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Lombarda lingua

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Passione
da Giovanni Testori
un progetto di Daniela Nicosia
Con Maddalena e Giovanni Crippa
Produzione Tib Teatro – I Teatri del Sacro – Fondazione Teatri delle Dolomiti
Sino al 2 novembre 2014

passione

Passio Laetitiae et Felicitatis si intitola il romanzo di Testori dal quale è tratto il testo. La passione di Felicita per Letizia, giunta dopo l’affetto di ragazzina verso il fratello Dorigo, schiantatosi con la moto contro il muro di una chiesa; dopo la violenza subita da un uomo sorto dalla malvagità delle tenebre; dopo l’incantamento per il Crocifisso, per la sua eterna giovinezza, per le sue piaghe sensuali, per il suo sangue, per le sue braccia spalancate; dopo il convento e l’amore con la ragazzina dentro le sue mura. Scoperte, aggredite, punite e cacciate, Felicita e Letizia muoiono in un ultimo amplesso tenero e sensuale.
Carna è parola che ricorre nel testo e tra la bocca dei due attori che raccontano e che diventano ciò che narrano. Lo diventano avendo tra le mani la lingua potente di Testori. Lingua impastata, raffinata, plebea, sacra, mistica e pornografica. Una mescolanza di lombardo, di latino, di francese, di italiano arcaico e contemporaneo. È la potenza del significante e del corpo a rendere accoglibile un significato invece radicalmente cristiano. Questa di Passione è infatti la rappresentazione più cristiana alla quale abbia forse mai assistito. Soltanto coloro che credono davvero nel Crocifisso possono bestemmiare come fa Testori, possono inutilmente reclamare da questo dio sofferente una qualche ragione delle sofferenze del mondo, possono essere così intimamente coinvolti nell’evidente masochismo del suo mito. Sembra infatti che l’autore provi soddisfazione a penetrare negli avelli del dolore di Felicita e a confrontarli con quelli del suo dio. La regia conferma tutto questo riempiendo la scena di corde e crocifissi.
Ma la musica -la musica di questo linguaggio espressionistico, inventato e antico- riscatta ogni dolore nello splendore del verbo che si fa carna, che si fa poesia, epica, nike.

Petronio / Fellini

È un libro, il Satyricon, che più di altri trasmette il senso di un’intera civiltà, il significato del mondo pagano. Una civiltà e un mondo caratterizzati in primo luogo dalla consapevolezza della nullità dell’umano e del dominio della morte. Senza però per questo condannare il vivere in nome di principî assoluti, o di principî qualsiasi. Nelle avventure veloci e diverse dei suoi ingenui, furbi, concreti, vivi personaggi traspare un esistere lieto di sovrabbondanza e colmo di desiderio. Encolpio narra una trama sempre in trasformazione, tra amori etero e omosessuali, realizzati e falliti; truffe ardite e portate a buon fine; vecchiaie sagge, disincantate e ludiche (come quella di Eumolpo); banchetti straripanti che si spengono anche nella malinconia, come la famosa cena di Trimalcione.
Il mondo che qui si agita è un mondo inferiore/infero, fatto di strati sociali subordinati, ricchezze da parvenu, presunzione di gente fallita. Encolpio e -per un tratto- il suo amico Ascilto si gettano in questo vivere con tutta la voglia di gente assetata. Le vicende grossolane che vi accadono sono tuttavia narrate con un raffinatissimo senso del gioco e con l’ironia che soltanto la filosofia sa dare. Se per i Greci l’essere umano è il più terribile, il più meschino e pertinace tra gli enti che sulla Terra respirano, per Petronio «utres infilati ambulamus! Minoris quam muscae sumus. Illae tamen aliquam virtutem habent, nos non pluris sumus quam bullae» [gonfi otri che camminano! Siamo meno delle mosche. Loro però qualche forza ce l’hanno, noi non siamo più che bolle] (42, 4). La nostra inconsistenza, la debolezza che ci costituisce crea i mondi ultraterreni, gli dèi, le punizioni: «Primus in orbe deos fecit timor» [Per prima cosa gli dèi la paura crearono] (Anth. Lat., I, 1, 466). Basta dunque riflettere un poco per valutare l’umano per ciò che è, per comprendere la tragedia del vivere, senza per questo maledire il fatto di esserci. Sfidando le paure e la morte, uno dei frammenti più emblematici attribuiti a Petronio recita: «I nunc et vitae fugientis tempora vende / divitibus cenis! Me si manet exitus idem / hic, precor, inveniat, consumptaque tempora poscat» [Vai dunque e vendi le sfuggenti ore in cambio di qualche cena sontuosa! Se già intravedo il morire, prego che qui mi trovi e mi chieda del mio esser vissuto]. Rapido come il vento, Petronio merita il riconoscimento che Nietzsche gli attribuì con queste parole:

