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Fare luce

Lux in arena
Le lucerne e il mondo dei gladiatori

Antiquarium Alda Levi – Milano
A cura di Anna Maria Fedeli e Alberto Bacchetta
Sino al 23 dicembre 2023

Fare luce è sempre stata un’esigenza degli esseri umani, i quali sono animali diurni che hanno bisogno di luce, che amano la luce, che vengono spaventati dal buio e che sono sensibilissimi a ogni variazione dei colori, dell’intensità luminosa, delle ombre, dei chiaroscuri. La pittura è espressione di tale natura, così come la fotografia, le mitologie e le religioni, che nella luce hanno il loro cardine e la loro metafora prediletta.
Fare luce serve a muoversi nello spazio senza urtare, inciampare, cadere, farsi male. Nelle città romane, e antiche in generale, non esisteva qualcosa di analogo alla «illuminazione pubblica» e quindi bisognava muoversi di notte per le strade con delle torce resistenti e durature. E in casa bisognava accendere candele, bracieri e soprattutto lucerne di terracotta distribuite ovunque nelle stanze, poste sui mobili, sospese tramite catenelle a supporti di legno, bronzo, ancora di terracotta (candelabra) o collocate in nicchie alle pareti appositamente costruite a questo scopo. Più grande era l’ambiente, soprattutto quelli pubblici, più fonti di luce erano necessarie. Un mondo che fra il tramonto e l’alba viveva in una costante penombra e forse per questo capace di apprezzare in modo più definito e consapevole sia la luce del Sole sia lo splendore della volta celeste e della Luna.
Inserisco qui sotto la foto di uno dei pannelli che guidano il visitatore della mostra milanese alla scoperta e conoscenza di questi oggetti umili, economici e veramente indispensabili. Nella chiusa si dice che la lucerna accompagna anche i morti (per ingrandire basta cliccare sulle immagini).

La mostra raccoglie numerose lucerne di varia fattura, produzione, simbolo e significato. La numero 16 che si vede qui sotto raffigura un soldato vincitore. Molte altre simbolizzano momenti di guerra e specialmente scene di giochi gladiatori. Il successo dei giochi nella civiltà romana era enorme. Lo testimonia non soltanto questa mostra ma l’intero luogo che la ospita. L’Antiquarium Alda Levi è infatti una sezione del Museo Archeologico di Milano, sezione costruita vicino a ciò che resta del grande Anfiteatro Romano, che si trovava a sud-ovest della cinta muraria e che venne utilizzato con passione dalla sua costruzione ( I secolo e.v.) al declino del mondo antico.

L’Anfiteatro non è attualmente visitabile perché sono in corso ulteriori scavi che dovrebbero, alla loro conclusione, far percepire meglio la grandiosità di questa struttura che oggi si trova nel centro della città (il Duomo è raggiungibile in un quarto d’ora a piedi). Il Museo è invece aperto, documenta la storia della Milano antica dall’età del ferro al V sec. e.v. e raccoglie soprattutto testimonianze relative all’utilizzo dell’Anfiteatro per i giochi gladiatori. Preziosa e rara è una stele con la quale la famiglia di un valente gladiatore, Urbicus, ricorda il congiunto con orgoglio e affetto.
Le testimonianze di cultura materiale danno l’impressione di poter toccare il passato, che il passato sia vivo, che il passato sia ancora tra noi con questi oggetti e con i loro significati. Ad esempio, ceramiche (anche in vetro e medioevali, non soltanto antiche), anfore, strumenti musicali, gioielli. Oltre che naturalmente lucerne. Davvero raro è un pavimento in malta anch’esso del I sec. e.v., scoperto in via Cesare Correnti e che dalla foto può essere scambiato anche per un dipinto astratto.

