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Sul Dio abramitico

Mente & cervello 123  – marzo 2015

 

«Violento, arrogante, intollerante con i nemici, benevolo solo se blandito con offerte e atti di sottomissione. Non è il ritratto di un bullo di quartiere ma di un dio, anzi del Dio onorato dalle religioni del Libro, ebraismo, cristianesimo e islam» (P.E.Cicerone, p. 26). È quanto emerge dall’analisi del monoteismo condotta da Hector A. Garcia nel suo libro Alpha God. The Psychology of religious violence and oppression (Prometheus Books, 2015, pp. 287).
E in effetti basta leggere la Bibbia, leggerla davvero per ciò che vi è scritto e non tramite filtri allegorici o pregiudizi di fede, per comprendere che il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è un Dio violento: «Lo scrittore Steve Wells si è preso la briga di contare quante sono le persone uccise da Dio durante tutta la narrazione e si arriva alla cifra di 24 milioni. Per avere un riferimento, le persone uccise da Satana nella stessa narrazione sono 60» (Garcia, p. 27); Hitler e Stalin messi insieme non arrivano a un tale successo.
Il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è un Dio che ama l’ignoranza: «Una delle mistificazioni trasmesse dalla fede è l’idea che la conoscenza sia un peccato: le religioni tendono a sopprimere la cultura, il pensiero critico» (30).
Il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è un Dio vanitoso (e antispinoziano): «In effetti è curioso pensare che un essere morale e onnipotente richieda rispetto: il rispetto è una conferma del proprio potere, di cui potrebbe avere bisogno un maschio dominante. Ed è uno dei modi con cui è gestito il potere nelle gerarchie maschili, perché implica che la posizione dominante possa essere assunta da qualcun altro, e che sia necessario impegnarsi per mantenerla» (29).
Il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è un Dio inquinante e nemico della Natura: «In una religione di questo tipo l’uomo è visto come colui che deve dominare le altre forme di vita piuttosto che instaurare con esse un rapporto egualitario» (31).
Il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è quindi un Dio maschio alfa, «e quando nella religione si fa strada la psicologia del maschio dominante, combattere la violenza diventa impossibile. Come si fa a contrastare la volontà dell’essere più potente dell’universo? Come si esprime il dissenso, quando andare contro il volere di dio è considerato blasfemia?» (28). Bisogna ricordare che il comandamento mosaico del ‘Non uccidere’ si riferisce «ai membri della tribù, della comunità, non all’umanità in generale»; e infatti «la Bibbia è piena di stragi, rapimenti, stupri. Nel Nuovo Testamento la violenza è meno presente, ma accanto agli inviti alla mitezza non mancano minacce contro i non credenti. […] D’altronde la Chiesa ha sempre combattuto  e sterminato popolazioni in nome di Dio. Pensiamo a quello che è avvenuto in Sud America con i conquistadores» (28-29). Stragi, genocidi, guerre, torture non costituiscono comportamenti ‘da deboli peccatori’ ma rappresentano il modo più coerente di essere ebrei, cristiani e musulmani.
Anche le religioni animistiche e politeistiche presentano alcuni caratteri violenti ma essi sono del tutto incommensurabili con ciò che ebraismo, cristianesimo e islam hanno generato: «Le religioni più antiche sono state religioni politeistiche con divinità di entrambi i sessi, spesso ispirate a fenomeni naturali. Più avanti l’organizzazione delle società è diventata più complessa, i sistemi di potere hanno sentito l’esigenza di tutelarsi, e così in Medio Oriente è nato il monoteismo, da cui poi si sono evolute le religioni abramitiche» (26-27).
Capisco che leggere simili affermazioni può risultare disturbante ma è dalla Bibbia che scaturisce l’abominio. Bisogna comunque riconoscere che se tutto questo è stato ed è ancora possibile è anche perché «la religione, in particolare le sue tendenze oppressive, è radicata nel nostro passato evolutivo profondo» (27). Forse possiamo difenderci dalle più disastrose conseguenze di tale eredità filogenetica, dalla demenza monoteistica, con gli stessi strumenti con i quali è possibile difenderci dall’Alzheimer: «La lettura, l’apprendimento e il gioco accrescono la cosiddetta riserva cognitiva, che permette di rallentare il declino cognitivo e il rischio di demenza. D’altra parte la pratica di un’attività fisica regolare favorisce la liberazione di molecole dette neurotrofine e la produzione di nuovi neuroni -o neurogenesi- che contribuiscono allo sviluppo di questa riserva cognitiva» (L.Buée, 78-79).
M&C_123_marzo_2015I giovani europei che lasciano le loro vite per entrare nell’ISIS o in analoghe organizzazioni -come Boko Haram allo scopo di imporre mediante lo sterminio delle esistenze altrui la verità secondo cui «Allah è l’unico Dio e Maometto è il suo profeta»; allo scopo di distruggere i resti di millenni di civiltà politeistiche e animistiche; allo scopo di rinunciare per sempre alla libertà del corpomente; tali giovani avrebbero tutto da guadagnare da qualche conoscenza filosofica e storica in più, da qualche esercizio fisico nello spazio libero della natura. Quello spazio che il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani contrae sino alla propria piccola persona.

