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Confino

Recensione a:
Aa.Vv.
KRISIS
Corpi, Confino e Conflitto

Catartica Edizioni, 2020
pagine 120
in Studi sulla questione criminale
24 settembre 2020

Ho collaborato a questo volume e ho presentato volentieri in una rivista di studi giuridici e sociologici i contributi degli altri autori, i quali pur con tonalità e direzioni di pensiero differenti convergono nella analisi del contagio.
È questa la parola magica, la formula aurea, il passe-partout dell’obbedienza praticata su di sé e invocata sugli altri. Quando infatti vengono negati persino l’ultimo baluardo della socialità, il dolore intorno al defunto e il pianto rituale sul suo cadavere, vuol dire che mediante il terrore del contagio l’autorità è riuscita a penetrare nel luogo sacro della vita, assorbendola interamente ai propri parametri e obiettivi.
Altri ambiti fondamentali della distruzione del corpo collettivo sono il lavoro, la scuola, l’università, l’annullamento degli spazi nei quali tali attività si esercitano, il divieto della relazionalità spaziotemporale in cui consiste la vita quotidiana. La ‘quarantena’ o più esattamente il confino al quale siamo stati costretti senza aver commesso alcun reato, non è stata resa più leggera dalle tecnologie di comunicazione e lavoro a distanza ma è stata resa possibile proprio per mezzo di tali tecnologie; è evidente che la chiusura universale di centinaia di milioni di individui umani «non sarebbe potuta essere neanche lontanamente pensabile se non fossero esistiti questi tipi di comunicazione altra, o almeno non la si sarebbe fatta scorrere acriticamente, accettandola in tutto e per tutto  in ogni sua sfumatura, anche quelle più contraddittorie» (A. Kaveh, p. 15).

Questo è l’indice del libro:

A Peste, Fame et Bello
Capitalocene epidemico e confinamento dei corpi
di Afshin Kaveh

Vita e salute
Il paradigma Don Abbondio
di Alberto Giovanni Biuso

Morte trionfata: lutto e metamorfosi al tempo del virus sovrano
di Xenia Chiaramonte

La rana e lo scorpione
O della pandemia della subalternità
di Cristiano Sabino

Riflessioni femministe sull’epidemia del nostro tempo: l’assoggettamento volontario
di Nicoletta Poidimani ed Elisabetta Teghil

Doveri e diritti dei docenti universitari

Insieme a Monica Centanni, e anche su sollecitazione di alcuni colleghi, abbiamo ragionato sulla nostra esperienza generale e su quella dell’ultimo semestre dello scorso anno accademico; abbiamo consultato le principali leggi di riforma dell’istruzione e dell’università che si sono susseguite negli anni; abbiamo attinto al confronto avuto in questi mesi con i nostri studenti.
Ne è scaturito un testo che abbiamo poi sottoposto al controllo di vari giuristi e che vorrebbe costituire una Guida per i docenti universitari che intendono svolgere pienamente il loro compito didattico e civile anche in tempi complessi come quelli che ci troviamo a vivere
Pubblico qui le Premesse e i dieci punti della Guida; in Corpi e politica si può leggere la versione integrale del documento, con l’Appendice giuridica e l’indicazione di alcuni testi di approfondimento da noi pubblicati negli scorsi mesi.

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Iuxta legem. Dei doveri e dei diritti dei docenti universitari, in tempo di epidemia. 
Una guida

di Alberto Giovanni Biuso e Monica Centanni

“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”
Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 33

Una guida – esito sintetico della nostra esperienza, maturata ed esercitata da noi personalmente e concretamente nel corpo vivo dei corsi che abbiamo tenuto nella primavera/estate 2020 all’Università di Catania e all’Università Iuav di Venezia. Abbiamo sintetizzato la nostra presa di posizione in questo testo su sollecitazione di molti amici e sodali, ‘compagni di scuola’ dei nostri e di altri Atenei.
La scorsa primavera, per spirito di responsabilità istituzionale e con la piena consapevolezza della difficoltà della situazione, abbiamo tenuto a spiegare e argomentare le nostre prese di posizione prima ai nostri studenti e poi agli organi di governo delle nostre Università, e in qualche caso siamo stati chiamati direttamente ‘in causa’, a renderne conto.
Specifichiamo che, avendo applicato punto per punto i principi e i comportamenti che ora abbiamo raccolto in questo Decalogo, pur essendo stati richiamati a dar ragione delle nostre scelte, non siamo stati sottoposti ad alcun provvedimento sanzionatorio da parte degli organismi di disciplina delle nostre Università. Comunque, a garanzia di tutti, prima di condividere questa nostra elaborazione, abbiamo sottoposto il Decalogo ad amici e colleghi giuristi, i quali hanno verificato la correttezza, legale oltre che di principio, delle nostre affermazioni. Ne abbiamo inoltre parlato con alcuni dei nostri studenti, i quali ci hanno dato delle indicazioni molto significative.