Che aria viziata e malata in mezzo a tutto l’esagitato parlare di «redenzione», amore, «beatitudine», fede, verità, «vita eterna»! Si prenda per contro in mano un libro veramente pagano, per esempio Petronio, in cui in fondo non si fa, non si dice, non si vuole e non si giudica niente che non sia, secondo un criterio cristianamente ipocrita, peccato, anzi peccato mortale. E tuttavia che senso di benessere nell’aria più pura, nella superiore spiritualità dell’andatura più veloce, nella forza liberata e traboccante, sicura del proprio avvenire! In tutto il Nuovo Testamento non si trova una sola buffonerie: ma con ciò un libro è confutato…Paragonato a quel libro, il Nuovo Testamento rimane un sintomo di una cultura decadente e della corruzione -e come tale ha operato, come fermento della putrefazione.
(Frammenti postumi  1887-1888, trad. di S. Giametta, Adelphi 1979, 9[143], pp. 70-71)

Fellini Satyricon (Italia, 1969) -che consiglio di vedere- è tutto questo osservato con gli occhi raffinati, visionari e decadenti di un artista che vive nel pieno della cristianità ma sente assai forte il richiamo della Roma pagana. È un film meraviglioso e difficile, che non sta fermo mai, nel quale la levitās di Petronio si trasforma in una radicale arcaicità formale e psichica che tocca la ferocia; nel quale l’eccesso vuole essere benedetto ma più come atto di volontà che come spontaneo fluire del piacere. Un’arcaicità simile a quella della Medea di Pasolini. Il valore del Satyricon, certamente il più colto tra i film di Fellini, sta dunque anche e forse specialmente nel farci intravedere ciò che abbiamo perduto dei pagani: la loro profonda innocenza.
Ancora una volta Nietzsche aiuta a capire: «Quale ristoro, dopo il Nuovo Testamento, prendere in mano Petronio! Come ci si sente subito rimessi in piedi! Come si sente la vicinanza di una spiritualità sana, tracotante, sicura di sé e malvagia! E alla fine ci si trova di fronte alla questione: ‘non ha forse il sudiciume antico ancora più valore di tutta questa piccola arrogante saggezza e bigotteria dei cristiani?’» (Frammenti postumi  1887-1888, 10[93], p. 155)

«Impossibile che le sembri grande»

«E Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra’» (Genesi, 1, 26). Di fronte alla presunzione e alla tracotanza di chi si crede addirittura immagine di Dio, quanto più saggia suona l’ironia dei Greci. Con quale senso di esultanza e di liberazione Nietzsche dichiara «allora mi ricordai delle parole di Platone e le sentii tutt’a un tratto nel cuore: Tutto ciò che è umano non è, in complesso, degno di essere preso molto sul serio; tuttavia…» (Umano, troppo umano I, af. 628); il brano platonico così si conclude: «…bisogna pur occuparsene, per quanto possa essere un compito ingrato» (Leggi 803 b).
Rispetto al regno sterminato dell’essere, al filosofo platonico la natura umana non può che apparire insignificante: «E a quella mente in cui alberga la possibilità straordinaria di vedere tutto il tempo e tutto l’essere, quanto pensi che possa sembrare grande la vita di un uomo? – Impossibile che le sembri grande, disse» (Repubblica 486 a).
Sì, impossibile che le sembri grande. La vita di ciascuno e la vita della specie. Anche perché «le nostre mani, la conformazione del bacino, la posizione degli occhi, il tipo di metabolismo, la struttura del nostro apparato gastroenterico parlano di una posizionalità adattativa e non di un’immagine della divinità» (Roberto Marchesini, Contro i diritti degli animali? Proposta per un antispecismo postumanista, Edizioni Sonda, 2014, p. 61).
Anche questo è la scienza, anche questo è la filosofia: un paziente ricondurre ogni volta il bambino umano, che si crede il re del mondo, alla sua misura di ‘posizionalità adattativa’ dentro lo sconfinato splendore della materia.

