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Libano

L’insulto
di Ziad Doueiri
Libano, 2017
Con: Kamel El Basha, Adel Karam, Rita Hayek,  Christine Choueiri, Camille Salame
Trailer del film

Un’elegante città mediorientale, Beirut, e un piccolo e ospitale Paese, il Libano, sono stati per quindici anni -dal 1975 al 1990- teatro di una guerra devastante e feroce come può esserlo una guerra civile. Lo scontro tra musulmani e cristiani fu implacabile, moltiplicato dall’orrore perpetrato con la complicità dell’esercito di Israele del generale e ministro Ariel Sharon. In Libano i segni di quell’odio non sono certo dissolti.
Riaffiorano infatti nella vicenda di Yasser, un ingegnere palestinese che fa il capo cantiere, e di Toni, un militante cristiano maronita. Il pretesto è un tubo rotto e un insulto qualsiasi, che si dilata poi all’etnia, alla religione, alla vita. Sino ad arrivare in tribunale e diventare un caso politico che coinvolge anche il presidente libanese.
I due personaggi testimoniano in modo profondo la dolorosa memoria che li pervade per essere stati vittime e carnefici da bambini e da adulti; esprimono l’orgoglio che rende impossibile il perdono quando a essere toccata è l’essenza stessa di una persona; mostrano la violenza dei monoteismi contrapposti tra di loro che rendono Allah e la Trinità cristiana delle entità di sterminio.
I tribunali daranno la loro sentenza ma nel frattempo qualcosa è accaduto nelle azioni e nell’interiorità di Yasser e di Toni, un bisogno di conciliazione che va anch’esso al di là delle esplicite volontà di ciascuno. Perché, come afferma uno dei personaggi, «nessuno ha il monopolio della sofferenza» dentro la specie composta da «miserabili, che simili a foglie una volta si mostrano / pieni di forza, quando mangiano il frutto dei campi, altra volta cadono privi di vita» (Iliade, XXI, 464-466, trad. di Giovanni Cerri).

Più redenti

Maria Maddalena
di Garth Davis
Gran Bretagna, 2018
Con: Rooney Mara (Maria Maddalena), Joaquin Phoenix (Gesù)
Trailer del film

I miti, come i classici secondo Italo Calvino, sono quei racconti che hanno sempre qualcosa di nuovo da dire. In Europa il mito cristiano è naturalmente il più conosciuto, accolto, ripetuto. A tutti familiare e a tutti estraneo nella sua grandezza e nella sua assurdità del racconto di un padre che, per riparare i danni prodotti dalla propria evidente incapacità a produrre un mondo decente, non trova nulla di meglio che mandare suo figlio a farsi macellare. Lasciando per il resto tutto intatto nel dolore del mondo.
Che cosa attira così tanto in una storia come questa, più insensata di qualunque mito ellenico o induista? La Croce, questo attira. Un simbolo semplice e potente della condizione umana, della vita che ogni giorno trascina i membri di questa bizzarra specie che si crede speciale a proseguire sulla via del Calvario, vale a dire a campare ancora. Ci si identifica con questo Rabbi un po’ esaltato, molto ascetico, abbastanza sentimentale e soprattutto sicuro di ciò che dice e che fa. Ecco, aver descritto così Gesù è un merito del film di Garth Davis e dell’interpretazione di Joaquin Phoenix, perché dalle testimonianze che abbiamo su questo Maestro credo che l’immagine corrisponda abbastanza al modello.
Aver dato comunque preminenza alla figura di Maria di Magdala non sembra soltanto un effetto cinematografico dell’attenzione da tempo giustamente dedicata alla donna. Il Rabbi, infatti, accettava davvero femmine tra i propri seguaci. Nel mondo antico soltanto Pitagora e Platone avevano fatto altrettanto. Il film descrive Maria con caratteri sostanzialmente analoghi a quelli del Maestro. Un po’ meno sicura di lui e più fredda nella relazione con il mondo. Capace però di profondi slanci e soprattutto di un grande coraggio, prima nell’opporsi ai maschi della famiglia che la vorrebbero sposare a forza, poi nel redarguire gli altri apostoli sulla loro miopia a proposito delle vere intenzioni del Maestro. Con l’ironia tipicamente giovanile dei suoi 33 anni, il Cristo risorto appare soltanto a lei e non agli apostoli (l’episodio di Emmaus è un’altra cosa e qui in ogni caso non compare).
La seconda ragione del grande successo del mito di Gesù è, appunto, la Resurrezione. Pensare che dopo la dissoluzione della nostra unità psicosomatica, dopo la fine del tempo, possiamo tornare a vivere ancora e soprattutto farlo in una sperabile condizione di perenne felicità, è una tentazione troppo naturale e troppo forte per degli animali consapevoli di dover morire e che sono attaccati con le unghie e con i denti alla vita. E però non è un caso che al cinema la rappresentazione di Cristo risorto sia sempre stata un problema quasi insormontabile. Pasolini -se ben ricordo- rinuncia a descriverla. Jesus Christ Superstar la risolve in un ballo  pop, tutto lustrini e percussioni (peraltro molto belle). Persino Zeffirelli si limita a pochi secondi di inquadratura di Gesù con accanto a lui due discepoli che poggiano la testa sulle sue spalle; aggiungendo la frase «sarò con voi sino alla fine del mondo».
Ma con noi non c’è quest’uomo proclamato dio da altri, ben dopo la sua tragica fine. La vita umana è rimasta la stessa imbevibile broda, lo stesso crunch cranch delle ossa rotte, la stessa insolazione che qualche miracoloso pomataro promette ogni tanto di alleviare. E invece il sole ti brucia e la notte arriva.
Sulla resurrezione inciampa anche Maria Maddalena. Rimasto sino a lì un film sobrio e quasi mistico, dopo l’incontro tra Maria e Gesù risorto si conclude in un dialogo tra lei e gli apostoli che è persino imbarazzante nella sua moralistica prolissità. Meglio sarebbe stato chiudere l’opera sull’immagine del Cristo e della Maddalena che guardano insieme l’orizzonte.
È proprio difficile descrivere l’impossibile. Non c’è riuscito neppure Mathias Grünewald nel suo Altare di Isenheim conservato a Colmar. Il Risorto vi appare infatti come una specie di guru volante, anche un poco ridicolo. Molto più riusciti, direi splendidi, sono invece i soldati sotto di lui, travolti dalla luce ma sempre e ancora rotolanti nella sconfitta del dolore umano. Poiché sconfitta è il dolore e nulla redime la sofferenza. Aver convinto troppi umani del contrario è una delle peggiori conseguenze della fede cristiana.
«Bessere Lieder müssten sie mir singen, dass ich an ihren Erlöser glauben lerne: erlöster müssten mir seine jünger aussehen!»
[Migliori inni dovrebbero cantarmi affinché io possa credere nel loro Redentore; più redenti dovrebbero sembrarmi i suoi discepoli!; Nietzsche, Also sprach Zarathustra parte II, «Von den Priestern (Sui preti)»].

