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De Reditu

(Il ritorno)
di Claudio Bondì
Italia 2003
Con: Elia Schilton (Claudio Rutilio Namaziano), Roberto Herlitzka (Protadio), Rodolfo Corsato (Minervio), Marco Beretta (Rufio), Caterina De Regibus (Sabina), Roberto Accornero (Vittorino), Xhilda Lapardhaja (Sacerdotessa)
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Dopo il sacco di Roma compiuto dai Goti (410) -evento capitale che ispirò anche il De civitate Dei– l’ex praefectus urbi Claudio Rutilio Namaziano decide di tornare in Gallia per verificare i danni alle proprie terre ma soprattutto per tentare di organizzare una resistenza pagana contro i barbari e i cristiani.

Di questo viaggio è rimasto il racconto, dal quale Bondì ha tratto un film molto bello. Interiore, sobrio, raffinato, con qualcosa di arcaico e simile alla splendida Odissea di Franco Rossi. Vi si mescolano la fedeltà al Sacro contro il disincanto cristiano, la malinconia per la sconfitta ormai inevitabile, il tradimento e l’opportunismo delle classi dirigenti passate alla fede dei vincitori, il fanatismo e la miseria culturale dei monoteisti, la forza indistruttibile della natura e degli Dèi. Sullo sfondo di paesaggi che sembrano condividere il crepuscolo e la bellezza del paganesimo, Rutilio afferma che «chi crede in un unico Dio è disposto a parlare solo con lui e con chi è convinto della medesima verità» e il suo amico Protadio è consapevole che «siamo anime antiche».

Il nastro bianco

(Das Weiße Band)
di Michael Haneke
Austria, Francia, Germania 2009
Con: Christian Fredel (il Maestro), Burghart Klaußner (il Pastore), Susanne Lothar (l’Ostetrica), Ulrich Tukur (il Barone), Rainer Bock (il Medico), Leonie Benesch (Eva)
Fotografia di Christian Berger
Palma d’oro al Festival di Cannes 2009

Das weisse-band

1914. In un villaggio della Germania del Nord si verificano inspiegabili fatti di violenza. Il medico cade da cavallo per un filo invisibile teso tra gli alberi, una contadina muore nella segheria, due bambini -il figlio del barone e quello dell’ostetrica- vengono seviziati, un uomo si suicida, un magazzino è dato alle fiamme. Dentro le case si sfoga una violenza più formale ma altrettanto dura. Specialmente nella famiglia dell’integerrimo pastore domina la violenza del padre verso i figli, i quali la diffondono a loro volta nel villaggio…

Un bianco e nero secco e antico disegna la vicenda corale della mostruosità umana. È lo stesso contesto cristiano protestante dentro cui Nietzsche comprese, con la sua profonda limpidezza interiore, la falsità strumentale delle morali, la ferocia del monoteismo, la perversione delle persone per bene. Costruito come un thriller antropologico, Das Weiße Band descrive l’esistenza quotidiana di una piccola comunità simile a tante, dove anche gli eventi più estremi diventano del tutto plausibili, dove bambini e adulti seguono gli stessi impulsi distruttivi. Bravissimi i giovani interpreti, specialmente nel dialogo in cui la figlia del medico spiega al fratello più piccolo il fatto che tutti debbano morire. È uno dei momenti chiave di un film elegantissimo nelle soluzioni formali e inquietante nella colpa collettiva.


Apocalisse

Su un forum universitario alcuni studenti discutono a proposito dei testi e delle modalità d’esame di una disciplina umanistica. Uno di loro chiede: «Scusate ma qual’è [sic] questo libro dell’Apocalisse?? Non c’è nella bibbia!! ????».
Ecco, questa è l’Apocalisse per il nostro sciagurato e cattolico Paese e per le sue istituzioni educative.

Trattato dei tre impostori

Anonimo
TRATTATO DEI TRE IMPOSTORI. La vita e lo spirito del Signor Benedetto de Spinoza
(Traité des Trois Imposteurs o Esprit de Spinoza)
A cura di Silvia Berti
Prefazione di Richard H. Popkin
Einaudi 1994
Pagine LXXXIV-313

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La vicenda di questo scritto è singolare. Sembra sia stato composto agli inizi del Settecento innestandosi sulla tradizione averroistica del leggendario De tribus impostoribus ma in realtà rielaborando e incastrando fra di loro testi di Spinoza, Hobbes, Vanini, La Mothe Le Vayer, Charron, Naudé, Lamy. Condannato, bruciato, gelosamente conservato e appassionatamente letto, sembrava lontano da ogni chiarificazione filologica fino a quando, nel 1985, Silvia Berti scoprì a Los Angeles un esemplare dell’edizione Levier del 1719, del quale qui presenta l’edizione critica. La curatrice lo attribuisce, con buoni argomenti pur senza una prova definitiva, al diplomatico olandese Jan Vroesen. In ogni caso, si tratta di uno dei documenti più significativi della letteratura libertina.

