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Malevite

Milano e la Mala
Storia criminale della città dalla rapina di via Osoppo a Vallanzasca
Milano – Palazzo Morando
A cura di Stefano Galli
Sino all’11 febbraio 2018

Di fronte alla ferocia dei singoli e delle società, si potrebbe dire che ogni essere umano è un criminale sino a prova contraria. Siamo infatti animali astuti, tenaci e raffinati. Animali capaci di una violenza che nessun’altra specie conosce e pratica. Perché alle ragioni comuni a tutto il mondo animale -procurarsi il cibo, possedere le femmine, difendere il territorio- l’Homo sapiens aggiunge in non pochi dei suoi membri il piacere che si prova nel vedere la sofferenza, l’angoscia, la disperazione disegnarsi sui volti e nei corpi dei propri simili. Una specie tremenda, insomma, che gli altri animali fanno bene a temere, cercando di tenersene alla larga.
Se posti nelle condizioni sociali, educative e culturali opportune, esponenti di questa specie trasformano la pratica della violenza, del sopruso, dell’arroganza, del furto e dell’assassinio nell’unica pensabile e possibile forma di esistenza. E nascono le bande, le camorre, le mafie, le male, come quella che caratterizzò Milano dal Secondo dopoguerra alla metà degli anni Ottanta del Novecento.

Questa interessantissima mostra racconta il lato oscuro della città mediante molte fotografie, documenti della questura, prime pagine dei giornali milanesi, oggetti e armi utilizzate dai criminali. I quali hanno subìto destini diversi ma tutti accomunati da un profondo squallore. Alcuni sono morti in carcere, come Luciano Liggio; altri in povertà, come Franco Restelli; alcuni uccisi per le strade, come Otello Onofri e Carlo D’Argento; altri trucidati in carcere, come Francis Turatello; qualcuno si è anche rassegnato, come Renato Vallanzasca che sconta i suoi ergastoli e lavora fuori dal carcere. Gli ultimi due compaiono nella foto qui sopra. Turatello fu massacrato nel carcere di Nuoro dal camorrista Pasquale Barra -autore di 67 omicidi- che per sfregio azzannò parte delle sue viscere. Esistenze inutili per chi le ha vissute e dannose per chi le ha incontrate.
A questi banditi, pullulati per lo più dal degrado culturale e dalla miseria economica, si aggiungono i criminali della finanza e i loro protettori politici, responsabili in vario modo della rovina e della morte di tante persone, tra le quali l’avvocato Giorgio Ambrosoli, che cercò di resistere alle lusinghe e alle minacce del banchiere Michele Sindona (poi avvelenato in carcere), personaggio che rappresentò il vero cuore nero dell’Italia di quei decenni. Sindona fu protetto dal Vaticano e da Giulio Andreotti. Entrò in competizione con Roberto Calvi (assassinato a Londra), Guido Carli (a lungo governatore della Banca d’Italia) ed Enrico Cuccia (regista di molte operazioni politiche e finanziarie del dopoguerra).

Tra le fonti di guadagno della mala milanese c’erano le bische clandestine e lo spaccio della droga.
Le bische non hanno più ragion d’essere, visto che lo Stato in prima persona è diventato il grande biscazziere che concede migliaia di licenze per le «macchine mangiasoldi» (Slot machines) e per i vari «gratta e vinci», il cui utilizzo frenetico e diffuso va rovinando moltissimi cittadini. Giocando con queste macchinette -legali e diffusissime- si possono perdere 1000 euro in meno di dieci minuti. Viva la legalità, verrebbe da dire.
Per quanto riguarda le droghe, dopo decenni di utilizzo e di spaccio (mi ricordo che su questo argomento scrissi un tema alle elementari, un po’ di tempo fa…) i loro effetti sono talmente noti a tutti che iniziare a farne uso è indice di pura -direi distillata- stupidità. Nessuna comprensione, quindi, per i tossici. Drogarsi significa elevare la demenza a padrona della propria vita. Sembra interessante, sulla questione, il recente saggio di Afshin Kaveh Fare di tutta l’erba un fascio. La spettacolarizzazione della droga  (Sensibili alle foglie, 2017), dal quale -secondo la sintesi che ne fa Gianpaolo Cherchi- si evince che «la droga è una sostanza intimamente fascista, una ‘Istituzione totale’ in cui la ‘cultura dello sballo’ è in grado di articolarsi e differenziarsi a seconda delle esigenze del mercato» (il manifesto, 1.2.2018)
Nella mostra si può anche leggere un dettagliato dizionario della Mala, il cui gergo è davvero efficace e mostra la pervasiva potenza del linguaggio in qualunque gruppo umano. Qualche esempio: Balordista, spacciatore di banconote false; Batteria, squadra di malviventi organizzati; Bidonista, truffatore; Boga, spia, confidente; Cabriolet, assegno scoperto utilizzato per delle truffe; Cantamessa, mitra; Caramba, carabiniere; Casché, furto con destrezza; Dannato, la persona rapinata; Dura, la rapina; Grattà, rubare; Lasagna, il portafogli; Madama, la polizia; Polenta, l’oro; Soffia, informatore della polizia; Volada, una rapina compiuta assai velocemente.