Premesse

La prima premessa è il perdurare della condizione di emergenza collegata all’epidemia Covid, la conseguente affermazione dello stato di eccezione, nazionale e internazionale, che ad essa conseguirebbe, e la mancanza di chiarezza nelle indicazioni sulla didattica universitaria.
La seconda riguarda il fatto che non tutti i docenti universitari sono disposti a subire passivamente i multiversi e contradditori diktat impartiti da una qualsiasi autorità sulle modalità di svolgimento delle lezioni universitarie.
La terza è relativa al fatto che i doveri e i diritti dei docenti universitari sono statuiti dalla Costituzione, che rappresenta il vertice nella gerarchia delle fonti del diritto e non può certo essere contraddetta – esplicitamente o implicitamente – da una disposizione normativa di rango secondario, come i regolamenti emanati dai singoli Atenei o un qualsiasi altro provvedimento amministrativo.
Tutte le leggi che la Repubblica ha emanato sull’insegnamento universitario confermano – e altro non potrebbero fare – la lettera e lo spirito dell’art. 33 della Costituzione (si veda, in Appendice, una sintesi delle leggi sul punto che ribadiscono il dettato costituzionale). Di fatto, gli obblighi dei docenti sono indicati nei regolamenti dei singoli Atenei in modo di caso in caso più o meno preciso. Tutto ciò che non viene esplicitamente regolamentato è lasciato alla coscienza civile e alla competenza didattica dei docenti stessi, nella piena osservanza anche degli articoli 2 e 34 della Costituzione che stabiliscono: il rispetto dei “diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”; il fatto che “la scuola [sia] aperta a tutti”; il fatto che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. In questo contesto è importante ricordare che Concetto Marchesi fra i Costituenti nel presentare l’articolo 33 – in cui è detto che “la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione” – sostiene che esso è “ben lontano dal proporre e dal desiderare che lo Stato intervenga come ordinatore degli indirizzi ideologici, dei metodi di insegnamento [c.vo nostro] e di tutto ciò che possa intaccare o menomare la libertà di insegnamento, la quale invece deve essere in tutti i modi rispettata e garantita”.

Una guida, in dieci punti

I. Libertà di insegnamento
Il docente ha il dovere e il diritto di svolgere la sua attività di insegnamento e di ricerca, individuando le modalità e i metodi più idonei rispetto alla materia e all’organizzazione interna del corso, all’interno dell’organizzazione dei Dipartimenti.
Il docente ha altresì il diritto di rifiutarsi di svolgere le lezioni in modalità non compatibili con le linee etiche e deontologiche che definiscono la qualità del suo insegnamento. 

II. Contatto e relazione con gli studenti
Il docente ha il dovere di avviare un contatto diretto con gli studenti iscritti al corso, stabilendo una relazione individuale o di gruppo e con i mezzi che ritiene più idonei per chiarire i contenuti del programma, fornendo ogni indicazione utile e tutti i materiali per gli approfondimenti. Il dovere della relazione diretta, personale e di gruppo, con la classe e con i singoli studenti è tanto più vitale e importante quanto più anomale sono le condizioni in cui ci si trova a insegnare. Il docente ha il dovere di condividere con gli studenti del corso le linee e la metodologia per lo studio dei testi in programma e per eventuali ricerche e approfondimenti. 

III. Diritto di obiezione di coscienza rispetto alla didattica a distanza
Il docente – che non abbia ab initio stipulato un contratto che preveda la sua accettazione di modalità di insegnamento telematico – ha il diritto di esercitare obiezione di coscienza rispetto a qualsiasi obbligo imposto che sia contrario ai suoi metodi e ai suoi principi. Rientra a pieno titolo nel principio della libertà di insegnamento del docente sostenere e argomentare in tutte le sedi, dal confronto con gli studenti alle sedi istituzionali, il fatto che la didattica a distanza, dal punto di vista concettuale, è un monstrum che impone la consegna incondizionata di corpi e di menti alla nuova modalità di insegnamento e comporta lo snaturamento del carattere della lezione, per sua natura interattivo e sinestetico. All’orizzonte dell’ideologia securitaria della immunitas si profila l’eliminazione del contatto fisico tra docente e studenti, e tra studente e studente. 