Il coraggio teoretico

Recensione a:
L’uomo che deve rimanere
La
 smoralizzazione  del mondo

di Eugenio Mazzarella
(Quodlibet, 2017; pp. 214)
in Discipline Filosofiche (26 luglio 2017)

La filosofia ha sempre il suo coraggio. Sempre. Anche nei momenti -e sono numerosi- nei quali altre potenze, altre pratiche e altre interpretazioni sembrano volerla sostituire, irridere, ignorare. L’uomo che deve rimanere esprime il coraggio teoretico e la pietas etica che, convergendo, dicono del mondo quel che accade, ne sondano a fondo le radici, ne prefigurano sviluppi e vie d’uscita.

Sant’Agata

Dal 3 al 6 febbraio scorsi Catania ha vissuto ancora una volta la sua Grande Festa. A essere celebrata, portata tra le strade, arricchita di offerte, ricolma di desiderio, amata come figlia madre sorella, è stata Agata, il cui nome greco indica valore e nobiltà. Ἀγάθη è infatti anche una manifestazione di Artemide, vergine intransigente come lei.
Hanno quindi ragione coloro che accusano questa festa di essere pagana. Il cristianesimo, in effetti, ha poco da spartire con il culto totale riservato al busto argenteo di Agata, a questo idolo che si muove per giorni e notti tra i suoi fedeli, dando loro passione, lacrime e gioia. Come accadeva per le antiche statue degli dèi, il busto di Agata non rappresenta la santa ma è la santa. La dimensione pagana di queste feste dimostra la tenacia degli antichi culti in Europa e mostra soprattutto la naturalità del paganesimo, che è fatto di materia, di corpi, di fisicità, come appare chiaro a chiunque assista alla festa agatina.
A chi, poi, deplora le inflitrazioni criminali in questa celebrazione, si risponde che hanno certo ragione, che la festa è in gran parte controllata dalla malavita, ma che è la città a essere banditesca e quindi lo è anche la sua festa più importante. Pretendere che le celebrazioni popolari siano pure e linde quando la borghesia e i ceti dirigenti di Catania sono in gran parte corrotti significa essere o in mala fede o ingenui. Significa in ogni caso non comprendere le strutture della vita collettiva. È Catania a essere mafiosa non sant’Agata.
Per un pagano disincantato è un piacere vedere la fede nell’idolo, sentire le voci gridare «Saccu o senza saccu semu tutti devoti tutti!», sapere che al rientro definitivo della statua -il 6 mattina- gli innamorati di Agata piangono, la trattengono, le chiedono di rimanere ancora un poco con loro. Gli enormi ceri portati a spalla e bruciati dappertutto rappresentano ancora una scintilla -sporca, certo, decaduta e miserabile ma sempre viva- della grande Luce ellenica e mediterranea.
Segnalo il progetto -e il video, bello e interessante- di Durga, un film francese dedicato a Catania e ai suoi miti, nel quale trova spazio e senso anche la dea Agata.