In difesa della trattativa

La trattativa
di Sabina Guzzanti
Italia, 2014
Con Enzo Lombardo, Filippo Luna, Franz Cantalupo, Claudio Castrogiovanni, Sergio Pierattini, Maurizio Bologna, Sabina Guzzanti, Nicola Pannelli, Michele Franco, Sabino Civilleri, Ninni Bruschetta
Trailer del film

«Quanto sia lodabile in un principe mantenere la fede, e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende: non di manco si vede per esperienza ne’ nostri tempi, quei principi aver fatto grandi cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare i cervelli degli uomini; e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà. […] Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, ed essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici gli uomini e tanto obbediscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare»
(Niccolò Machiavelli, Il Principe, cap. XVIII, Cremonese editore, 1955, pp. 70-71).
Di fronte dunque alle stragi perpetrate da Cosa Nostra in Italia all’inizio degli anni Novanta del XX secolo, che cosa avrebbe dovuto mai fare il Principe? Il suo dovere -per garantire pace e ordine- era trovare un accordo con un’autorità che non si poteva sconfiggere militarmente. E non la si poteva sconfiggere perché in realtà non di un nemico esterno si trattava ma di una parte delle istituzioni della Repubblica. Si trattava -e si tratta- di una fazione della quale hanno fatto parte dal 1945 amministratori locali e nazionali, capi di partito, magistrati, militari, altri e alti funzionari dello Stato. Tale appartenenza dimostra che l’obiettivo dell’organizzazione che va sotto il nome di Cosa Nostra non è mai stato soltanto l’arricchimento dei suoi membri tramite l’uso della violenza ma anche il mantenimento del sistema democratico e dei partiti che ne costituiscono il fondamento. Fu l’esercito statunitense, infatti, a porre uomini di Cosa Nostra a capo dei comuni siciliani. E furono i mafiosi a dare un contributo fondamentale alla permanenza dell’Italia nella sfera occidentale contro il pericolo comunista. Il sostegno, inoltre, alle aziende edili che rinnovarono Palermo, alla produzione e ai commerci durante l’impetuoso sviluppo economico, alle nuove realtà imprenditoriali come Mediaset, è sempre da tenere in considerazione quando si giudica la mafia.
Era quindi fisiologico che il maggior partito italiano -la Democrazia Cristiana- si fondesse, in Sicilia ma non solo, con Cosa Nostra. Fisiologico che la massoneria accogliesse nelle proprie logge molti suoi esponenti, sino a rendersi di fatto indistinguibile da CN. Fisiologico che la più importante realtà culturale e spirituale della nazione, la Chiesa cattolica, collaborasse attivamente con quegli uomini per il mantenimento dell’identità religiosa del Paese. Da tutto questo scaturisce con evidenza come fosse altrettanto -e soprattutto- fisiologico che le istituzioni della Repubblica non soltanto entrassero in ‘trattative’ contingenti e specifiche con Cosa Nostra ma che si scambiassero con regolarità informazioni, strutture, finanziamenti, uomini.
