Skip to content


Woland

Il Maestro e Margherita
(Master i Margarita, 1940)
di Michail Bulgakov
Trad. di Vera Dridso
Einaudi, Torino 1996
Pagine 448
(Edizione Biblioteca di Repubblica)

Woland prende casa a Mosca negli anni Venti con il suo sèguito, composto dal fedele Korov’ev-Fagotto, dall’enorme gatto nero Behemoth, da Azazello, dalla strega Hella sempre nuda e da Abadonna, la nuda morte. Gli occhi di Woland sono la sua identità, perché «la lingua può nascondere la verità, ma gli occhi mai» (p. 188). E gli occhi di questo viaggiatore, consulente, mago, ipnotizzatore, artista, sono «una scintilla dorata, che avrebbe penetrato fin nell’intimo qualsiasi anima, il sinistro vuoto e nero, una specie di stretta cruna angolare, un orifizio nel pozzo senza fondo di tutte le tenebre e di tutte le ombre» (287).
Woland e i suoi assistenti organizzano uno straordinario spettacolo al Teatro di Varietà della capitale russa. In quella serata indimenticabile essi dimostrano di conoscere più di chiunque altro l’umanità, i suoi desideri, le passioni, l’ingenuità e la meschina avidità. Dopo quella serata lui e i suoi compagni causano incendi, prodigi, follie di ogni genere. Perché Woland è –come recita l’epigrafe dal Faust di Goethe- «una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene»; infatti, «che cosa farebbe il tuo bene, se non esistesse il male? E come apparirebbe la terra, se ne sparissero le ombre? Le ombre provengono dagli uomini e dalle cose» (406).
Per il suo annuale ballo di gala, questa entità chiede di fare da padrona di casa a Margherita Nikolaevna, una donna bellissima e intelligente, che accetta l’invito solo perché ha compreso che in questo modo potrà di nuovo riavere l’uomo che ama con un trasporto totale e che l’invidia e la malvagità hanno ridotto a vivere in una casa di cura per malati di mente. Il Maestro che Margherita adora ha scritto una storia di Ponzio Pilato che non è piaciuta al potere comunista, che ha indotto l’Autore a tentare di bruciare il proprio manoscritto ma «nulla spariva, l’onnipotente Woland era davvero onnipotente» (337), tanto da restituire a Margherita il suo Maestro e al Maestro quella sua opera che è il vero, enigmatico, denso nucleo di questo romanzo di Bulgakov.

Il procuratore della Giudea sa bene che l’accusato che gli hanno posto davanti in quella mattina del giorno quattordici del mese di Nisan, quel «filosofo che aveva escogitato una cosa così incredibilmente assurda come la bontà universale degli uomini» (360), quell’ingenuo delinquente Jeshu-ha-Notzri, è innocente. Ma, per tante ragioni, non spinge la propria azione sino a salvarlo. Perché Pilato odia quell’orrenda fogna di fanatici che è Jerushalajim, perché è stanco di tutto, perché il Sinedrio tiene davvero alla morte di quello straccione, perché –soprattutto- è un poco vile. Ma quella condanna, di cui pure dichiara di lavarsi le mani, quella morte sul monte dietro la città, quella prova che «ogni potere è violenza sull’uomo», come Jeshua dichiara (35), non abbandoneranno più la sua vita e i suoi pensieri. L’Hanozri e il procuratore staranno sempre insieme -«se parleranno di me, parleranno subito anche di te!» (361) e questa immortalità, questa gloria senza tramonto, questa continua rimemorazione del suo nome nelle chiese di tutto il mondo, saranno parte della condanna di Pilato.

Ma proprio Margherita e il suo Maestro daranno a Pilato la pace, liberandolo dal suo destino di sogni e di incubi, di immobilità e di memoria, di aridi e sempre uguali pleniluni…«così parlava Margherita…e la memoria del Maestro, l’inquieta e martoriata memoria del Maestro cominciò a spegnersi. Qualcuno lo lasciava libero, come poco prima egli aveva lasciato libero l’eroe da lui creato. Questo eroe era scomparso, era scomparso irrevocabilmente, perdonato nella notte fra il sabato e la domenica, il figlio del re astrologo, il crudele quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato» (432-433), il vero protagonista di questo inquietante, ironico, struggente e magnifico romanzo.