Altri prodigi

Le immagini di Marina Ballo Charmet sono molto lontane da quello che di solito ci si aspetta da fotografie scattate in Grecia. Sono immagini prese dal basso, intuite di lato, che non restituiscono la grandezza della grecità ma il suo non esserci più, le sue tracce, le rovine del quotidiano. E in questo modo, paradossalmente, rimangono molto fedeli a ciò che i Greci sono per noi: assenti.
Si tratta dunque di fotografie del tutto coerenti con il testo del filologo Dino Baldi, il cui percorso tra Oracoli, santuari e altri prodigi (sottotitolo Sopralluoghi in Grecia, Quodlibet Humboldt, Milano 2013, pp. 200) è un itinerario dentro il tempo, la sua permanenza e la sua dissoluzione; un itinerario dentro ciò che non vediamo più ma che ci sembra ancora di vedere. «Un’occasione per fare esperienza diretta della fine delle cose» (p. 12), di tutte le cose, compresa la fine degli dèi, dell’assoluto, del senso. Il segreto della Grecia, uno tra i tanti ma forse il più significativo, si delinea dunque come l’affrancamento da Dio, dal Principio Primo e Ultimo, dall’Eterno, dall’Immobile, dall’Uno. A favore, invece, della dispersione, della differenza, del molteplice, del tempo.
L’itinerario in Grecia diventa così un viaggio interamente e profondamente pagano, nel quale «quella che per noi è solo bellezza, o un patrimonio di esperienze estetiche, per gli antichi era una forza viva da onorare e placare» (34); nel quale «i monti erano sacri per definizione, come le caverne e gli anfratti della terra, e in genere tutti i luoghi in cui la natura manifestava potentemente se stessa» (23), nel quale il morire è la migliore sorte, dopo la disgrazia d’essere nati; nel quale «a volte rimane da chiedersi perché si sta ancora al mondo» (45).
A distanza di millenni, oracoli, santuari e altri prodigi sono stati in gran parte riassorbiti nella natura che li ha generati; sono tornati a essere pietra, acque, terra. Emergono ancora qua e là dei riconoscibili resti, al modo in cui nella memoria di un individuo emergono qua e là ricordi di ciò che una volta è accaduto ma il cui significato è andato perduto nel procedere degli anni e dei luoghi.
Intuiamo quindi il Citerone, monte dove accaddero gli eventi più estremi, sanguinari, dionisiaci; Perachora, dove Medea seppellì i suoi figli; Delfi, dove il predire era «un dire, un disseminare parole a caso nello spazio infinito, che a volte il caso incontrava e rendeva vere» (98) (come ironicamente e splendidamente ha mostrato anche Dürrenmatt nella Morte della Pizia); Eleusi, dove «c’è stato un momento in cui è stato tutto vero, ma è durato un attimo e l’hanno visto in pochi» (69); Dodona, il più antico dei luoghi sacri [raffigurato nell’immagine qui accanto, che non è di Ballo Charmet], dove una colomba venuta dall’Egitto «imparò a parlare greco, e insegnò ai greci a interpretare la lingua degli animali, il fruscio delle foglie, il mormorio dell’acqua, il tintinnare degli oggetti appesi al vento, il risuonare tenue dei tripodi di bronzo» (107).
Tutto questo venne poi «fatto oggetto di scempio da scaltri, occulti, invisibili, esangui vampiri! Non vinto -soltanto dissanguato!…La nascosta sete di vendetta, la piccola invidia diventa padrona!» (F. W. Nietzsche, L’anticristo, § 59, Adelphi, p. 256), come a Olimpia, dove dopo gli ultimi giochi giunsero i goti che abbatterono i templi, «e poi arrivarono implacabili i cristiani, che avevano la tendenza a riconsacrare i luoghi della cultura pagana facendoci il nido dentro e consumandoli piano piano come parassiti» (Baldi, p. 28).
La Grecità è stata anche un «gioco di scambi e corrispondenze fra barbarie e civiltà (ambiguo, insidioso, ma profondamente vitale, se lo si riesce a governare)» (113); è stata anche lo spaziotempo in cui «la fierezza dei mortali vive accanto al senso del limite, inscindibile da esso» (117); è stata la civiltà in cui identità e differenza sono il conflitto e insieme la pace, il rifiuto e l’accoglienza, la potenza dell’esserci e il lamento del morire. È questa «competenza primordiale che in Grecia molti ancora hanno» a far sì che «finché ai greci rimarrà questa virtù di far sentire i propri simili parte della stessa famiglia umana, mi sembra che possano stare abbastanza tranquilli, e un po’ anche noi» (48).
Il testo si chiude ricordando ciò che accadde ai tempi di Tiberio, quando i naviganti sentirono vicino a Corfù una voce che chiamava il pilota egizio Tamo affinché annunciasse che il grande Pan è morto. «Non aveva ancora finito la frase, che tutto, intorno a lui, si riempì di stupore, e un immenso gemito si levò dalla riva» (118). Era morta la misura. Quella stessa misura che risuona nel primo testo della filosofia, il frammento di Anassimandro, e che invita ancora -per chi voglia ascoltarla- a guardare senza terrore alla «malattia originaria, quella che ci portiamo dentro da sempre, per il solo fatto di esistere. La cura del dio allora è come la discesa agli inferi di Ulisse: un viaggio di conoscenza per scoprire cosa abbiamo dentro che non sapevamo di avere, chi siamo che non sapevamo di essere» (57-58).