Soltanto se si comprende tutto questo si può, credo, capire che cosa sia stata la cosiddetta trattativa. Essa costituì l’inevitabile accordo tra il Ministero degli Interni guidato da Nicola Mancino, il Ministero della giustizia, la commissione Antimafia di Luciano Violante, la presidenza del Consiglio retta da diversi soggetti, i carabinieri del ROS del colonnello Mori, i Servizi di sicurezza di Contrada e dall’altra parte i capi moderati di Cosa Nostra come Vito Ciancimino e Bernardo Provenzano. Lo scopo fu quello di arginare da un lato la tattica stragista dei fratelli Graviano e di Salvatore Riina; e di arginare dall’altro l’oltranzismo giudiziario di magistrati come Falcone e Borsellino. Lo scopo fu di salvare la Repubblica. E tale scopo venne raggiunto. Il segno più evidente di tale risultato fu la scomparsa di molti partiti ormai superflui o vecchi e la nascita di una formazione nuova, dinamica, aperta come Forza Italia. Uno dei cui fondatori fu per l’appunto un mafioso di primo piano -giudicato tale ormai anche dai tribunali- come il palermitano Marcello Dell’Utri, al quale Silvio Berlusconi ha più volte correttamente e pubblicamente attribuito l’identità e il successo elettorale del suo partito. Che Berlusconi accogliesse nella propria casa e tra gli amici più intimi esponenti importanti di CN, come Vittorio Mangano, è soltanto una delle manifestazioni di tale profonda consonanza.
Venendo al tempo a noi più vicino, è del tutto in linea con tale storia la giusta difesa che l’attuale Presidente della Repubblica conduce strenuamente a favore del suo amico e allora Ministro Mancino. Non solo: uno degli elementi di maggiore importanza e significato della strategia del Presidente Renzi consiste nell’innovare, sì, ma rimanendo in continuità con le forze più moderate, occidentaliste e pragmatiche del Paese, a cominciare dalla massoneria nei suoi esponenti più vicini al mondo degli affari, compreso ovviamente il mondo di Cosa Nostra. Non a caso le attività di tali organizzazioni sono state di recente e finalmente inserite dall’Istat tra quelle che concorrono a formare il Prodotto Interno Lordo dell’Italia.
Infine, ma per me è la questione più importante di tutte, c’era e c’è un problema di giustizia. Non si vede infatti in base a quale criterio etico e politico alcuni dei soggetti che hanno concorso e concorrono a tale vicenda debbano stare in carcere -e subire addirittura le restrizioni dell’articolo 41 bis- e altri soggetti altrettanto responsabili di tutto questo debbano stare nei ministeri e in istituzioni ancora più importanti. L’omicidio, a suo tempo, dell’onorevole Salvo Lima fu una delle espressioni più chiare anche se dolorose di tale esigenza di giustizia.
Il film di Sabina  Guzzanti si occupa in parte di tutto questo, coniugando molta documentazione con un po’ di immaginazione. E in tal modo offrendo una buona sintesi della storia italiana nella seconda metà del XX secolo e negli anni Zero e Dieci del XXI.

