIX e XX secolo una delle principali battaglie della sinistra e di ogni movimento di emancipazione fu

il diritto di ‘bifolchi’ e ‘cafoni’ di esprimere con il voto le loro preferenze ‘di pancia’, sperando che scegliessero chi prometteva di varare provvedimenti che colmassero almeno un po’ il vuoto dei loro stomaci. Oggi, invece, il progressismo professorale giudica con sdegno quei ‘rozzi’ strati collocati nei gradini più bassi della scala sociale che si ostinano a ‘votare male’ e, non riuscendo a smuoverli con le armi del ricatto psicologico e della propaganda, si propone di rimetterli in riga minacciando di escluderli dalla competizione politica. Per loro dovrebbero votare altri, gli ‘abilitati’ da un’élite di colti che si occuperebbe di sottoporli a un esame di educazione civica ‘a crocette’, con risposte prestabilite e adeguate allo scopo che si vorrebbe ottenere. Costoro, di fatto, ne diverrebbero i paternalistici custodi, i tutori politici fino alla ‘maggiore età’ politica, che soltanto una conclamata conversione al politicamente corretto potrebbe permettere di raggiungere. Uno scenario che merita un solo aggettivo: aberrante (Marco Tarchi, ivi, 40).

Un capovolgimento che testimonia in modo plastico il mutare delle cose umane, anche nell’ambito politico. Di fronte a simili rigurgiti di classismo e di esclusione sociale, è necessario difendere e garantire le differenze, difendere e garantire ogni spazio di libertà.

Studiare

Martin Eden
di Pietro Marcello
Con: Luca Marinelli (Martin Eden), Jessica Cressy (Elena Orsini), Kathy Bates (Bobi Jewell), Carmen Pommella (Maria), Carlo Cecchi (Brissenden), Chiara Francini (Nora), Maurizio Donadoni (Renato), Gaetano Bruno (Giudice Mattei)
Italia, 2019
Trailer del film

«Studiare, studiare, studiare», ripete per tre volte Elena rivolgendosi a Martin Eden, perdutamente innamorato ma così lontano nella scala sociale -lei erede di un’antica e ricca famiglia, lui marinaio senza un soldo-, così abissalmente ignorante.
La passione di Martin per Elena è talmente grande da indurlo a colmare la distanza del sapere, a leggere tutto, in modo frenetico ma profondo, ad apprendere la scrittura sino a diventare un romanziere, un poeta, un saggista che le case editrici e i circoli culturali si contendono, dopo averne per anni rifiutato i testi e lasciato che Eden facesse la fame. Il riscatto di Martin si intreccia alle lotte socialiste ed operaie, alle quali Eden viene accomunato ma dalle quali è lontanissimo. Il successo editoriale e mondano viene da lui vissuto nel segno della decadenza e dell’angoscia, sino all’allucinazione, sino al nichilismo.
La vicenda in parte autobiografica del romanzo di Jack London (uscito nel 1909) viene da Pietro Marcello trasposta dalla California a Napoli ma nulla cambia della tensione, del sogno, del raggiungimento, del vuoto. Alla finzione cinematografica si affiancano autentici filmati d’epoca i quali -ed è un merito– invece di trasformare il film in un un’opera neorealistica ne accentuano i tratti onirici e interiori. In questo modo la prima parte disegna un personaggio e una vicenda forti e struggenti, la seconda invece cede ai labirinti della psiche diventando confusa e in alcuni passaggi immotivata, forse anche per restituire i contorti cammini del protagonista.
Ed è infatti soprattutto nella prima parte del film che diventa di una chiarezza lancinante la verità per la quale un uomo senza cultura, incapace di decifrare i segni scritti, privo di parole, non è un uomo ma uno schiavo della sorte, della miseria e del nulla. «Un operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone», la frase attribuita a Lorenzo Milani (dico attribuita perché non riesco a trovarne la fonte; forse Esperienze pastorali) riassume con icasticità la dimensione soteriologica del sapere, il suo costituire la più intima e profonda forma di salvezza.
Senza conoscenza si può essere contenti, certo, come gli ebeti che sorridono al mondo senza sapere perché lo fanno. Soltanto sapendo molte cose, leggendo molti libri, possedendo molte nozioni, coltivando molti pensieri, elaborando molte interpretazioni, conoscendo molte parole, si può trasformare quel sorriso in un canto di vittoria, in un’espressione di luce.
Che questo non accada a Martin Eden è segno che il sapere non è sufficiente e tuttavia la conoscenza rimane necessaria per accostarsi alla vita da signori e non da miserabili.