«Tarcisio Bertone papa…»

Dal Messaggero del 4.12.2014
Il cardinal Bertone compie 80 anni, party esclusivo tra tartufi e cristalli 
di Franca Giansoldati

Un party regale, molto chic, per una quarantina di invitati. Porcellane, fiandra, argenti, cristalli. Il menù studiato nel dettaglio a base di tartufo d’Alba, roba per raffinati intenditori, innaffiato da vini piemontesi di gran pregio. Il tutto molto poco francescano, molto poco in linea con l’indirizzo di sobrietà richiesto da Papa Bergoglio alla curia, ma il cardinale Tarcisio Bertone anche stavolta voleva fare le cose in grande per festeggiare il suo 80esimo compleanno in compagnia di una ristretta cerchia di fedelissimi amici, cardinali e monsignori, suoi ex collaboratori. Una tartufata per raccogliere attorno a sé le persone con le quali ha lavorato a lungo nella stanza dei bottoni. […]
La nuova residenza è stata al centro di feroci polemiche non solo per il costo astronomico della ristrutturazione (a carico di Bertone) ma per l’ampia metratura. Un super attico di quasi 500 metri quadrati, frutto dell’accorpamento di due appartamenti cardinalizi situati in uno dei palazzi ottocenteschi vicini all’ingresso del Perugino. […] Bertone bersagliato di critiche aveva tentato di difendersi scrivendo anche una lettera al settimanale diocesano di Ivrea per denunciare la «gogna mediatica» cui era sottoposto per via del suo tenore di vita.
«È stato detto che il Papa si sarebbe infuriato con me per tanta opulenza. Addirittura è stato messo a confronto lo spazio del mio appartamento con la presunta ristrettezza della residenza del Papa». Poi precisava che l’appartamento «spazioso» era stato «doverosamente ristrutturato» a sue spese. Con il compimento degli ottant’anni Bertone lascia tutti gli incarichi nelle congregazioni vaticane. […] Il cardinale Bertone ha precisato che il pranzo di compleanno gli è stato offerto da alcuni suoi ex parrocchiani iscritti alla Associazione Alpini piemontesi.