Farmaci

Il venditore di medicine
di Antonio Morabito
Italia, 2013
Con: Claudio Santamaria (Bruno), Isabella Ferrari (Giorgia), Evita Ciri (Anna), Giorgio Gobbi (Filippo), Ignazio Oliva (Dott. Sebba), Marco Travaglio (Prof. Malinverni), Roberto De Francesco (Dott. Folli), Pierpaolo Lovino (Stefano Pavolini).
Trailer del film

Venditore_di_medicine«Un regalo deve fruttare all’azienda almeno 11 volte quello che è costato». È una delle regole che guidano i rapporti tra i cosiddetti ‘informatori scientifici’ -vale a dire i rappresentati della case farmaceutiche- e i medici. Un flusso di regali ininterrotto e capillare che va dai cellulari ai viaggi intercontinentali, dai computer alle automobili. Una pratica internazionale ben nota, che si chiama «comparaggio» e che costa enormemente in termini economici ai servizi sanitari nazionali e in termini di salute ai malati. Ai quali moltissimi medici -chissà, forse anche il tuo- prescrivono farmaci non in base alla loro utilità ma in base all’entità dei regali che ricevono dai venditori di medicine delle varie aziende.
Uno di questi venditori, Bruno, vede i suoi colleghi licenziati uno dopo l’altro e teme di fare la stessa fine. Ma non può rinunciare alla splendida casa, all’auto, al tenore di vita. La complicità con medici che accettano e sollecitano regali sontuosi sembra non bastare. Deve fare un colpo definitivo, come indurre un primario incorruttibile a scegliere le fiale chemioterapiche della sua azienda. Azienda per la quale, gli dice la capo area, «oncologia vuol dire 2000 € a fiala». Per conseguire tale obiettivo è disposto a tutto, anche a distruggere il legame con la moglie e a procurarsi documenti riservati degli ospedali e delle farmacie.
L’inizio e la conclusione del film sono costituiti da brani di telegiornali, non soltanto italiani, che parlano di questi cosiddetti ‘scandali’. Parola poco significativa perché è l’intero mondo dei medici e delle case farmaceutiche a costituire uno ‘scandalo’. Per rimanere nel nostro Paese, in esso agiscono sei grandi associazioni criminali: Cosa Nostra, la camorra, la ndrangheta, le società di assicurazioni, le banche, le case farmaceutiche. Le prime tre si collocano fuori dal perimetro della ‘legalità’, le ultime dentro la legalità dello Stato. I delinquenti più pericolosi agiscono però in queste ultime, spesso in collaborazione con le prime tre.
Il film di Morabito documenta questa tragedia con dei colori lividi -il grigio e l’azzurro degli ospedali-, con inquadrature claustrofobiche, con caratteri umani ridotti a macchine produttive di guadagno. E soprattutto dando la netta sensazione che i personaggi si comportino come topi in gabbia, come cavie pronte a sbranarsi reciprocamente non avendo vie d’uscita. In una delle immagini iniziali si vede un topolino alimentato a forza con uno dei veleni che i chimici sperimentano. Si comprende quindi anche che cosa sia e a che cosa serva la vivisezione. Essa è lo strumento iniziale e più atroce di quello sfruttamento della vita a scopi commerciali che è la ragion d’essere e l’obiettivo ultimo delle case farmaceutiche.
 

Fallocefali

Se un qualunque altro politico o personaggio pubblico -non parliamo poi di Grillo- avesse pronunciato pubblicamente un frammento delle parole assolutamente «eversive dell’ordine democratico» delle quali riferiscono i giornali (il videodelirio non l’ho visto, mi disgusta), si sarebbero certamente alzati gli altissimi lai di Giorgio Napolitano. Invece niente. Se a dire che la magistratura è «il braccio armato dei suoi nemici politici (peraltro alleati)»; se a incitare «i propri sostenitori alla rivolta di piazza contro gli organi giudiziari (“reagite, protestate, fatevi sentire”)» (A. Padellaro, Videomessaggio Berlusconi, qualcuno risponda al ricatto); se a pretendere di porsi sopra e contro la legge e le istituzioni repubblicane è un delinquente accertato come il fallocefalo di Arcore, allora il presidente della repubblica sta zitto, muto, coperto. Forte con i deboli e debole con i forti. Davvero è  il peggiore.

 

Gli amici del giaguaro

Gli iscritti, i militanti, gli elettori attivi del Partito Democratico possono anche mugugnare e protestare ma poi rimangono fedeli alla linea, tanto che i loro dirigenti si possono permettere di prendere qualunque decisione, anche quella evidentemente più assurda e criminale; del vecchio PCI è rimasto soltanto questo, vale a dire il peggio.
Come scrive Adriana Bolfo, Ideologia significa anche che “gli ideali” diventano copertura, maschera, alibi, truffa per “i reali“. Anche questo è un insulto contro l’intelligenza degli elettori del Partito Democratico, chiaramente presi per sciocchi da abbindolare. Esattamente lo stesso giudizio che Berlusconi dà dei propri elettori.
Ma almeno qualcosa di buono c’è in quanto sta accadendo: adesso è infatti chiarissimo ciò che da anni si poteva ben osservare, e cioè il fatto che l’esistenza e la sopravvivenza di Berlusconi sono essenziali per il Partito Democratico; che tra gli eredi del Partito Comunista Italiano e il più fanatico -a parole- anticomunista è in atto da molti anni una vera e propria congiunzione carnale in nome di interessi indicibili, in nome dell’arricchimento e della spartizione del potere tra le istituzioni politiche e le più criminali associazioni a delinquere che infestano l’Italia.