Terre / Popoli / Confini

Australia. Storie dagli antipodi
Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Eugenio Viola
Artisti in mostra: Vernon Ah Kee, Tony Albert, Khadim Ali, Brook Andrew, Richard Bell, Daniel Boyd, Maria Fernanda Cardoso, Barbara Cleveland, Destiny Deacon, Hayden Fowler, Marco Fusinato, Agatha Gothe-Snape, Julie Gough, Fiona Hall, Dale Harding, Nicholas Mangan, Angelica Mesiti, Archie Moore, Callum Morton, Tom Nicholson (with Greg Lehman), Jill Orr, Mike Parr, Patricia Piccinini, Stuart Ringholt, Khaled Sabsabi, Yhonnie Scarce, Soda_Jerk, Dr Christian Thompson AO, James Tylor, Judy Watson, Jason Wing and Nyapanyapa Yunupingu.
Sino al 9 febbraio 2020

Nel 1770 il capitano inglese James Cook toccò le coste dell’Australia e ripetè il gesto del suo collega italiano Cristoforo Colombo, prendendo possesso in nome dei propri sovrani di una terra che era di altri ma che venne definita vuota, disabitata. Gli umani che la abitavano non contavano evidentemente nulla. La violenza contro i veri australiani –veri nel senso semplice ma fondamentale che abitavano quella terra da molto tempo prima che arrivassero gli occidentali– appare assai chiara nell’opera forse più politica di questa mostra: Salvado de Que? (2019) di Archie Moore. Si tratta di una grande bandiera verticale di colore blu, lo stesso colore della bandiera australiana, sopra la quale c’è scritto Salvado. Ai piedi della bandiera ci sono tracce di sangue. Il sangue dei popoli aborigeni che dal 1910 al 1970 videro molti dei propri figli sottratti ai genitori per essere educati al modo occidentale e nella fede cristiana. L’immagine qui sopra è invece di Khadim Ali (Untitled 2, dalla serie Fragmented Memories, 2017-2018) e costituisce un complesso tentativo di sintetizzare il passato e il presente dell’Australia, fatti anche di genocidi degli antichi abitatori.
Quando nessuno sarà più così buono e così filantropo da dedicarsi in questo modo alla salvezza degli altri  popoli, ad esempio con guerre democratiche e umanitarie, il rispetto e la libertà saranno meglio garantiti nelle vicende umane.
Quando nessuno sarà più così buono e così globalista da ignorare il fatto che Homo sapiens è un animale tanto nomade quanto fortemente territoriale, allora popoli e comunità eviteranno di farsi massacrare, sottomettere o sostituire come accadde agli accoglienti popoli centro americani con gli spagnoli, agli aborigeni australiani  con i britannici (i Native [2019] dell’immagine-parola di Tony Albert) e come può accadere all’Europa stoltamente ingenua del XXI secolo.
Ask us what we want, still (2019) di Jason Wing denuncia giustamente il furto di terra perpetrato da Cook, perché la terra, le proprietà, i confini, prima di essere delle astrazioni ideologiche costituiscono delle realtà antropiche. Chi non ne tiene conto è -appunto– o un ‘crook’, un criminale, o una vittima dei criminali. Per inciso, le attuali politiche sull’emigrazione della nazione australiana sono tra le più dure e severe al mondo: in pratica la quasi totalità di coloro che cercano di entrare illegalmente in Australia viene respinta e rimandata da dove è venuta. Per usare il linguaggio degli europei accoglienti, si tratta di un Paese dai tratti ‘fascisti’. E tuttavia i nostri bravi democratici non ne fanno parola. Forse perché quando è così lontano il ‘fascismo’ si scolora?
Insieme a quelle di Moore e Wing, il PAC ospita le opere di altri 30 artisti australiani contemporanei, dando la possibilità di conoscere la varietà e la ricchezza della cultura figurativa di quel Paese-Continente. Opere che si possono descrivere come un tentativo di tenere distinti ponendoli in dialogo tra loro concetti come paesaggio/artificio, autoctono/esterno, digitale/materico (ad esempio i power point di Agatha Gothe-Snape e gli scheletri costruiti con il vetro di Fiona Hall), corporeo/astratto (da una parte il corpo di Jill Orr che si mescola letteralmente e profondamente con la terra, gli alberi, gli elementi e dall’altra parte i segni arcaici di James Tylor).