Per la conoscenza

Nel paragrafo 39 delle lezioni dedicate al Sofista (Marburgo, semestre invernale 1924-1925), Martin Heidegger offre una delle sue più dense definizioni della filosofia, la quale non ha nulla a che vedere con elevazioni spirituali, con soluzioni di angosce psichiche o con miglioramenti del mondo ma è invece il tentativo di una riflessione scientifica che indaghi «la realtà delle cose». «Philosophie» è dunque -come dirà nei §§ 7 e 83 di Essere e tempo– «universale phänomenologische Ontologie» (ontologia universale e fenomenologica). L’unica passione della filosofia è per la conoscenza. Una passione spinoziana. Anche per questo la filosofia non ha alcun bisogno di essere popolarizzata, edulcorata o giustificata. Essa è. E questo basta.

«La filosofia scientifica occidentale, qualora essa abbia salvato, dopo i Greci, la propria autenticità, si è trovata a subire la decisiva influenza del cristianesimo, e precisamente del cristianesimo inteso come religione culturale, potenza insieme mondana e spirituale. […] Ne risultò che l’idea della ricerca fu completamente offuscata da generiche tendenze spirituali e l’idea della filosofia subì l’egemonia di esigenze culturali ben precise, fino a diventare una creazione che soddisfa in senso eccellente tali esigenze e che può a buon diritto essere chiamata ‘filosofia profetica’: essa ha la capacità di prevedere a intermittenza la situazione culturale media prossima ventura e possiede quindi in certi periodi un ruolo dominante.
[…]
A confronto con l’indagine filosofica classica dei Greci, l’esigenza radicale di indagare la realtà delle cose è scomparsa dalla filosofia. Di questo fenomeno di decadenza della filosofia -altri vi scorgono un progresso- è fondamentalmente responsabile il cristianesimo e ciò non deve sorprendere, dal momento che la filosofia è stata associata con il bisogno di elevazione dell’anima. […] È un segnale del fatto che siamo completamente sradicati, che soffriamo di stanchezza del domandare e che in noi si è ormai estinta l’autentica passione della conoscenza. L’altra faccia di tale stanchezza del domandare e di tale esaurimento della passione per il conoscere è nel contempo la tendenza a pretendere dalla filosofia o addirittura dalla scienza qualcosa come un appiglio, a cercare sostegno in essa per l’esistenza spirituale, oppure a congedarla qualora essa non lo conceda. Questa tendenza a cercare rifugio rappresenta un fraintendimento fondamentale dell’indagine filosofica.
[…]
Chi ha compreso questo dialogo [il Sofista], chi si è fatto carico della profonda cogenza che esso comporta, chi si espone a questo dialogo che, in tutta libertà, senza alcun retroterra sistematico e senza alcuna ispirazione si accosta alle cose stesse non ha bisogno di alcuna celebrazione culturale dell’importanza della filosofia».
(Heidegger, Il «Sofista» di Platone, Adelphi, 2013, § 39, pp. 281-284)

 