Tarcisio Bertone era il mio candidato per il Conclave che ha eletto invece Bergoglio. Immaginare questo soggetto a capo della Chiesa papista mi riempiva di gioia, un po’ come Nietzsche rimpiangeva che -a causa di alcune banali circostanze- il cardinale Cesare Borgia, candidato secondo Jacob Burckhardt con molte probabilità di successo, non fosse diventato anche lui Pontefice nel 1503:
Cesareborgia«Vedo uno spettacolo così colmo di significato e insieme così meravigliosamente paradossale (so sinnreich, so wunderbar paradox zugleich), che tutte le divinità dell’Olimpo avrebbero avuto motivo  per una risata immortale –Cesare Borgia papa…- Mi si intende?…Bene, sarebbe stata questa la vittoria alla quale solo io oggi anelo -: in tal modo il cristianesimo sarebbe stato liquidato (abgeschafft)! Che accade invece? Un monaco tedesco, Lutero, venne a Roma. Questo monaco, con nel corpo (im Liebe) tutti gli istinti di vendetta d’un prete malriuscito, a Roma si indignò contro il Rinascimento […] E Lutero restaurò nuovamente la Chiesa: la attaccò…»
(L’anticristo, in «Opere’ VI/3», § 61, pp. 258-259).
Certo, rispetto al suo collega del Cinquecento, Bertone rimane un dilettante; questo offrono i tempi. Ma sarebbe stato comunque un Pontefice più sincero e meno sdolcinato, più rappresentativo della effettiva natura del cattolicesimo romano. E infatti anche da cardinale in pensione fa di tutto per dimostrarlo.