Sullo sfondo, la coppia fondamentale costituita da natura/cultura, la cui esemplificazione più interessante sono i video e le fotografie di Maria Fernanda Cardoso –On the Origins of Art I-II (2016)-che documentano alcuni momenti della vita di un piccolo ragno australiano, Maratus (qui sopra). L’esistenza di questo animale è ragione sufficiente per mettere in discussione una delle tante convinzioni antropocentriche, quella che anche Karl Marx espresse nella sua nota affermazione secondo la quale «il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera» (Il Capitale, libro I, sezione III, primo capitolo ‘Processo lavorativo e processo di valorizzazione’). E invece le immagini di Cardoso mostrano il maschio di questo insetto corteggiare la femmina mediante danze, suoni, colori. Un cromatismo denso ed espressionistico, per il quale si potrebbe capovolgere l’affermazione marxiana e dire che c’è nella testa del ragno un’idea ricca e complessa che lo induce a produrre movimenti e a generare forme in vista di uno scopo che gli è chiaro prima che si metta in azione.
È pensata e agita l’armonia delle forme della quale è capace un qualunque maschio Maratus, la cui femmina deve evidentemente essere a sua volta capace di valutazione critica, potendo accettare o respingere le offerte erotico-artistiche del suo corteggiatore. Forse l’errore sta nella scala assiologica, nell’ossessione umana di costruire gerarchie di valori dove ci sono delle semplici differenze. Quelle per le quali la body art che gli aborigeni d’Australia hanno coltivato per millenni non è peggiore o migliore, ad esempio, dell’arte barocca. Sono entrambe delle coinvolgenti manifestazioni della natura poietica di Homo sapiens, del suo incessante costruire mondi intorno e dentro di sé. Anche Patricia Piccinini costruisce opere -come Kindred (parenti, affini, 2018)– nelle quali risaltano gli elementi di continuità tra la specie umana e gli altri primati, in questo caso gli orangutan.
Questo e molto altro, soprattutto i numerosi video di vari artisti, è detto ed espresso in forme e modalità che confermano come tutta l’arte contemporanea sia arte concettuale.

Automi e guerrieri

L’esercito di Terracotta e il  primo imperatore della Cina
Fabbrica del Vapore – Milano
Sino al 5 aprile 2020

Io, Robotto. Automi da compagnia
A cura di Massimo Triulzi
Fabbrica del Vapore – Milano
Sino al 29 gennaio 2020