«Così fanno i pagani»

«Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come  è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt, 5, 43-48).
Quanti cercano di seguire davvero queste massime di Jeshu-ha-Notzri perdono una delle gioie della vita. Essa consiste nel vedere soffrire chi ci ha fatto soffrire; nel gustare la caduta di quanti produssero in noi lacrime, umiliazioni o tristezza; nel godere sino in fondo e con un sorriso della malattia, dell’abbandono, della rovina che afferra chi ci ha procurato dolore. A coloro che mi hanno ingannato, tradito, voluto del male -come costui, come uomini e donne che non hanno meritato il mio amore e la mia amicizia, come alcuni indegni soggetti incontrati in contesti professionali-, io auguro ogni sofferenza.
Ma in realtà i cristiani provano di frequente la gioia che qui sto cercando di descrivere. Loro che ben lontani dall’“amare i nemici” sono sempre stati i primi a massacrarli. Guerre di religione, roghi (Giordano Bruno sarà per sempre la maledizione dei papisti e Michele Serveto lo sarà per i protestanti), persecuzioni di streghe ed eretici, colonialismo, benedizione di tutte le guerre, complicità con i mafiosi e i pedofili, conflitti interni per il potere, sostegno a ogni sorta di tiranni, crimini vasti e di varia natura, costituiscono il contrappasso che condanna tali ipocriti. I cristiani negano la natura umana e però la praticano (e che altro potrebbero fare?), i pagani la seguono senza mentire, in primo luogo a se stessi:
«καὶ τὸ τοὺς ἐχθροὺς τιμωρεῖσθαι καὶ μὴ καταλλάττεσθαι (e vendicarsi dei nemici è più bello anziché riconciliarsi)»
(Aristotele, Retorica A, 9, 1367 a, 24).
«Ma ho forse torto a lamentarmi… la prova, io sono ancora vivo… e perdo dei nemici tutti i giorni!… di cancro, … di apoplessia, di ludreria… è un piacere come che si svuota il sacco!… non insisto… un nome!… un altro! ci sono dei piaceri nella natura…»
(Céline, Da un castello all’altro, in «Trilogia del Nord», Einaudi 2010, p. 24).
«οὐκοῦν ἐπὶ μὲν τοῖς τῶν ἐχθρῶν κακοῖς οὔτ᾽ ἄδικον οὔτε φθονερόν ἐστι τὸχαίρειν (gioire dei mali dei nemici non è né ingiusto né invidioso)»
(Platone, Filebo, 49 D).
«εἰ κεινόν γε ἴδοιμι κατελθόντ’Ἄϊδος  εἴσω / φαίνην κε φρέν ἀτερπου ὀιζύος ἐκλελαθέσθαι» [Se lo vedessi discendere dentro i recessi di Ade, / direi che un brutto malanno avrebbe scordato il mio cuore]. Questo dice Ettore di Paride, suo fratello, in Iliade, VI, 284-285.
Così fanno i pagani.

Cloaca

La verità sta in cielo
di Roberto Faenza
Italia, 2016
Con: Riccardo Scamarcio (Renato De Pedis), Greta Scarano (Sabrina Minardi), Maya Sansa (Maria), Valentina Lodovini (Raffaella Notariale), Shel Shapiro (John), Paul Randali (Monsignor Marcinkus), Alberto Cracco (il vescovo)
Trailer del film