Libertà di espressione

Il 7 gennaio ho scritto di getto a proposito del massacro di Charlie Hebdo poiché quel giorno è stata colpita nel modo più violento e ripugnante la libertà di parola, anche la libertà di bestemmiare. Cosa che la rivista parigina fa costantemente contro i simboli ebraici, cristiani, islamici. Penso infatti che l’essere umano sia tempo e linguaggio, che Homo sapiens sia un animale simbolico e che dunque la libertà di esprimere ciò che pensa –qualunque cosa pensi– sia una funzione intrinseca al suo essere. Spinoza ha argomentato con grande chiarezza che agli individui si può proibire di parlare ma non di pensare (o almeno per fortuna non ancora) e che dunque il risultato di ogni censura è l’ipocrisia collettiva. Secoli di storia del potere, degli Stati moderni, delle Inquisizioni lo dimostrano. E quindi si debbono eventualmente perseguire le azioni e mai le parole in modo che le controversie dottrinali non si trasformino in scatenata violenza: «& quod ad seditiones attinet, quæ specie religionis concitantur, eæ profecto inde tantum oriuntur, quod leges de rebus speculativis conduntur, & quod opiniones tanquam scelera pro crimine habentur, & damnantur; quarum defensores et asseclæ non publicæe saluti, sed odio ac sævitiæ adversariorum tantum immolantur. Quod si ex jure imperii non nisi facta arguerentur, & dicta impune essent, nulla juris specie similes seditiones ornari possent, nec controversiæ in seditiones verterentur» (Tractatus theologico-politicus, Præfatio, § 7).
Pertanto io credo che la libertà di espressione non debba avere alcun limite, poiché appena si cominciano a porre dei confini, rischia di essere prima o poi cancellata. Contro ogni atteggiamento autoritario travestito da garanzia collettiva, penso che tale libertà debba essere garantita a qualunque idea, anche a quella che -secondo i criteri di una determinata società- appare la più ‘aberrante’: che sia l’eliocentrismo per la comunità scientifica antica, il cristianesimo per i politeisti, il politeismo per i cristiani, l’ateismo per il medioevo (e oltre), la blasfemia per le società musulmane, il nazionalsocialismo per le società democratiche, lo stalinismo per la società nordamericana, il fondamentalismo islamico e il razzismo per le società politicamente corrette.
Chi si dovesse sentire personalmente insultato da qualcuno, può ricorrere ai tribunali imputando di diffamazione chi lo ha attaccato. Ma chiedere che i tribunali condannino ciò che viene detto o scritto sui princîpi che per l’uno o l’altro sono indubitabili, fondamentali, venerabili, oppure che -peggio- delle leggi proibiscano preventivamente la formulazione di idee, concetti e anche pregiudizi significa che si è falsamente libertari, significa che si vuole la libertà di parola per le parole con le quali concordiamo. Rosa Luxemburg ha ben detto che «Freiheit ist immer nur Freiheit des anders Denkenden [la libertà è sempre solo la libertà di chi la pensa diversamente]» (Zur russischen Revolution, IV).
La libertà di espressione non si deve fermare davanti a nessun principio, nessun dogma politico-culturale, nessun libro ‘rivelato’. Se sembrava ovvio che nessuno dovesse venir inquisito o ucciso per le sue bestemmie, ora ci accorgiamo di avere ancora bisogno dell’illuminismo e della sua dimensione radicale, eversiva dell’ordine della parole.
Attenderei inutilmente la solidarietà del Foglio o della Lega Nord con chi dovesse disegnare la Madonna come una prostituta. E temo che attenderei altrettanto vanamente la solidarietà dei ‘democratici’ (per autodefinizione) nei confronti dei negazionisti dello sterminio ebraico. E infatti ora molti esponenti della destra cominciano a capire che Charlie Hebdo bestemmia pure la trinità -e prendono quindi le distanze-, molti esponenti della sinistra cominciano a capire che Charlie Hebdo è un po’ razzista -e prendono quindi le distanze. E nell’orgia dello ‘scontro di civiltà’ il potere si va appropriando per i propri scopi dell’azione  di un gruppo di fanatici «sottomessi» al Profeta: capitali militarizzate, richiesta di leggi speciali, moltiplicazione dei controlli, estendersi delle censure. Al di là della retorica spettacolare del Je sui Charlie il massacro contro Charlie Hebdo rischia di trasformarsi in un’ulteriore occasione per «sorvegliare e punire».

Deus sive Natura

Baruch Spinoza e l’Olanda del Seicento
(Spinoza. A Life, 1999)
di Steven Nadler
Trad. di Davide Tarizzo
Einaudi, 2009 (2002)
Pagine XV-410