Le forme antropomorfe affascinano Homo sapiens. Le scorge ovunque, le costruisce, le inventa. Prende la materia e le dà il proprio volto. L’argilla, il fango, la terracotta diventano migliaia di soldati a guardia dell’imperatore Qin Shi Huang (260-210 a.e.v.) mentre è vivo, diventando ancor più fieri e attenti quando sarà morto. Soldati un poco più imponenti del reale, con le loro armi e corazze, accompagnati da cavalli oppure in piedi, pronti a lanciare le loro frecce o posti accanto a lussuose carrozze. Essi dominano lo spazio, guardano il tempo. Quest’opera collettiva, simbolica, politica –scoperta nel 1974 per caso, come tante altre fondamentali testimonianze del passato dei popoli– è naturalmente inamovibile. Ma di essa sono state realizzate delle copie identiche sino ai graffi, alle tracce di colore, alla inquietante e magica grazia che attraversa gli originali. E sono ospitate alla Fabbrica del Vapore di Milano. Con un apparato didattico forse troppo fitto ma con il fascino che sempre l’oggetto archeologico possiede, anche e specialmente quando tale oggetto è una folla, la folla dei guerrieri che unificarono la Cina.

Altri guerrieri sono quelli che abitano ora accanto all’esercito di terracotta e che si presentano anch’essi in forme antropomorfiche o zoomorfiche ma che stavolta sono fatti di ferro, di silicio, di circuiti. Dal Turco che nel Settecento con un trucco batteva tutti giocando a scacchi al tenero batuffolo robotico di nome Furby, da Pinocchio ad Aibo (un robot-animale che sa fare davvero molte cose), la fantasia umana sembra anelare a essere un dio che possa dire: «Ecco, a mia immagine e somiglianza ti ho creato».
Io, Robotto è una mostra tanto lieve e colorata quanto inquietante e istruttiva. Come dice uno dei suoi testi, «la chiave non è l’interattività, la chiave è l’autonomia». Non macchine che sappiano interagire in modo comportamentistico sino a risultare (cosa comunque ancora ben lontana) indistinguibili da noi ma entità che siano capaci di pensare indipendentemente da noi.
Ma che cosa significa davvero autonomia, coscienza, libero arbitrio? Ho studiato a lungo questi concetti e la risposta che credo di poter dare è che non significano niente.
I soldati che combattono sotto le mura di Ilio non hanno di fatto alcuna autonomia. Sia gli Achei sia i Troiani sono automi in mano agli dèi, sono figure del loro disaccordo, nulla possono ottenere e conseguire che non veda accanto a loro agire un dio.
Con la consueta esattezza, Baruch Spinoza scrive che «falluntur homines quod se liberos esse putant, quæ opinio in hoc solo consistit, quod suarum actionum sint conscii, & ignari causarum, a quibus determinantur. Haec ergo est eorum libertatis idea, quod suarum actionum nullam cognoscant causam» (Ethica, XXXV, Scolio), vale a dire che la sensazione di essere liberi nelle nostre azioni è data dal conoscere gli scopi verso cui ci muoviamo ma dall’ignorarne quasi del tutto le cause, esattamente come accade a ogni automa che è intenzionato verso un obiettivo ma non sa che quell’obiettivo gli è stato dato da chi lo ha programmato.
Daniel Wenger accosta questa tesi a quella di Marvin Minsky secondo cui «forse sarebbe più onesto dire “La mia decisione è stata determinata da forze interne che non comprendo”» (D.M. Wegner, L’illusione della volontà cosciente, in Aa. Vv., Siamo davvero liberi?, Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio, Codice edizioni, 2010, p. 35). A programmarci sono i geni, l’ambiente e l’esperienza, ciò che Eraclito definisce il nostro δαίμων (DK 119, Mouraviev 63).
Siamo dunque dei robot? Non proprio, siamo molto più complessi di qualunque robot esistente. Siamo degli androidi? No, perché siamo composti di materia protoplasmatica e non di circuiti elettronici. Siamo cyborg, una mescolanza complicata di biologico e artificiale. Siamo sin dall’inizio un insieme inseparabile di natura, cultura e tecnica, come ho cercato di argomentare in un testo di qualche anno fa:

«La dimensione naturale fa del corpo un organismo che si pone in continuità con la struttura atomica, molecolare, biologica della Terra, delle piante, degli altri animali. Come essi, il corpo è sottomesso alle leggi fisiche di gravitazione, impenetrabilità, unicità spaziale; è sottoposto alle leggi chimiche dello scambio energetico e termico, alla regola universale dell’entropia; è soggetto alle leggi biologiche del metabolismo, crescita, maturazione e decadenza, è ostaggio sin dall’inizio della morte.
Come cultura, il corpo è segnato dai simboli cosmici e politici, dai tatuaggi che riproducono le forze degli altri animali e degli dèi, dagli abiti che lo coprono, difendono, modellano e immergono nei gusti estetici e nei modi di fare quotidiani di un’epoca, un popolo, una società. Come cultura, il corpo è desiderato in sembianze anche estetiche e non solo sessuali e riproduttive; diventa modello per le forme nello spazio, per i colori sulle tele, per le narrazioni letterarie. Come cultura, il corpo è esibito nelle piccole e grandi occasioni sociali e nelle forme rituali collettive (la ola negli stadi, il ballo nelle discoteche, il corpo dell’attore nei teatri). Come cultura, il corpo è agglutinato nelle masse che manifestano, scioperano, scandiscono slogan a una voce che sembra sola ma che in realtà è il frutto del convergere di innumerevoli esclamazioni. Come cultura, il corpo è sacralizzato nei totem, nei crocefissi, nei corpi paramentati a festa dei sacerdoti. Come cultura, il corpo inventa le forme che percepisce nello spazio e le loro regolarità; elabora i colori – veri e propri significati virtuali del nostro cervello – e in generale le immagini che danno spessore e profondità alla nostra percezione. Come cultura, il corpo è guardato – e non solo percepito –, è ammirato, compianto, commentato, imitato, segnato dai giudizi degli altri corpi. Come cultura, il corpo parla e il suo dire, il suono fisico capace di esprimere il processo immateriale del pensare, incide a fondo, produce eventi, sconvolge luoghi, trasforma le esistenze, plasma la storia. Come cultura, persino i prodotti organici del corpo – saliva, lacrime, sudore – sono irriducibili alla dimensione soltanto biologica e indicano, invece, un intero mondo di emozioni e di significati.
Come tecnica, il corpo è forza-lavoro; macchina per costruire templi e piramidi, per produrre grano e per allevare altri corpi non umani; è cadavere dissezionato; è movimento di conquista negli oceani; è strumento formidabile di morte – morte che dà, morte che riceve– in battaglia. Come tecnica, è rivestito di camici bianchi e diventa parte di un progetto di ricerca. Come tecnica, è invaso da occhiali, arti sostitutivi, pace-maker, sistemi di amplificazione dei suoni, caschi per guidare, auricolari per telefoni, guanti e tute interattive.
Comprendere la ricchezza del corpo naturale, pervaso di significato, linguaggio esso stesso del mondo, è impossibile per ogni prospettiva tendente a ridurre la tecnica a manipolazione e quindi a tecnologia. Se l’IA vuole essere davvero tecnica e non solo strumento, essa non può rimanere una semplice imitazione del manipolare, ma deve aprirsi, o almeno tentare di farlo, alla dimensione umana dei significati, del linguaggio, dell’esserci nel tempo. Deve essere, in altre parole, meno artificio e più intelligenza.
Nel XXI secolo e forse sempre più nel tempo che verrà, il corpo come natura, cultura, tecnica è cybercorpo, è mente che si estende al moltiplicarsi delle protesi che la mente ha costruito. I robot di là da venire saranno figli, discendenza, frutto dell’identità naturale, culturale, tecnica dell’umano».
(La mente temporale. Corpo Mondo Artificio, Carocci 2009, pp. 255-257)

[L’immagine di apertura è di Valentino Candiani]

Sfruttamento / Discriminazione

«Quando al negro capita di guardare il Bianco con ferocia, il Bianco gli dice: ‘Fratello, non c’è differenza fra noi’. Eppure il negro sa che vi è una differenza»
(Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, ETS, 2015)