IV. Diritto al rifiuto dell’integrazione impropria della dotazione retorica
Il docente ha il dovere di svolgere lezioni e di essere preparato a questo compito sia dal punto di vista dei contenuti sia dal punto di vista del possesso della necessaria strumentazione retorica. Viceversa, il docente non ha alcun dovere di istruirsi né di ‘aggiornarsi’ su altre tecniche di comunicazione estranee alla lezione universitaria, come gli spot video o i documentari televisivi, attività per le quali sono richieste tecniche e retoriche specifiche. Ogni genere ha la sua retorica. Se gli organi di governo dell’Ateneo adottano la decisione di attivare cicli di lezione “televisive”, arruolino figure di ‘divulgatori’ formati tecnicamente ad hoc, senza imporre al docente di affinare tecniche performative improprie. Per assurdo (ma non tanto): perché non far recitare la propria lezione a un attore professionista, con adeguata assistenza di registi e di tecnici luci e audio? E perché non far declamare le proprie lezioni in inglese – richieste in molti corsi – da un ‘alias’ madre-lingua? È comunque dovere/diritto del docente attivare e promuovere, anche fra gli studenti, la consapevolezza critica che la scelta del canale ‘televisivo’ – e del metodo e della retorica connessi a quella modalità di comunicazione – si pone come modalità alternativa rispetto alla tradizione di una paideia positivamente consolidata da secoli in Italia e in Europa e, di fatto, incentiva l’assimilazione delle nostre università con le università telematiche parificate, che in Italia già proliferano in modo abnorme, grazie a scelte legislative scellerate. 

V. Diritto al rifiuto della registrazione delle lezioni
Il fatto, positivo e auspicabile, che le lezioni possono essere trasmesse agli studenti impossibilitati a partecipare fisicamente mediante mezzi telematici via streaming, non comporta né include alcun obbligo di registrazione su piattaforme private (Teams, Zoom e analoghi software). Va ricordato che in qualsiasi situazione e circostanza, i contenuti e le modalità delle lezioni sottostanno inoltre alle norme sulla riservatezza (privacy) e in quanto tali non possono essere registrate senza il consenso del titolare della lezione stessa (neppure tramite semplici registratori audio). Più in generale, va rivendicato il principio che l’attività didattica è proprietà intellettuale del docente, che può decidere di cederne i contenuti – se lo ritiene opportuno – ma può rifiutarsi di farlo. In particolare, ogni lezione costituisce un’espressione intellettuale che deve essere garantita nella sua interezza, senza estrapolazioni, tagli, inserimenti che rischiano di stravolgerne contenuti, intenzioni, obiettivi. Nulla di tutto questo è garantito dalla registrazione delle lezioni su piattaforme private che ne diventano ipso facto le detentrici anche economiche, con tutte le conseguenze sull’utilizzo di opere dell’ingegno (spesso non pubblicate) da parte dei gestori delle piattaforme private. Alla luce di tutto questo, l’obbligo di svolgimento delle lezioni (in presenza o in streaming) non comporta alcun obbligo di registrazione delle lezioni stesse. Il docente può quindi rifiutarsi di registrare una, più o tutte le lezioni del corso che svolge.

VI. Diritto/dovere al rifiuto di controllo (burocratico) passivo
Il docente ha il diritto/dovere di sottrarsi a qualsiasi forma di controllo da parte degli uffici delle modalità e degli orari degli accessi alle piattaforme didattiche – un abuso che implica la riduzione in un ruolo umiliante per controllori e controllati. Di converso il docente ha il dovere di rispondere puntualmente alle osservazioni dei suoi studenti, del direttore e dei colleghi del corso di studio, a richieste di chiarimento e di delucidazione sui contenuti e sulle modalità del suo insegnamento.