Myškin

L’idiota
(1869)
di Fëdor Dostoevskij
Trad. di Alfredo Polledro
Con un saggio introduttivo di Vittorio Strada
Einaudi 1981
Pagine XXXII-609

Una raffinata barbarie, una giovane decadenza, un segno e un’eco di antiche civiltà, una speranza. Nel principe Myškin e nei grandi e piccoli personaggi che lo circondano vive la Russia santa e tellurica. La presenza del Cristo si staglia come impossibile incarnazione dell’Ideale, nella consapevolezza che «la parola “cristianesimo” è un equivoco-, in fondo è esistito un solo cristiano e questi morì sulla croce. Il “Vangelo” morì sulla croce» (F. Nietzsche, L’anticristo, trad. di F. Masini, in «Opere», vol. VI, tomo 3, Adelphi 1975, § 39, p. 214). L’immagine che forse meglio descrive il Cristo è quella di un “idiota”, un essere felice e ignaro ma anche turbato e malato, dal grande cuore e di una altrettanto grande ingenuità.
Questo idiota diventa il catalizzatore dei sentimenti di chi lo incontra. Alla sua luce si fanno chiari l’odio, l’abiezione, la stravaganza, la generosità, l’orgoglio, la vigliaccheria, la rivolta, la stupidità, l’amore degli umani.
Questo principe ingenuo e bambino viene amato con passione dalla due più contorte e potenti figure femminili del romanzo. «Sai tu che una donna è capace di tormentare un uomo con le sue crudeltà e le sue derisioni senza provare il più piccolo rimorso, perché ogni volta che lo guarda pensa tra sé: “Ecco, ora lo torturo a morte, ma in cambio, poi, lo ricompenserò col mio amore…”?» (pag. 361); «La odierai per tutto l’amore che le porti oggi, per tutte queste torture che ora provi» (212).
E però Myškin non può amare come un uomo, il suo è un sentimento che proviene da un’altra regione dell’essere, da un altro universo di significati e di azioni. La sua vita è una vicenda sentimentale e barbarica, desiderante e dolorosa, sanguinosa e vitale, religiosa e nichilistica. Una vicenda profondamente orientale. L’Occidente è troppo consapevole o forse semplicemente vive in modo diverso la sua volontà di pienezza e di nulla.
Ma L’idiota non è soltanto la testimonianza di una civiltà nichilistica. Al di là del suo svolgersi, del suo esito e della miriade di eventi che racconta, questo libro contiene una matura fierezza: l’orgoglio di un’intelligenza che sa indagare nei meandri dell’umano, che sa trasformare la morte e il sacrificio nella luce della letteratura e della poesia. «Ma l’anima altrui è tenebra, e anche l’anima russa è tenebra, per molti è tenebra» (227).

Guerra di religione

È uno spettacolo. Banchieri di Dio –Ettore Gotti Tedeschi, membro dell’Opus Dei- cacciati in malo modo. Improbabili “maggiordomi del Papa” dati in pasto alla pubblica opinione per circoscrivere la faida e insieme assestare un altro colpo al Pastore tedesco. Il salesiano cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone, la massima autorità del Vaticano dopo il Sommo Pontefice, ormai accerchiato e proprio per questo sempre più feroce. Perché stupirsi? La Chiesa papista funziona da millenni in questo modo. Basta conoscere un poco la storia dell’Europa per rendersene conto. Le novità, semmai, sono due: la più significativa è che le massime autorità vaticane stanno perdendo la testa e non rispettano più le forme, il silenzio, quel meraviglioso «Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire» (I Promessi sposi, cap. XIX) che il cattolico Manzoni ha descritto meglio di ogni altro; la seconda è l’incapacità di far fronte a un sistema mediatico attentissimo ormai a ogni sospiro. Si tratta, come si vede, di due novità convergenti. Ma usciranno anche da questa burrasca. Sono troppo antichi e troppo esperti. Ne hanno viste di peggio.

La domanda inammissibile, invece, è quella di chi si chiede -preoccupato, triste o scandalizzato- “ma che cosa c’entra tutto questo con il Vangelo?”. C’entra. E molto. «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano» (Lc., 6, 27-28). Quando si propongono un’antropologia e un’etica impossibili e dunque sbagliate, come quelle riassunte da questo brano evangelico, la conseguenza non può che essere una: vista l’impraticabilità di una simile utopia antinaturalistica, ci si sente di fatto autorizzati ai peggiori comportamenti poiché rispetto a tali angeliche sublimità siamo in fondo tutti dei poveri peccatori e dunque giustificati a peccare, tanto più se lo facciamo a difesa e in nome della Chiesa di Dio.
Ma la responsabilità maggiore non è dei monsignori, dei cardinali, dei pontefici romani. È dei cattolici. È dei fedeli che continuano a sostenere la potenza politica e ideologica della Chiesa papista e in questo modo si fanno complici di tutte le sue nefandezze. La responsabilità è della pigrizia, del pregiudizio, della superficialità, della fede acritica, dell’obbedienza di milioni di laici. La responsabilità è dei cristiani e della loro ingenuità. Perché l’ingenuità è un’arma che le forze più ciniche e determinate sanno volgere sempre a proprio vantaggio. In questo caso a vantaggio delle bande vaticane impegnate in una guerra di religione.