Più l’Olanda del Seicento che Spinoza in questo libro. Per esplicita ammissione del suo autore, l’oggetto è non tanto la filosofia spinoziana quanto la vita e l’epoca, e soprattutto l’ambiente ebraico, alla cui storia, credenze, usi, costumi sono dedicati i primi sei capitoli, vale a dire metà dell’intero libro, la cui tonalità è chiaramente filosemita nel ripetuto tentativo di spiegare e giustificare i rabbini (Mortera, in particolare) e la comunità sefardita di Amsterdam. Giustificarli rispetto all’inaudita violenza del cherem che i capi religiosi e laici della comunità pronunciarono il 27 luglio 1656 contro il ventiquattrenne Spinoza, senza e prima che questi avesse pubblicato alcun testo. «Non esiste nessun altro documento di cherem emesso dalla comunità in quel periodo da cui trasudi la stessa collera» (p. 141). Una delle ragioni di tanto odio starebbe secondo Nadler nel fatto che un simile bando «oltre ad avere una funzione disciplinare interna, aveva pure il senso di un messaggio diretto alle autorità olandesi: gli ebrei erano una comunità in ordine, che -come previsto dagli accordi presi con la città- non tollerava infrazioni della condotta o della dottrina ebraiche. […] E forse la singolare animosità del bando contro Spinoza si spiega proprio con la volontà del ma’ amad di non dare l’impressione di proteggere individui che negavano non tanto i principî della fede ebraica, quanto quelli della religione cristiana» (167).
Le comunità ebraiche erano comunque abituate all’utilizzo costante e ripetuto delle scomuniche contro i propri membri. Le ragioni potevano essere le più varie e minuziose, visto che erano e sono migliaia i precetti disobbedendo ai quali si commette peccato. Ma è l’intera esistenza quotidiana di tali comunità a essere permeata di un formalismo totale ed esasperante, contro il quale si era infatti già pronunciato l’ebreo fondatore del cristianesimo e nei cui confronti anche Spinoza ritiene che «i seicentotredici precetti della Torah non hanno nulla a che fare con la virtù e la beatitudine» (303).
Dopo la scomunica Spinoza cessò di considerarsi un ebreo e parlò dei suoi antichi correligionari come di un’alterità con la quale nulla aveva a che fare. Non presentò ricorso -come sarebbe pur stato suo diritto- alle autorità civili della città «e neppure chiese aiuto a un’altra congregazione, come fece Prado. In effetti, non domandò neppure alla congregazione di rivedere il proprio giudizio. Abbandonò semplicemente la comunità» (171).
Forse anche per questo il testo di Nadler è percorso da una sottile avversione nei confronti del suo oggetto e verso la stessa filosofia intesa come esercizio di assoluta libertà razionale. Numerose potrebbero essere le conferme. Ad esempio, quasi a giustificare ancora una volta il cherem, «se Spinoza andava a dire cose simili […] e a stranieri per giunta! […] stava davvero giocando con il fuoco» (151-152); «Il suo scopo è nientemeno che la completa desacralizzazione e naturalizzazione  della religione e dei suoi concetti […] Perfino l’immortalità dell’anima è considerata niente più che una ‘durata eterna’» (211); «Le parole di Spinoza [nell’Appendice alla I parte dell’Ethica] sono assai pesanti, ed egli non era del resto inconsapevole dei rischi che correva» (258); «Ma nessun altro filosofo ha mai neppure identificato Dio con la Natura» (262), affermazione non rispondente al vero, dato che la concezione immanentistica del divino è un’antica posizione filosofica, pur variamente declinata, e sostenuta qualche decennio prima di Spinoza pure da Giordano Bruno (anch’egli scomunicato e la cui morte rimarrà per sempre uno dei peggiori crimini della chiesa papista).