Rivive in esso il sarcasmo averroistico nei confronti della Lex Moysi adatta a uomini in stato infantile e stupido; della Lex Christi contronatura e quindi impossibile da praticare allorché obbliga al disprezzo di sé, all’amore dei nemici, alla non resistenza verso il malvagio; della Lex Mahumeti nata da un popolo edonista e sfrenato, compiacente verso i propri vizi e abitudini. Ma su questa base l’Autore innesta fortemente il razionalismo di Spinoza e la filosofia politica di Hobbes, creando un testo dirompente nel suo tempo…e anche nel nostro. In esso si sottolinea come le religioni riducano il divino a una misura del tutto umana, abbassandolo in tal modo al nostro livello con l’attribuzione di sentimenti quali l’amore, la gelosia, la conquista. L’esempio più evidente di tale riduzione è la concezione finalistica di un Dio che crea la natura per l’utilizzo umano e gli uomini per adorare lui. Allo scopo di confutare il finalismo l’Autore dell’Esprit traduce in francese gran parte dell’Appendice alla prima parte dell’Ethica. Da Spinoza deriva anche la dura critica al valore veritativo della Bibbia, ridotta a un insieme di «Fables impertinentes & ridicules» (cap. III, righe 61-62), frutto delle tradizioni e delle mistificazioni di un popolo ignorante. L’intellettualismo spinoziano permea la fiducia del Traité nel sapere che illumina e affranca dall’ignoranza, la quale «a produit la Crédulité, la Crédulité le Mensonge, d’où toutes les Erreurs qui régnent aujord’hui sont sorties» (I, 199-201). Va comunque rilevato che spesso l’Esprit mescola i testi utilizzati e li forza verso conclusioni incompatibili con quelle dei loro autori. La metafisica spinoziana, in particolare, è piegata ad esiti materialistici assai più consoni agli Idéologues che all’Ethica. L’identificazione della Sostanza con l’attributo dell’estensione, e quindi della materia, è attuata anche per dimostrare che l’anima «étant de même nature dans tous les Animaux, se dissipe dans la mort de l’Homme, ainsi que dans celle des Bêtes» (XX, 22-24).

La lezione di Hobbes è anch’essa evidente nella discussione sul significato e sull’uso politico delle religioni. Esse nascono dalla paura e dal timore intrecciati ma poi vengono stabilite, codificate, diffuse da chi se ne serve come strumento indispensabile ed efficacissimo di dominio, una vera e propria «Drogue, pour entretenir le Credit & la Reputation de leur Théatre» (XVII, 267-268). Senonché le religioni diventano subito occasione di conflitto e di disordine fra gli stati e all’interno di essi. Basti osservare come le varie confessioni in cui il cristianesimo si è diviso abbiano reso questi credenti dei «meurtriers, perfides, traistres» pronti a infierire «les uns contre les autres par toutes espéces d’inhumanité» (XIV, 62-63). Cosa tanto più assurda e inaccettabile in quanto «la Nation, le Pays, le Lieu, donne la Religion», che mediante tale relativismo viene ulteriormente abbassata nella sua pretesa di verità (XIII, 137). Com’è quindi possibile che i monoteismi dominino culture e vite? Ciò è il frutto negativo di una molteplicità di circostanze: l’ambizione sfrenata dei loro fondatori, l’utilizzo politico, l’ignoranza delle masse. Su quest’ultimo punto il Traité è durissimo: «Le Peuple (j’entens par ce mot le Vulgaire ramassé, la tourbe & lie populaire, Gens, sous quelque couvert que ce soit de basse, servile & mechanique condition) est une Bête à plusieurs tête, vagabonde, errante, folle, étourdie, sans conduite, sans esprit, ni jugement» (XV, 47-51). Il popolo non può che cadere quindi in braccio ai più abili, ai grandi impostori. Questo e nient’altro sarebbero Mosé, Gesù Cristo, Maometto.