I Greci, identità e differenza

L’opera intelligente e monumentale che Einaudi ha dedicato ai Greci -quattro volumi in sei tomi- è tutta costruita sotto il segno dell’identità e della differenza. Salvatore Settis afferma che uno dei suoi obiettivi consiste nell’«imparare a riconoscere la grecità come estranea e familiare al tempo stesso» (I Greci. Storia Cultura Arte Società, vol. III I Greci oltre la Grecia, Einaudi 2001, pag. XXXV).
I Greci ebbero rapporti variegati e profondi con Traci, Sciti, Anatolici, Iranici, Indiani, Ebrei, Arabi, Iberi, Celti, Fenici, Egizi. Con questi ultimi, in particolare, il legame fu stretto e testimoniato in modo esplicito da Platone, il cui dualismo conserva importanti legami anche con la cultura indiana e iranica. Più in generale, la concezione greca del Tempo deve molto a quel «doppio aspetto tipicamente egiziano di sterminata estensione e di eterno ritorno [che] appartiene ai tratti tipici degli dèi egizi Ra, Ammone, Ptah e Osiride, confluiti in Serapide» (Assmann, pag. 431).
Profonde e complesse sono anche le relazioni fra la Grecità e il cristianesimo, l’Islam, Bisanzio. Roland Kany dimostra in modo convincente che «un cristianesimo senza grecità non è mai esistito» (569), non foss’altro perché i testi sacri di quella religione sono tutti scritti non nella lingua del profeta aramaico Gesù ma in quella del filosofo Aristotele. Non bisogna dimenticare che i roghi dei libri, pratica sconosciuta al mondo antico, cominciarono con l’imperatore Costantino, il quale fece bruciare i testi di Porfirio, avversario dei cristiani. La furia cristiana contro gli Èllenes costituì probabilmente la prosecuzione del giudaismo rabbinico che si opponeva con tutte le sue forze all’educazione “alla greca”, la quale «sottrarrebbe tempo allo studio della Legge ebraica» (Zonta, 682).
La differenza fra grecità e cristianesimo rimane così netta «che nel III secolo d.C. il termine ellenismos venne a designare presso gli autori cristiani il paganesimo nel suo insieme e non semplicemente o esclusivamente la cultura dei Greci» (Savalli-Lestrade, 41). L’identità ritorna in una delle eredità più tenaci che il mondo antico abbia trasmesso al cattolicesimo, mascherata ma non distrutta dai tre monoteismi vincitori, se si pensa che «i discendenti degli dèi antichi sono i nostri santi e non il dio unico delle speculazioni filosofiche» (Troiani, 224). Bisogna sempre stare attenti al rischio di «adeguare i Greci al nostro senso comune […]; una strada rassicurante che pone al riparo dal dover pensare il diverso e, più inquietante ancora, il diverso che ci appartiene, il diverso dentro di noi» (Lanza, 1462).
Per quanto studiati, amati, imitati, i Greci rimangono un’alterità radicale rispetto al mondo che li ha sostituiti. Se dovessimo adeguarci ai loro parametri antropologici, politici, religiosi, rimarremmo sconcertati da un radicale antiumanismo, da un’oggettività implacabile e lontanissima dal nostro sentimentalismo, dal loro disprezzo verso i tristi e i malriusciti. Ogni tentativo di accostarci a essi deve dunque partire dall’ammissione della loro radicale distanza. Ma senza questa differenza non ci sarebbe la nostra identità.

La pace femminile

E ora dove andiamo?
di Nadine Labaki
(Et maintenant on va où?)
Francia, Libano, Egitto, Italia, 2011
Con: Nadine Labaki (Amale), Claude Msawbaa (Takla), Layla Hakim (Afaf), Antoinette El-Noufaily (Saydeh), Yvonne Maalouf (Yvonne)
Trailer del film

Un gruppo di donne vestite di nero avanza danzando e battendosi il petto con le fotografie dei propri morti. Vanno al cimitero, dove si divideranno tra le tombe cristiane e quelle musulmane. In un villaggio senza nome di un indeterminato Vicino Oriente l’imam e il prete cattolico tentano di mantenere un clima di pace tra le due comunità. Le tensioni però sono sempre pronte a emergere, sino a un evento che sembra spalancare le porte al reciproco massacro. Ma le donne -tutte, islamiche e cristiane- ricorrono a ogni stratagemma pur di evitare il conflitto: dalle presunte visioni della madonna all’ingaggio di alcune danzatrici ucraine per distrarre i maschi, dal seppellimento delle armi alla preparazione di dolci corretti all’hashish.