Le fonti di Spinoza furono assai varie: la mistica ebraica; forse l’eretico (anch’egli bandito con un cherem) Uriel da Costa; il suo maestro di latino e di varia umanità Franciscus Van den Enden; certamente Descartes; Euclide; gli stoici; e anche -è una delle affermazioni più interessanti di Nadler- l’intera comunità della città dove nacque: «Ex gesuiti radicali in politica, collegianti con tendenze sociniane, ebrei apostati, forse persino quaccheri e pensatori libertini -se si dovesse davvero accusare qualcuno di essere stato il ‘corruttore’ di Spinoza forse bisognerebbe a questo punto accusare la città di Amsterdam nel suo complesso, una città liberale, in cui fiorirono di continuo idee eterodosse» (163).
Furono naturalmente il suo carattere e la sua intelligenza a renderlo immune da qualunque tentativo di corruzione -«gli erano stati offerti mille fiorini ‘per fare presenza in sinagoga di tanto in tanto’. Spinoza, a quanto pare, rispose che ‘potevano anche offrirgli diecimila fiorini’ ma lui non avrebbe comunque mai accettato una simile ipocrisia, ‘poiché si preoccupava solo della verità, e non delle apparenze’» (170)-; a farlo vivere con grande frugalità e in profonda coerenza con le proprie idee -rifiutando sia gli onori sia le polemiche- e a rimanere sempre sereno, come testimonia Jean Maximilian Lucas uno dei suoi primi biografi: «A qualunque ora lo si trovava sempre di ottimo umore…Possedeva una grande e penetrante intelligenza, e trasmetteva un senso di appagamento» (218).
Anche alla luce di questo carattere equilibrato e sicuro di sé, la ‘solitudine’ di Spinoza è davvero una leggenda priva di fondamento, come Nadler suggerisce quando sottolinea le ottime relazioni dal filosofo intrattenute con una varietà di soggetti sia in presenza sia per corrispondenza; il suo tornare spesso ad Amsterdam anche dopo essersi trasferito a Rijnsburg prima e all’Aia poi; il grande numero di persone che seguì il suo feretro il 24 febbraio 1677, quattro giorni dopo la morte. «Lungi dall’essere quell’antipatico e misantropo recluso di cui si è tramandata leggenda, Spinoza era invece, una volta messo da parte il lavoro, una persona di compagnia, moderata e piacevole, sempre calma -come ci si poteva aspettare del resto dall’autore dell’Etica. Era gentile e pieno di riguardi, e si divertiva molto in compagnia degli altri così come gli altri si divertivano con lui» (319). Ovunque vivesse, Spinoza venne cercato da molti, o di persona o per lettera. Il suo Epistolario è uno dei filosoficamente più densi che si possano leggere, un vero specchio della mente e del carattere di quest’uomo.
Avversato sino all’odio, giudicato, empio, blasfemo, sovversivo, depravato, pericolosissimo (anche da Leibniz) e persino «di essere un agente di Satana, se non addirittura l’Anticristo in persona» (324), Spinoza ha offerto una delle più plausibili interpretazioni dell’essere e del posto che ogni ente -umani compresi- occupa in esso. Lo fece in tutte le sue opere e nell’Epistolario ma specialmente nel Tractatus Theologico-Politicus, che «è uno dei manifesti più eloquenti che siano mai stati scritti a favore di uno Stato democratico e laico» (315) e nell’Ethica ordine geometrico demonstrata, «un’opera ambiziosa e sfaccettata. Un testo davvero audace per la critica spietata e sistematica cui vengono sottoposte le correnti nozioni filosofiche di Dio, dell’uomo e dell’universo, con tutte le credenze teologiche e morali allegate. Nonostante la scarsità di riferimenti a pensatori del passato, il libro dà prova di una grande erudizione e di una approfondita conoscenza degli autori classici, medievali, rinascimentali e moderni -pagani, cristiani ed ebrei. Platone, Aristotele, gli Stoici, Maimonide, Bacone, Cartesio e Hobbes (tra i tanti) appartengono tutti allo sfondo culturale dell’opera, che rimane comunque, ciononostante, uno dei trattati più originali dell’intera storia della filosofia» (250-251).
Il disincanto sulle vicende umane si coniuga alla certezza di una razionalità invincibile che intride gli eventi. Per Spinoza la filosofia è il tentativo di comprendere questo significato e, una volta compreso, lasciarsene attraversare.