Porto / Luz

Visitando la mostra Porto Poetic è sorto il desiderio di vedere questa città. Magnifica città che dalle mura/case settecentesche sulla riva del Douro sale verticalmente diventando liberty, déco, imperiale, azulejos, avenidas, parchi. Zeppa di chiese tracimanti di legno, di oro e di una sfacciata sofferenza. La passione dell’uomo crocifisso è infatti mostrata in tutte le maniere e con un realismo a volte rivoltante. Dalle steppe russe all’estremo occidente, l’Europa è la terra dei cristiani. Non c’è niente da fare. Ma questa fede così violenta ha saputo per fortuna creare anche edifici di bellezza, spazi aperti e chiusi nei quali si sono avvicendati stili, forme, architetture, suoni, immagini, guerre e feste. Nel Portogallo come altrove tutto questo è diventato città. La medioevale vicina Guimarães è infatti anch’essa colma di edifici sacri, di palazzi, di croci e monasteri. Ma anche di architetture e di giardini che assorbono la luce.
Come, tornando a Porto, la Burgo Tower di Eduardo Souto de Moura, la cui seriale semplicità si mescola e si discosta dagli analoghi edifici che la circondano; la sghemba, straordinaria e labirintica Casa da Música di Rem Koolhaas, dal cui auditorium principale si vede la città e nei cui anfratti nulla è lasciato al caso; lo splendido Museu de Arte Contemporanea di Álvaro Siza Vieira, ovunque luminoso dentro la luce del Parco nel quale è immerso. Parco che contiene anche la Villa Déco progettata da José Marques da Silva per Carlos Alberto Cabral, una delle abitazioni più belle che abbia mai visitato. E poi il fiume, l’oceano, i ponti. E la pulizia di Porto, la gentilezza e la buona educazione dei suoi abitanti, che in varie occasioni hanno salvato il visitatore da errori e distrazioni. Abitanti certo meno agiati degli italiani ma da nessuna parte ho sentito schiamazzi o voci altissime in luoghi pubblici. Ovunque invece pulizia e dignità. Ogni volta si comprende meglio quanto volgare sia diventato il nostro Paese. Ma anche questa malinconia si può stemperare nelle cantine di Vila Nova de Gaia, nel gusto del Porto, un vino luccicante e dolce come la terra che lo genera.

 

Taranta

LA TERRA DEL RIMORSO
Contributo a una storia religiosa del Sud
di Ernesto De Martino
Il Saggiatore, Milano 19763 (1961)
Pagine XXXII-440