Molti oggetti provengono, come sempre, dalle necropoli, soprattutto manufatti legati all’ambito del sacro, che venivano spezzati per evitare che oggetti appartenuti a una divinità potessero essere riutilizzati dagli umani, dai mortali. Anche questo significa rispetto del Sacro. Una sacralità pervasiva perché immanente, assai diversa dalla desacralizzazione portata dal cristianesimo nel mondo antico.
Un cattolico ultratradizionalista, Thomas Molnar, afferma con compiacimento che «il cristianesimo, dovunque penetri – e in primo luogo nel mondo greco-romano – procede ad uno svuotamento (e de-mitizzazione) del cosmo panteista, pagano» Un pagano contemporaneo, Alain de Benoist, lo conferma: «La scomparsa del sacro va messa direttamente in rapporto con l’espandersi di una religione giudeo-cristiana caratterizzata dall’identificazione dell’essere con Dio, dalla dissociazione dell’essere dal mondo e dal ruolo particolare assegnato alla ragione» (entrambe le affermazioni si leggono in L’eclisse del sacro, a cura di G. Del Ninno, Edizioni Settecolori, Vibo Valentia, 1992, rispettivamente alle pagine 21 e 115).
Il Sacro raccoglie l’umano e il divino come parte di un insieme che non li confonde e non li separa. Dove invece essi si scindono, inizia la devastazione. La devastazione ebraica e cristiana che in luoghi come l’Antiquarium milanese appare invece così lontana, così improbabile.

Vizzini

L’accoglienza che i siciliani riservano al mondo è colma di passione e disincanto. Essendo nati, cercano di attingere dai giorni ogni possibile pienezza, sapendo però che l’orizzonte del vivere è il morire; un Sein zum Tode declinato nei gangli stessi della civiltà contadina.
Morte che i siciliani celebrano in varie forme. Come quella nella quale un San Lorenzo dal colore ormai spento rimane in ogni caso l’unica luce che riverbera nel buio insieme al rosso delle braci. L’autore del dipinto è Filippo Paladini, un toscano che venne a lavorare e morire nell’Isola. Il quadro si trova in una chiesa fortezza, l’imponente Chiesa Madre di Vizzini, dedicata al patrono San Gregorio Magno.
È iniziato da questo edificio il percorso che l’accoglienza appassionata e disincantata di Enrico Palma e Pietro La Rocca ha reso un viaggio nel profondo della nostra storia. Abbiamo attraversato strade intitolate ad ‘Aristotile’ e ad Atene; abbiamo sostato davanti alle facciate di chiese barocche pronte a volare e di piccoli edifici religiosi immobili come scogli del mare; abbiamo sentito le parole e visto i gesti ambigui di Lola, Santuzza e compare Turiddu, che i racconti di Verga hanno reso perenni.
Giovanni VergaIl suo nome e la sua opera abitano ovunque, qui. In particolare nel Palazzo nobiliare dei Ventimiglia, diventati i Trao con i quali Mastro-Don Gesualdo Motta volle imparentarsi. Loro erano i discendenti della nobiltà più arrogante, lui era un uomo venuto dal nulla e diventato ricco con il lavoro incessante dei giorni. In questo Palazzo l’ambizione di un’impossibile mescolanza sociale sembra scandire stanza dopo stanza il delirio dei Trao decaduti, l’amarezza costante di Gesualdo.
Stanze ora diventate la sede di un centro culturale che raccoglie un Museo etnoantropologico, ricco della cultura materiale di queste terre; uno spazio dedicato ai libri e agli strumenti del medico e politico Gesualdo Costa, personaggio tanto competente nella sua arte chirurgica quanto magnetico nella sua persona; e soprattutto il Museo dell’immaginario verghiano, un percorso dentro la storia, le opere, le relazioni, i personaggi, le fotografie dello scrittore vizzinese e catanese.
E poi i paesaggi, la notte, la pioggia, l’antropologia, la cucina. Lo scrigno di Vizzini gustato sino a non accorgerci quasi del mancato spettacolo teatrale (a causa appunto della pioggia) che era stata l’occasione del nostro viaggio. Ogni strada di questa terra coniuga intimamente materia e storia, ogni luogo diventa naturacultura.

Rēs

No Name Design
Palazzo della Triennale – Milano
A cura di Franco Clivio e Hans Hansen
Sino al 10 settembre 2014

no-name-designLe cose, ciò che chiamiamo cosa, gli oggetti immaginati, pensati, progettati, costruiti, utilizzati. Da uno strumento primordiale e perfetto, come un martello, alla miriade di oggetti analogici che nel Novecento hanno riempito le case, i corpi, l’immaginazione e il flusso della vita. E che improvvisamente colpiscono lo sguardo perché separati dal contesto e diventati protagonisti di una visione specifica. Come Duchamp ma all’inverso di Duchamp: non l’oggetto trasformato in opera d’arte ma l’artisticità dell’oggetto in quanto tale. Una mostra insolita, istruttiva, includente.

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