Bresson / Schopenhauer

Au hasard Balthazar
di Robert Bresson
Francia-Svezia, 1966
Con: Anne Wiazemsky (Marie), François Lafarge (Gerard), Walter Green (Jacques), Philippe Asselin (Padre di Marie), Nathalie Joyaut (Madre di Marie)

Battezzato con il nome di Balthazar dai suoi padroncini, un asino attraversa la vita in un borgo e nelle campagne francesi. Il suo occhio oggettivo assiste alle azioni degli umani, alla loro violenza,  insensatezza, malvagità. Al loro pianto e alle loro menzogne. Caricato di pesi, ridicolizzato in un circo, oberato di lavoro, frustato e preso a calci, utilizzato per il contrabbando, si spegnerà in un mattino di luce, circondato da un gregge. Il legame più costante di Balthazar è con Marie, una ragazza altrettanto sola e perduta, e con Arnold, un ubriaco che lo picchia e che qualche volta lo protegge.
Ciò che segna questo capolavoro è l’assoluta sobrietà dello sguardo cinematografico, l’oggettività degli eventi -come un piano inclinato, come una legge della materia che va da sé, senza volontà di alcuno-, la sapienza del montaggio capace di trasformare in pensiero un qualunque fotogramma. Il mondo degli esseri umani vi viene descritto per quello che è, per quello che è sempre stato, per quello che sempre sarà: un mondo perduto.
E soprattutto vi appare la distanza e la vicinanza tra l’umano e l’altro animale. Distanza nell’essere l’altro animale libero dal male libero dal bene. Vicinanza nella sciagura che per l’animale rappresenta l’incontro con l’umano.
Proiettato qualche giorno fa al Centro San Fedele di Milano, al film è seguita l’analisi di un filosofo cattolico. Il quale ha accentuato la simbologia cristologica dell’asino -certamente presente in Bresson- ma che ha quasi con disprezzo respinto la dimensione anche animalistica dell’opera. Non c’è niente da fare, ha ragione Schopenhauer:

Si guardino invece le atrocità inaudite che nei paesi cristiani la massa commette contro gli animali, ammazzandoli, ridendo e spesso senza nessuno scopo, mutilandoli e torturandoli, e perfino quando si tratti di animali che direttamente procurano il pane all’uomo, come i cavalli, che anche in vecchiaia vengono strapazzati fino all’estremo delle forze, perché si cerca di tirare l’ultimo midollo dalle loro povere ossa, finché non crollano sotto le bastonate del padrone. In verità verrebbe da dire che gli esseri umani sono i diavoli sulla terra e le bestie le anime torturate. Queste sono le conseguenze di quella ‘scena di insediamento’ nel giardino del paradiso. Infatti soltanto la violenza o la religione possono avere influenza sul volgo: ma per quello che riguarda gli animali il cristianesimo ci pianta vergognosamente in asso. […] Non già pietà, ma giustizia si deve all’animale.
(Parerga e Paralipomena tomo II, a cura di G. Colli, Adelphi 1981, pp. 488-489)

Queste parole potrebbero ben costituire una summa di Au hasard Balthazar. Le ragioni del vero e proprio accanimento teoretico e pratico del cristianesimo e della sua teologia contro la Natura, e in particolare contro il mondo animale, sono chiare. Esse affondano nell’antropocentrismo biblico, in una cosmologia che fa dell’essere umano il senso e il padrone dell’universo, in una teologia convinta che persino il Dio si sia fatto uomo e sia morto per la nostra specie, in una escatologia che riserva a tutto ciò che non è umano un solo destino: la nientificazione. Sono altri i miti e le religioni che possono aiutarci a riconoscere nello sguardo dell’animale, nell’occhio di Balthazar, un’alterità senza la quale è l’umano a essere niente.

Essere politeisti

L’immensa violenza scatenata da alcune sette islamiche che utilizzano anche e soprattutto le armi date loro dagli Stati Uniti d’America in funzione antisiriana; il razzismo teocratico di Israele; la millenaria pretesa di verità assoluta della dottrina cristiana e il tentativo di imporla con guerre, inquisizioni, crociate, torture, stermini, sono tutte manifestazioni e conseguenze del principio biblico di esclusione:

Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile. Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra né di quanto è nelle acque sopra la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso. […] Guàrdati bene dal fare alleanza con gli abitanti della terra nella quale stai per entrare, perché ciò non diventi una trappola in mezzo a te. Anzi distruggerete i loro altari, farete a pezzi  le loro stele e taglierete i loro pali sacri. Tu non devi prostrarti ad altro dio, perché il Signore si chiama Geloso: egli è un Dio geloso.
(Esodo, 20, 1-6 e 34, 11-14, traduzione Cei)

Bettini_politeismo

Da qui parte un vivace Elogio del politeismo proposto da Maurizio Bettini e del quale discuto in un articolo pubblicato oggi su Sicilia Journal: Contro ogni fondamentalismo, essere politeisti.

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