Appena in tempo. Ernesto De Martino fece appena in tempo nel 1959 a vedere, cogliere, studiare il tarantismo nel Salento. Di lì a poco, infatti, lo sviluppo economico, la mutazione dei costumi, la trasformazione antropologica che coinvolsero la civiltà contadina avrebbero cancellato «un fenomeno culturale già condannato a scomparire del tutto nel giro di pochi decenni» (pag. 36). I segni di una dissoluzione del tarantismo erano già evidenti a conclusione di una lunga storia nata nel Medioevo, entrata in crisi nel Settecento -a causa dell’azione convergente dell’illuminismo napoletano e della cristianizzazione da parte della cappella di San Paolo in Galatina- e ormai del tutto impoverita perché privata della sua ricchezza musicale-coreutica-cromatica. «Ma la pietà dello storico non poteva lasciarle inghiottire dal risucchio dei secoli trascorsi, senza aver tentato di restituire loro carne sensibile e dignità di vita nell’unico modo che a uno storico è consentito di fare, cioè mediante la rammemorazione del passato» (118).
Una rimemorazione metodologicamente rigorosa e profondamente partecipe del proprio oggetto; una rimemorazione interdisciplinare -lo storico delle religioni fu coadiuvato da un’équipe composta da psichiatri, psicologi, etnomusicologi e antropologi- e scandita in tre fasi costituite dall’indagine sul campo, dalla ricerca filologica e dalla ricostruzione storica.
Al di là dell’antitesi tra umanesimo e naturalismo, De Martino mostra l’insufficienza di ogni ipotesi soltanto medica, tesa a ridurre il tarantismo a una forma di aracnidismo o a disordine psichico. Il tarantismo è stato invece un fenomeno multiforme, dai tratti profondamente simbolici. Ma che cosa è esattamente il tarantismo? Chi sono i tarantati? «Convenimmo di considerare “tarantati” tutti coloro i quali, nell’estate del ’59, erano coinvolti in una vicenda che li caratterizzava come “tarantati” presso la gente del luogo e partecipavano alla ideologia della cura del morso della taranta mediante la musica, la danza e i colori» (43). Dei 37 tarantati così identificati, la ricerca ne analizzò 21. Tutti contadini, quasi tutti analfabeti, poverissimi. La simbiosi profonda fra antroposfera e zoosfera era diventata in queste persone un orizzonte esistenziale, una ricerca di significati, una sacralizzazione del quotidiano, una ritualità dolorosa e insieme redentrice: «Solo in un regime esistenziale nel quale il morso velenoso costituiva una possibilità reale connessa al momento decisivo della vita economica della società, il morso velenoso e l’animale che mordendo avvelena potevano diventare la trama di tessiture simboliche culturalmente autonome» (161). Dei 21 tarantati soltanto uno era stato morso dal latrodectus tredecim guttatus -l’unico aracnide presente in quelle terre davvero pericoloso per gli umani-, per gli altri i fenomeni reali di frenesia, malinconia, di ossessione e di danza protrattasi per ore e giorni circondati dai suonatori e dai parenti, erano un modo rituale e arcaico per sfuggire all’angoscia e al dolore, per accedere al «piccolo rustico paradiso della musica, della danza e dei colori. […] Il tarantismo offriva, oltre i simboli del rosso e del fulgore della armi, la possibilità di mimare scene di grandezza e di potenza, di successo e di gloria: ognuno poteva così rialzare la propria sorte tanto quanto la vita l’aveva abbassata, e viveva episodi che si configuravano come il rovescio della propria oscura esistenza» (170). Un riscatto antropologico e semantico, assai più che sociale e per niente economico. Il ricorso, infatti, ai suonatori, i mancati giorni di lavoro, le offerte alla cappella di San Paolo comportavano esborsi molto onerosi per dei soggetti e dei nuclei familiari già poverissimi. Ma danzare con il ragno, diventare il ragno che danza sino a sfiancarlo, identificarsi con la sua potenza e nello stesso tempo superarla e sconfiggerla attraverso l’aiuto di un santo ancora più potente significava immergersi in un ethos collettivo e simbolico «che per quanto elementare e storicamente condizionato, e per quanto “minore” nel quadro della vita culturale dell’Italia meridionale, consente di qualificare il tarantismo come “religione del rimorso” e come “terra del rimorso” la molto piccola area del nostro pianeta in cui questa religione “minore” vide per alcuni secoli il suo giorno» (179).
La Terra del rimorso è quindi certamente la Puglia, nella quale fu vivo il simbolismo della taranta che morde e avvelena ma il cui morso può essere sconfitto dalla forza della musica, del canto, della danza e dei colori intrecciati. La Terra del rimorso è anche l’intero Sud d’Italia, nel quale il passato torna ogni volta a mordere con il suo peso di ingiustizia, di violenza, di povera e cupa umanità rispetto al Sole accecante che la sovrasta. La Terra del rimorso è infine la «più vasta terra cui in fondo spetta lo stesso nome, una terra estesa sino a confini del mondo abitato dagli uomini» (273), è l’intero pianeta che torna ogni volta a sentire il morso dell’orrore e dell’errore d’esserci e in molti modi cerca di liberarsene.
De Martino intende quindi utilizzare l’etnografia allo scopo di ricostruire uno specifico ed emblematico episodio di storia religiosa nel contesto della questione meridionale ma in realtà il significato della sua indagine è molto più universale. Essa tocca i temi del tempo nel quale gli umani sono immersi insieme -non sopra o dentro ma proprio insieme– alla Terra intera. Nel tarantismo il passato che una volta è accaduto può sempre tornare, può sempre ri-mordere, in un eterno ritorno del dolore e del suo riscatto nel quale sull’originaria struttura dionisiaca si innestò -dal Medioevo in avanti- un tentativo di cristianizzazione che alla fine ebbe successo e così ne distrusse senso e contenuti, dissolvendolo per sempre. Non quindi rimorso come rammarico per l’accaduto ma ri-morso come riaccadere del dramma. Il ri-morso torna ogni anno alla stessa epoca del primo morso e ogni volta può essere esorcizzato con la potenza coreutico-musicale-cromatica che lo guarisce. La taranta è ancora viva e ogni anno ritorna ma ogni volta viene uccisa. L’eco degli antichi riti mediterranei è evidente. Anche se l’etnografo sostiene giustamente che il tarantismo è irriducibile non soltanto alla medicina o alla psichiatria ma anche al tipo sincronico di altre civiltà e all’antecedente diacronico delle culture pagane, afferma in molto altrettanto netto che

il tarantismo non soltanto rinvia agli antecedenti dei culti orgiastici e iniziatici dell’antichità classica e ai paralleli africani che, dentro certi limiti, si richiamano alle civiltà protomediterranee, ma deve la sua formazione di fenomeno molecolare storicamente individuato al fatto che durante il Medioevo la vita culturale delle popolazioni rivierasche dell’Italia meridionale fu particolarmente esposta, soprattutto a partire dalla rapida espansione dell’Islam con il VII secolo, a plurisecolari influenze che possiamo genericamente chiamare “afro-mediterranee”. (188)