Più che opportuno, un approccio critico all’idea e all’ideologia dei diritti umani è proprio necessario in un’epoca che sembra vedere in essi una nuova religione. È questa la prospettiva del numero 2/2018 del «Giornale critico di storia delle idee. Rivista internazionale di filosofia / Critical Journal of Ideas. International Review of Philosophy», che ha come titolo Dell’uomo e dei diritti / On Human and Rights (Mimesis, 2019; vi è è stato pubblicato anche un mio contributo dal titolo Oltre l’umanismo, oltre l’umanitarismo).
L’obiettivo metodologico, scrivono i due curatori del volume, «era quello di fornire una mappatura sul dibattito intorno ai diritti umani con il fine di portarne in superficie le contraddizioni, le paradossalità e le antinomie, per far deflagrare ed esplodere l’immagine della loro presunta neutralità e naturalità. […] Compito della storia critica delle idee è infatti quello di porre in discussione e ripensare i ‘diritti dell’uomo’ al di là tanto della loro presunta naturalezza, nella forma dell’evidenza della loro definizione, quanto della presunta neutralità della loro applicazione» (Gianpaolo Cherchi e Antonio Moretti, Nota editoriale, pp. 7-8).
L’origine borghese di questi diritti li caratterizza ab ovo non soltanto come puramente formali e quindi  adattabili a qualsiasi autorità, istituzione e scopo -emblematica una formula quale «guerra umanitaria»– ma soprattutto come falsamente universali. Dietro e dentro la loro formulazione abita infatti (come è ovvio) una certa e determinata idea di umano, quella dell’Occidente cristiano, che è una delle molte possibili ma che si presenta e si impone come l’unica pensabile.
La relatività, il particolarismo, la cangiabilità, la funzionalità a determinati obiettivi della teoria dei diritti umani sono mostrate in modo evidente e plastico dal plesso semantico terrorismo/terrorista. Nel suo saggio -uno dei più interessanti del volume– dal titolo Artefatti, ostensione e realtà istituzionale. Le ‘Unità anti-terrore’ nella guerra siriana, Davide Grasso analizza le ragioni per le quali individui, gruppi e istituzioni vengono definiti e si definiscono anche reciprocamente ‘terroristi’ e pertanto la grave debolezza epistemologica di questa caratterizzazione, che acquista senso soltanto in una prospettiva di propaganda politica: 

L’alone semantico del termine ‘terrorismo’ è estremamente oscuro tanto nel linguaggio giuridico che nel linguaggio ordinario. […] Il termine terrorismo è quindi da considerarsi, nei fatti, uno strumento concettuale utilizzato da attori differenti per squalificare questa o quella manifestazione di potere, che si origini contro le istituzioni o da parte di istituzioni considerate illegittime. Questo spiega in gran parte la difficoltà giuridica, e ancor più metafisica, di definire il terrorismo. […] Una qualifica attribuita dagli stati, da almeno un secolo, alle organizzazioni armate che promuovono o difendono istituzioni alternative a quelle esistenti (136-137).

I diritti umani sono, anche e specialmente, un dispositivo del tutto impolitico e per questo molto pericoloso. Hannah Arendt, filosofa di acuta intelligenza sulle cose umane, nelle Origins of Totalitarianism ha sostenuto che «i Diritti dell’Uomo sono i diritti di coloro che sono solo esseri umani, che non hanno altra proprietà rimasta loro se non quella di essere umani. In altre parole, sono i diritti di chi non ha diritti, la mera parodia del diritto» (Jacques Rancière, Who is the Subject of the Rights of Man?, p. 27).
Una parodia del diritto che fa da fondamento alla sostituzione dell’elemento politico con quello morale e psicologico. Sostituzione che giustifica ogni struttura oppressiva. Un esempio tratto da un ambito apparentemente lontano ma spero chiaro è il concetto francescano di povertà. Esso favorisce la rassegnazione alla diseguaglianza economica perché giustifica la condizione di povertà, addirittura esaltandola come veicolo di santità, e permette a chi non è povero di mostrarsi solidale e umanitario dando parte della propria ricchezza a chi sta peggio. A condizione che questo scambio volontaristico e personale non intacchi le strutture economiche e sociali che generano povertà e ricchezza: «i poveri li avrete sempre con voi; e quando volete, potete far loro del bene», come disse il Rabbi galileo (Mc., 14,7, trad. Nuova Diodati).
Significativo sino a risultare fondamentale è anche lo slittamento semantico che ha in pratica cancellato dalla saggistica e dal discorso pubblico la parola sfruttamento sostituita dal termine discriminazione. «Sfruttamento» si riferisce infatti a una struttura socioeconomica, «discriminazione» a un atteggiamento psicologico-giuridico. La prima parola implica la necessità di un cambiamento oggettivo, per la seconda è sufficiente una modifica formale dei rapporti di potere.
La «recensione critica» che Andrea Caroselli e Miguel Mellino hanno dedicato al libro di Didier Fassin Ragione umanitaria. Una storia morale del tempo presente (Gallimard 2010; trad. it. DeriveApprodi 2018) si intitola La trappola umanitaria: l’umano come cifra dell’accumulazione neoliberale. Ne riporto alcuni brani che non hanno bisogno di commento.