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«Ineleggibile o incompatibile? Salvare ancora Berlusconi o dopo vent’anni di inciuci dimostrare di essere qualcosa di più di un ectoplasma politico? Questo è il problema per il pdmenoelle. Se sia più nobile d’animo sopportare gli oltraggi dell’opinione pubblica, i sassi e i dardi della propria sepolta coscienza, o buttar fuori dal Parlamento un evasore ineleggibile. Tale dilemma non esiste. Tra “Essere e non essere” il pdmenoelle ha sempre scelto, in nome di comuni interessi, di “Non essere”.
Di fronte alla improvvisa perdita del suo azionista di riferimento per ineleggibilità, il pdmenoelle non ha avuto esitazioni: ha certificato la propria “non esistenza”, sulla quale pochi in realtà avevano dei dubbi.
I parlamentari pdmenoellini Luigi Zanda e Massimo Mucchetti hanno presentato un disegno di legge per modificare la legge 361 del 1957 sulla ineleggibilità per i casi di conflitto di interesse sostituendola con il principio di incompatibilità. Berlusconi avrà quindi un anno per scegliere fra le sue aziende o la politica. Nel frattempo potrà rimanere tranquillamente in Parlamento invece di esserne cacciato. Senatore tra i senatori. Il provvedimento di urgenza che, se approvato, sarà già esecutivo il giorno dopo la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, è stato reso necessario, improrogabile, dalla richiesta del MoVimento 5 Stelle di dichiarare ineleggibile Berlusconi a norma di legge.
Una legge mai fatta applicare dai governi del pdmenoelle dall’ingresso in Parlamento di Berlusconi nei primi anni ’90, chissà perché. Il testo di incompatibilità è sottoscritto, oltre che da Mucchetti e Zanda, da un battaglione di 23 salvaberluschini, senatori nominati del pdmenoelle: Fedeli, Martini, Chiti, Gotor, Mirabelli, Migliavacca, Tomaselli, Tonini, Tocci, Guerrieri, Del Barba, Collina, Di Giorgi, Corsini, Zanoni, Lo Moro, Tronti, Pizzetti, Mauro Marino, Dirindin, Fattorini, Pagliari, Rita Ghedini.
Per gli amici del giaguaro, quelli che dovevano smacchiarlo, le leggi che lo riguardano non si applicano e, se si è costretti a farlo, si cambiano».
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Fonte: Ineleggibile o incompatibile? Essere o non essere?

Chi dunque porta tutta intera la responsabilità di questo governo solo apparentemente contronatura? Di ciò che lo ha fatto nascere e lo fa sopravvivere? Dei suoi obiettivi palesi e di quelli nascosti? Chi? Il Movimento 5 Stelle o il Partito Democratico? Chi sono i veri, fedeli, tenaci amici del giaguaro?

 

Vallanzasca. E basta

Vallanzasca. Gli angeli del male
di Michele Placido
Italia, 2010
Con: Kim Rossi Stuart (Renato Vallanzasca), Filippo Timi (Enzo), Francesco Scianna (Francis Turatello), Valeria Solarino (Consuelo), Gaetano Bruno (Fausto), Moritz Bleibtreu (Sergio), Paz Vega (Antonella D’Agostino).
Trailer del film

Capiamo che siamo negli anni Settanta solo per le orribili cravatte e per l’abbigliamento che con quelle cravatte era coerente. Né politica né mafia, né il loro intreccio, né lotte sociali. Niente. E persino i compagni, la banda, le donne, gli altri malavitosi, sono descritti in modo schematico. Le vittime spesso non hanno neppure un nome. Tutto è incentrato sul protagonista, sulla sua infanzia, i genitori sempre dalla sua parte, le sue battute, gli sguardi, la follia criminale, la feroce determinazione a diventare il migliore nel suo campo, la consapevolezza di aver voluto essere ciò che è stato, senza sociologismi o psicologismi (auto)giustificatori. In un’intervista, infatti, Vallanzasca afferma di «venire da una famiglia agiata e avrei potuto comportarmi diversamente. Ho voluto essere un ladro, perché sono nato così».

In questo film non c’è apologia ma non c’è neppure alcun distacco dal suo protagonista. C’è molta violenza, anche efferata. Una sorta di incrocio tra il gangster movie e il Grand Guignol. Tutto è affidato alla frenesia del montaggio e soprattutto all’eccezionale interpretazione con la quale Rossi Stuart diventa Vallanzasca. Ma il fascino è quello del cinema e non quello di un uomo che ha buttato la sua vita tra morti e galere.

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