Divertimento e dramma si mescolano in questa parabola che va oltre il particolare contesto libanese e mostra con intelligenza e lievità la natura irrazionale di ogni conflitto, di ogni cedimento alle pulsioni che comportano anche la fine del pur di raggiungere la distruzione dell’altro. La guerra è un enigma evoluzionistico, politico, metafisico che millenni di riflessione hanno illustrato in tutti i modi, non riuscendo in alcun modo a debellarne la furia. Lo sguardo e il tocco femminili di questo film si pongono totalmente dalla parte della donna, vista come madre e amante pronta a tutto pur di proteggere i propri nati e i propri uomini dalla loro stessa furia, in una costruzione corale che è l’elemento più riuscito dell’opera. Il significato del titolo viene svelato nella scena finale e nella battuta conclusiva, ancora una volta capaci di mescolare le differenze e farne una ragione di ricchezza invece che di odio.

Il villaggio di cartone

di Ermanno Olmi
Con: Michael Lonsdale (il vecchio prete), Rutger Hauer (il sacrestano), El Hadji Ibrahima Faye (il soccorritore), Irma Pino Viney (Magdha); Fatima Alì (Fatima), Alessandro Haber (il graduato), Massimo De Francovich (il medico)
Italia, 2011
Trailer del film

Una chiesa viene spogliata dei suoi arredi e chiusa, non si sa bene perché. Il vecchio prete che vi ha trascorso l’intera vita non si rassegna e continua a creare frammenti di culto nei suoi spazi. Una notte arrivano dei clandestini nordafricani, guidati da un ingegnere con permesso di soggiorno e da una prostituta. Fra di loro anche qualcuno che vorrebbe farsi saltare in aria per protesta contro l’ingiustizia perenne del mondo. Tra le panche e l’altare queste persone costruiscono i loro spazi provvisori di cartone. Il sacrestano chiama le forze dell’ordine. Mentre il prete sembra ormai alla fine, rimane un sospeso silenzio su tutto.

Arrivato agli ottant’anni, il cattolico Ermanno Olmi dice quello che pensa senza più mediazioni. E quello che pensa è assai duro contro la pretesa di rendere fuori legge intere popolazioni, di serrarsi nello sfacelo del presente come fosse un immutabile sempre. L’epigrafe conclusiva fa infatti riferimento alla necessità di intervenire sulla Storia affinché essa non appaia -come all’angelo di Klee e di Benjamin- soltanto quale paesaggio di rovine. Il film è del tutto simbolico in ogni suo personaggio, battuta, immagine. A volte i dialoghi sono un poco ingenui e retorici ma questo regista ha certo la capacità di trasformare luoghi e oggetti quotidiani in una figura del sacro.