Le molteplici ‘emergenze’ degli ultimi anni mostrano come il discorso umanitario, che trasforma l’appello a una medesima condizione umana nella sostanza stessa della politica, necessiti non solo di mostrare la presenza di soggetti sofferenti, mobilitando un immaginario caritatevole, ma, ancor più significativamente, di spostare l’attenzione dalla struttura a un soggetto, costruito in termini morali, nel quale sarebbe possibile riconoscerci perché garantiti da una presunta unità del genere umano. Un’economia dello sguardo, dunque, nella quale all’analisi delle cause si sostituisce una cura degli effetti (242-243).
[…]
Il dispiegamento della logica umanitaria, difatti, non fa che spogliare gli eventi di qualsiasi specificità di ordine storico-politico-economico e, nella ripetizione senza differenze di eventi drammatici, riafferma continuamente sia lo stato di emergenza da cui è legittimata, sia i rapporti di disuguaglianza entro cui si iscrive (243).
[…]
Ed è qui che risiede l’essenza  e la forza (ideologica) della ‘ragione umanitaria’ come nuovo dispositivo egemonico di governo: nella sostituzione del vecchio lessico della politica organizzato attorno a espressioni come lotta, sfruttamento, dominio, diritti, giustizia, con una nuova grammatica discorsiva in cui a prendere il sopravvento sono nozioni di tipo morale come compassione, sofferenza, solidarietà (243).
[…]
Tuttavia, se è chiaro che ci troviamo permeati da un ordine del discorso politico dominato dall’empatia e dai sentimenti morali, è ormai altrettanto chiaro, a nostro avviso, come, per quanto riguarda le migrazioni, ‘il governo umanitario’ sia indissociabile dalla mercificazione progressiva del sistema dell’accoglienza, ovvero dai processi neoliberali di valorizzazione economica e di messa al lavoro di quegli stessi soggetti descritti attraverso la figura del ‘bisognos* d’aiuto’. Descrivere i dispositivi di governo umanitario senza metterne in evidenza né gli aspetti di rendita e di profitto, né la loro centralità nella produzione ’istituzionale’ di una forza lavoro precarizzata e semi-servile, equivale a de-politicizzare quella stessa critica alla de-politicizzazione che è la tesi forte dell’autore (244-245).
[…]
Per quanto la lotta per cercare di salvare vite umane sia assolutamente importante, ci sembra necessario che essa si rifletta all’interno di un’analisi che tenga conto della complessità del presente. Un’accettazione acritica del paradigma umanitario rischia infatti non solo di non rivelarsi all’altezza della sfida, ma di produrre effetti politici perversi (247)
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Analisi come queste segnano la differenza tra una prospettiva economico/politica -e quindi strutturale ed emancipatrice dallo sfruttamento– e una prospettiva soltanto morale e sentimentale, limitata alla discriminazione formale e quindi reazionaria.

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