Si tratta quindi di una sopravvivenza tenace del menadismo dionisiaco, alla quale la contaminazione cattolica del culto di San Paolo tolse lentamente ma inesorabilmente significato proprio perché Paolo di Tarso fu il più ostinato nemico dei culti dionisiaci, come risulta particolarmente evidente nella Prima lettera ai Corinzi. La pratica coreutica del tarantismo si collega alla catartica musicale del pitagorismo, fiorito nelle stesse terre. Il personaggio eschileo (Prometeo) di Io, ragazza/vacca tormentata dalla continua puntura di un tafano e per questo costretta a mai interrompere il proprio andare, si reincarna nelle tarantate, le quali «ricordavano menadi, baccanti, coribanti e quant’altro nel mondo antico partecipava a una vita religiosa percossa dall’orgiasmo e dalla “mania”» (31). Dioniso fu il dio più importante della zona della Magna Grecia che aveva in Taranto il proprio centro. Il morso, il contesto acquatico e silvano del rito, l’altalena, lo specchio, la catartica coreutico-musicale «si ritrovano nel mondo religioso greco secondo strutture mitico-rituali e funzioni esistenziali analoghe, che richiamano quelle del tarantismo» (199).
Di tutto questo Paolo fu nemico totale e accanito. La costruzione a Galatina della cappella a lui dedicata fece convergere in quel luogo le menadi contadine, che dal santo venivano ogni volta graziate ma che alla fine furono dissolte nel senso stesso della loro identità, intesa come orizzonte sacro di riscatto. Sta qui, in questa esiziale ambiguità del santo cristiano tarantato allo scopo di cancellare ogni traccia del menadismo dionisiaco, il profondo significato e l’esito della ricerca di De Martino.

La polemica paolina contro l’anarchia pneumatica della chiesa di Corinto e a favore di un Dio che non è dio di disordine, ma di serenità, colpiva nel cuore i culti orgiastici, che apparivano all’apostolo nel segno del  caos, fracasso di bronzi sonori e di cembali vibranti di fronte alla interiore potenza morale dell’agape cristiana: e se per la coscienza storiografica attuale quei culti racchiudono il loro ordine, la loro mania telestica, per la coscienza dell’apostolo combattente essi si configuravano necessariamente come negatività assoluta, come tentazione demoniaca. […] Nel corso della stessa polemica così vigorosamente condotta nella prima lettera ai Corinzi, Paolo stabilisce, com’è noto, una gerarchia secondo la quale se Dio è il capo di Cristo e Cristo è il capo dell’uomo, il capo della donna è l’uomo, onde la donna riflette Dio attraverso la mediazione dell’uomo. Questa teorizzazione non è gratuita ma serve all’apostolo per giustificare una prescrizione precisa sul comportamento delle donne nelle assemblee liturgiche: mentre l’uomo, immagine e gloria di Dio, può stare in chiesa a capo scoperto, la donna -che è gloria dell’uomo e suo tesoro privato- deve invece velarsi come segno della sua soggezione a Dio mediata dalla sua soggezione all’uomo. L’immagine culturale della menade così come la tragedia greca e l’iconografia ce l’hanno trasmessa era in tal modo respinta dall’ordine cristiano: l’obbligo del capo velato durante la assemblea liturgica fondava infatti un modello di comportamento in antitesi a quello delle chiome al vento, nel ritmo di una frenetica danza, allo stesso modo che nel Vangelo di Giovanni il dolore muto e interiore di Maria ai piedi della Croce fondava un modello di comportamento in antitesi a quello delle lamentatrici pagane. (236-237)

Una spiegazione data, come si vede, in una forma letterariamente così bella, in uno stile tanto sobrio e  insieme coinvolgente, da fare de La terra del rimorso un capolavoro non soltanto dell’etnografia del Novecento ma anche di una saggistica narrativa che nel raccontare nulla perde del proprio rigore e guadagna, invece, in chiarezza argomentativa e in profondità ermeneutica.

[ Questo video del 1962 documenta il fenomeno al suo tramonto ]

 

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