Mente & cervello 82 – Ottobre 2011

Hans-Georg Gadamer, 102. Bertrand Russell, 98. Ernst Jünger, 103. Karl Popper, 92. Sono gli anni di vita di alcuni filosofi del Novecento. Una bella età, vero? È soltanto una piccola conferma empirica di quanto l’epidemiologia cognitiva va scoprendo con «risultati inequivocabili: più bassa è l’intelligenza di una persona, misurata secondo i test, e maggiore è il rischio che questa corre di avere una vita breve, di andare incontro a disturbi sia fisici che mentali in tarda età e di morire a causa di malattie cardiovascolari, suicidio o incidente» (I.J.Deary, A.Weiss, G.D.Batty, p. 28). Certo, si potrebbero fare altrettanti nomi di personaggi intelligentissimi morti piuttosto giovani. E dunque «forse non è essere intelligenti il fattore chiave per vivere a lungo; l’aspetto cruciale potrebbe essere agire e prendere decisioni da persona intelligente» (Id., 33), come -ad esempio- non fumare, evitare di dare troppa importanza a quanto ci succede, guardarsi dalle passioni distruttive.
Dell’intelligenza umana è parte assolutamente centrale la parola. Il linguaggio è davvero l’acquario nel quale noi, pesci parlanti, nuotiamo per l’intera esistenza. «Il mondo del felice è un altro che quello dell’infelice» (L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, trad. di A.G. Conte, Einaudi 1980, prop. 6.43, p. 80). Perché? Una ragione sta nel fatto che tutto ciò che si vive, compreso il dolore e la gioia, lo si vive in maniera linguistica, lo si pensa in termini che hanno un significato. «I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo» (Ivi, prop. 5.6, p. 63) e dunque gli eventi assumono la loro valenza più profonda in relazione non soltanto a come accadono ma anche a come li penso e li dico. Perché «tutto si risolve in un cervello che cerca senso nelle cose, anche dove non esiste» (P. Garzia, recensione a La bella e la bestia: arte e neuroscienze, p. 105). Alla linguisticità del mondo questo numero di M&C dedica vari articoli, tutti di carattere empirico e che offrono dunque ampie conferme alla tesi di Wittgenstein, condivisa -in modi diversi- da Heidegger e da Gadamer: «Le persone di lingua madre diversa vivono davvero in mondi concettualmente diversi?». Sì, perché «la madrelingua influenza il nostro modo di pensare» e «quando impariamo una nuova lingua, di fatto ci impadroniamo di un modo nuovo di pensare» (K. Wilhelm, pp. 36, 39 e 40). È assai interessante il fatto che tutto questo sia legato anche alla percezione e rappresentazione spaziotemporale. Mentre infatti chi  -come gli europei- scrive da sinistra a destra si raffigura lo scorrere temporale in modo orizzontale, «i cinesi che parlano la lingua mandarina raffigurano lo scorrere del tempo come un movimento verticale» e se si costringono europei e cinesi a modificare la direzione spaziale «la cosa stravolge anche la loro percezione del tempo» (Id., p. 40).

Si susseguono sempre più le evidenze sperimentali che ampliano l’intelligenza agli animali non umani. Al di là del caso mediatico-sportivo del polpo Paul che “indovinò” tutti i pronostici dei mondiali di calcio sudafricani, i cefalopodi mostrano di possedere «capacità di apprendimento, orientamento, comunicazione», che sinora sono stati attribuiti soltanto ai vertebrati (N. Nosengo, p. 60) e persino «le api possono sperimentare qualcosa di simile all’umore» (J. Castro, p. 102).

È o no parte dell’intelligenza il «“pregiudizio illuminista”, cioè l’idea che l’uomo sia un essere razionale e quindi nella sua forma più colta ed evoluta, tenda a rigettare il pensiero metafisico» (D. Ovadia, p. 55)? In realtà si tratta di una tesi metafisica tipica di Comte, giustificata dall’arroganza delle chiese e di molti gruppi religiosi i quali «affermano di voler governare tutti, quindi anche i non credenti, secondo principi ispirati da qualche credo» (Id., p. 56), mentre dove le religioni sanno stare al loro posto -come nei Paesi del Nord Europa- l’ateismo dichiarato e militante è assai meno diffuso. Dichiarato e militante è invece il fondamentalismo cristiano in nazioni come l’Italia -dove assume un aspetto istituzionale tramite la chiesa papista- e negli Stati Uniti, Paese nel quale «recentemente la Corte Costituzionale ha persino ribadito l’obbligo di prestare giuramento su un testo sacro di qualsiasi natura quando si partecipa a un processo. Persino sulle nostre banconote c’è scritto “crediamo in Dio”» (Ibidem).
Tra i gruppi cristiani più singolari che operano negli USA ci sono gli anabattisti Amish, ai quali l’antropologo Andrea Borella ha dedicato una ricerca sin troppo simpatetica. Intervistato da P.E. Cicerone, Borella cerca infatti di spiegare e difendere le scelte di queste comunità, quali l’indifferenza verso qualsiasi conoscenza scientifica -che nelle loro scuole non viene studiata in alcuna forma-, «il rifiuto degli strumenti musicali, mentre il canto è ammesso […] quella che non è ammessa è l’arte fine a se stessa» (p. 79) e -elemento più noto- la volontà di non utilizzare quasi alcuno strumento tecnologico inventato dopo il Seicento.

Un interessante articolo è, infine, dedicato al disturbo ossessivo-compulsivo, che «sembra nascere da un impulso a rivisitare gli stessi pensieri e compiere certe azioni, ancora e ancora» (M. Wenner Moyer, p. 67); l’impulso distruttivo ad “annullare il tempo”, come ha mostrato assai bene Elvio Fachinelli nel suo La freccia ferma.

Vai alla barra degli strumenti