La verità sul rapimento di Emanuela Orlandi «sta in cielo». Sulla terra rimane l’archiviazione definitiva del caso di questa ragazzina, cittadina dello Stato della Città del Vaticano, che scomparve nel giugno del 1983 e della quale quasi più nulla si è saputo. Ciò che è certo è l’esistenza ufficiale di un dossier negli archivi vaticani, che però la magistratura italiana non è riuscita a ottenere, nonostante le numerose richieste formulate nel corso degli anni. Perché? Che cosa c’è di così indicibile dentro e dietro questo caso?
Roberto Faenza racconta -in modo spesso didascalico e pedante- l’oscura vicenda di Emanuela Orlandi a partire da Mafia Capitale e dalle confessioni di Sabrina Minardi, compagna di Renato De Pedis, un criminale di primo livello che è stato amico di molti politici, del finanziere Roberto Calvi, di Monsignor Marcinkus, presidente dell’«Istituto Opere di Religione», vale a dire la banca vaticana.
Marcinkus (nella foto insieme a Wojtyla) è stato accusato di legami con la mafia e fu protetto sino alla fine da Giovanni Paolo II. L’ipotesi è che De Pedis avesse procurato a Marcinkus e Wojtyla i molti soldi necessari per sabotare il governo comunista della Polonia e altri governi marxisti in tutto il mondo. Tale danaro, di origine mafiosa, sarebbe stato dato a Calvi affinché lo prestasse allo IOR, il quale però non restituì il capitale. Emanuela Orlandi sarebbe stata rapita e uccisa da De Pedis come avvertimento al Vaticano.
Calvi finì impiccato sotto un ponte di Londra. Nel 1990 anche De Pedis venne ucciso tra le strade di Roma. La sua salma fu successivamente tumulata nella Basilica di Sant’Apollinare, privilegio rarissimo per un laico.
Qualunque sia la verità su questo gorgo di violenza, usura, ricatti e corruzione, esso sembra dare ancora una volta ragione alle parole che Dante Alighieri fa pronunciare a San Pietro nel Canto XXVII del Paradiso (vv. 22-27):

 «Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio,

fatt’ ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde ‘l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa».

Dante afferma dunque: «Il pontefice romano usurpa la mia sede terrena, la quale agli occhi di Cristo è priva di un successore degno della sua presenza. Tale usurpatore ha trasformato il luogo nel quale sono seppellito in una cloaca, in una fogna colma di sangue e di puzza; sino al punto che Satana -il perverso- che fu cacciato dal paradiso, trova nel Vaticano il suo conforto». Difficile enunciare parole più terribili di queste. La verità sta in cielo, sulla terra rimane il male vaticano.

Sottoproletariato

Non essere cattivo
di Claudio Caligari
Italia, 2015
Con: Luca Marinelli (Cesare), Alessandro Borghi (Vittorio), Roberta Mattei (Linda), Silvia D’Amico (Viviana)
Trailer del film

Vittorio e Cesare sono due dei tanti sottoproletari che fra Ostia e Roma tentano di fare soldi comprando e vendendo droghe. Il primo cerca ogni tanto di cambiare vita, di trovare un lavoro, di creare legami. Il secondo è spesso strafatto, sempre in bilico tra violenza e fragilità. Tutto intorno a loro si agita un’umanità senza luce.
La narrazione di Caligari è asciutta, gli eventi sembrano accadere al di là della volontà stessa dei personaggi ma nello stesso tempo con la loro piena partecipazione. Lo sporco, il degrado, la miseria esistenziali sono profondi, anche se di tanto in tanto illuminati da qualche barlume di consapevolezza.
Nell’osservare queste vite, il loro fondamento, le loro scelte e i loro esiti, si comprende meglio con quanta ragione Karl Marx definisce il sottoproletariato in termini politicamente sprezzanti, come strumento di ogni possibile potere reazionario. E si comprende anche come il fallimento delle scelte internazionali sul mercato delle droghe sia probabilmente voluto. La ragione sta nel fatto che se interi gruppi sociali disagiati vengono imbottiti di stupefacenti, la loro capacità di rivolta e di coscienza politica sarà annullata e i governi potranno stare tranquilli nel perseguire i propri interessi anche di classe.
Ogni cedimento alla commiserazione verso il Lumpenproletariat (proletariato straccione), sia esso autoctono o migrante, è un cedimento al Capitale. Una delle più profonde ragioni della fine della sinistra in Europa è l’aver dimenticato questa semplice tesi marxiana. So bene che quanto dico può apparire molto duro o persino ‘reazionario’ ma mi sembra evidente che i complici della reazione sono coloro che sostengono gli interessi della finanza e del capitalismo. Tra tali interessi rientrano le politiche proibizionistiche sulle droghe -e quindi l’enorme loro diffusione all’interno di ampi strati della popolazione giovanile e non solo- e le politiche di accoglienza indiscriminata dei migranti. Quest’ultima opzione è certamente cristiana ma non è comunista. Il vero leader della sinistra ‘umanitaria’ è il Pontefice Romano.
Sino a che quanti si credono sinceramente ‘di sinistra’ non comprenderanno che molte delle loro tesi e opzioni politiche non hanno nulla a che vedere con il marxismo, il Capitale finanziario potrà non soltanto stare tranquillo ma continuare la propria opera di distruzione del Corpo sociale e dell’ambiente naturale.
A leggerli bene, anche film come Non essere cattivo, con i suoi ottimi e credibili interpreti, mostrano ciò che dovrebbe essere chiaro a chiunque abbia delle conoscenze storico-sociali di base e non venga accecato dai sentimentalismi.

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