Qui l’Esprit attinge il suo livello più radicale di demistificazione del grande mito dell’Europa cristiana, quello che anche i più accaniti avversari delle Chiese esitano a coinvolgere, che persino Spinoza pose al riparo dalla propria critica: la persona di Gesù. Per l’Autore del Trattato Jeshu-ha-Notzri fu figlio dell’adulterio di una donna ebrea con un soldato romano, fece tesoro dell’esperienza di Mosè e dei Profeti; colse l’attesa messianica del suo popolo ed enunciò l’assurda pretesa che nessun altro impostore aveva mai osato: di essere Dio egli stesso. L’enormità e l’irrazionalità di tale assunto spiegano, per l’Autore dell’Esprit, la condanna cristiana della sapienza e della ragione. È davvero necessario che nel suo regno Gesù «n’admet que les Pauvres d’esprit, les Simples & les Imbéciles» (VIII, 123-124). Sono qui evidenti l’eredità polemica e il radicalismo di Giulio Cesare Vanini, arso vivo dall’Inquisizione nel 1619.

Nonostante quindi le ingenuità del testo, le sue forzature interpretative, il tono sarcastico e poco teoretico, la sua natura di mosaico di molti autori, questo libro è di grande importanza anche come manifesto del nascente Illuminismo, soprattutto delle sue correnti più radicali.

Ricordi – A se stesso

Marco Aurelio Antonino
(Ta Eis Eauton, 172 d.C.)
Introduzione di Max Pohlenz
Traduzione di Enrico Turolla
Commento di Marcello Zanatta
Testo geco a fronte
Rizzoli, Milano 1997
Pagine 770

Marco Aurelio ama e disprezza gli uomini in una trama di sentimenti davvero inestricabile: egli disdegna l’opinione del volgo la cui ammirazione è rivolta immancabilmente a quanto c’è di più basso, è convinto che il saggio non possa lamentarsi della malvagità dei molti poiché «è follia la pretesa che i malvagi non commettano colpe. Desiderio impossibile veramente!» (XI, 18) e tuttavia invita se stesso ad accettare e perfino amare coloro che la sorte gli ha posto accanto. Una contraddizione che diventa splendida in V, 20: «Un uomo è cosa, sotto un certo aspetto, in rapporto assai vicino con la mia persona, in quanto io debbo far del bene e debbo sopportare un mio simile; tuttavia in quanto taluni insorgono contro il loro dovere, in questo senso l’uomo diventa per me cosa indifferente non meno del sole, del vento, d’una bestia».
Qui appaiono chiarissime la comunanza e la differenza fra lo stoicismo e il cristianesimo. Anche Marco Aurelio denigra il corpo e i piaceri a esso legati, ribadisce di continuo una sorta di vanitas, omnia vanitas, giudica fumo «il ricordo, la gloria e qualsiasi altra cosa» (IX, 30) mostrando di condividere in pieno il nichilismo cristiano; come Agostino, anche Marco Aurelio indirizza l’interiorità socratica verso la dimensione morale e non più metafisica; anche l’imperatore trasforma la filosofia da indagine sulla natura, la vita, la bellezza in meditatio mortis.
E tuttavia egli rimane un romano che vive nell’orizzonte degli dèi che tutto intrecciano in una Necessità non etica ma naturalistica («Concedi che la Parca faccia il suo intreccio con quegli eventi che vuole» [IV, 34]; «Qualunque cosa ti accada, da secoli senza numero t’era stata preparata. E l’intreccio delle cause ha preparato la tua esistenza, da tempo infinito intessendola insieme con lo svolgersi di quella singola cosa» [X, 5]), che immagina il mondo come un unico grande corpo pulsante di trasformazioni incessanti e quindi di vita e di morte; che attacca esplicitamente il volontarismo cristiano ribadendo per intero l’etica intellettualistica dei Greci: «Quale l’arte tua? Esser buono. E questa meta come puoi raggiungere se non per mezzo d’una preparazione intellettuale, uno studio profondo sull’universale natura, uno studio sulle caratteristiche proprie della costituzione umana?» (XI, 5; cfr. anche XI, 3). L’etica diventa antropologia. La sofferenza non è frutto di una colpa ma di un errato giudizio della mente che valuta come essenziali cose a lei in realtà indifferenti.

Le splendide e intime riflessioni rivolte dall’imperatore a se stesso possiedono un sapore amaro, come il presentimento di una sconfitta, di una rinuncia alla forza straripante della vita. Dei tre elementi che secondo Eric Dodds definiscono il saggio stoico –spassionato, spietato e perfetto– Marco Aurelio sembra possedere la perfezione morale e l’indifferenza verso le passioni ma non quella energia che, se necessario, diventa riso e sorriso sulla commedia tragica e grottesca della vita e degli umani.

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