VII. Diritto/dovere al rifiuto di controllo (poliziesco) attivo
Il docente ha il diritto/dovere di sottrarsi a qualsiasi ordine che lo porti a svolgere azioni di controllo sulle presenze, sulle attitudini, sui costumi degli studenti. In particolare, ha il diritto/dovere di sottrarsi al ruolo di controllore, reale o informatico, che è un ruolo implicitamente poliziesco, del tutto estraneo all’accordo fiduciario con gli studenti (ed estraneo anche alle sue mansioni) che, se necessario, va attribuito ad altre figure.

VIII. Difesa della libertà di accesso allo spazio universitario e permeabilità degli spazi a tutti i cittadini
È dovere del docente difendere la libertà di accesso agli spazi universitari: l’emergenza non può diventare una prova generale di sequestro e impermeabilizzazione degli spazi – aule, biblioteche, spazi comuni – alla libera circolazione di tutti cittadini. La limitazione della possibilità di accesso a tali luoghi di cultura equivale, infatti, a uno snaturamento degli stessi, istituzionalmente destinati all’uso pubblico, e a un conseguente depauperamento della cittadinanza, titolare ultima, nel suo insieme, del diritto di disposizione di quegli spazi.

IX. Rifiuto di collaborare all’aumento delle diseguaglianze, significato e funzione sociale e politica della didattica
Il docente ha il diritto/dovere di opporsi con tutti i mezzi a sua disposizione alla possibilità che il suo insegnamento accresca il divario di classe, economico e sociale, tra i suoi studenti. In questo senso ha il dovere di allenare il senso critico suo, degli studenti e dei coordinatori della didattica dei suoi corsi in merito all’aggravamento del divario che la didattica a distanza, di fatto, provoca. La pratica didattica – la didattica reale, la didattica in presenza – è una delle espressioni più chiare e feconde del principio politico-educativo che Hannah Arendt ha sintetizzato nell’atto di “uscire di casa” – prima condizione del passaggio dell’individuo da idiotes – persona che gestisce i suoi interessi privati all’interno dell’ambiente domestico o della comunità protetta – a polites ‘cittadino’, ovvero essere umano a pieno titolo che agisce nello spazio pubblico. Le istituzioni sono chiamate a educare politicamente i cittadini e non a favorire la tendenza all’infantilizzazione del corpo sociale: la didattica a distanza incentiva il ritorno al nido domestico degli studenti, la ritrazione in una dimensione che favorisce la permanenza all’interno del clan, anziché affrancare lo studente dai costumi familiari e locali. Le città italiane sono per storia e per vocazione storica “cittadelle del sapere” e in questo senso va incoraggiato, anche con sostegni economici consistenti e mirati, lo sviluppo della residenzialità di docenti e studenti nelle città universitarie.

X. Diritto/dovere alla parrhesia e denuncia della microfisica del potere
Proprio del docente è il diritto/dovere di esprimere con l’efficacia di cui è capace il suo pensiero critico rispetto alle regole vigenti: si tratta di un diritto/dovere proprio del cittadino, che il docente universitario deve sapere esercitare a un grado superlativo. Ciò vale anche sotto il profilo pedagogico, perché primo impegno del docente universitario è l’educazione alla critica e alla parrhesia e il dovere di tenere alta la propria intelligenza critica e allenare lo spirito critico degli studenti. Nella consapevolezza che le più insidiose forme di imposizione passano per via amministrativa e che la “microfisica del potere” si disloca nella parcellizzazione di regolamenti e circolari, il docente ha il diritto/dovere di argomentare nei confronti degli organi di governo dell’ateneo e, soprattutto, con gli studenti la resistenza a qualsiasi forma di controllo e la possibilità di rigetto delle modalità imposte.

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Il documento continua con i riferimenti giuridici e i suggerimenti di lettura. La versione integrale si trova qui:  Pdf del documento

Vita e salute

Vita e salute
Il paradigma Don Abbondio
in Krisis. Corpi, Confino e Conflitto
Catartica Edizioni, 2020, pp. 120
Pagine 27-54

Questo volume, a cura di Afshin Kaveh, raccoglie cinque saggi che costituiscono una prima analisi critica di quanto è avvenuto e ancora accade in relazione al Covid19. Da prospettive diverse e interagenti abbiamo cercato di individuare le scaturigini dell’epidemia, il manifestarsi in essa di qualcosa che maturava da molto tempo, la miseria della sua gestione da parte delle autorità e dell’informazione, il nesso tra natura, politica, malattia, i possibili sviluppi, la crisi che il morbo ha generato in ogni anfratto del corpo collettivo.
È il testo nel quale ho cercato di esprimere con la maggiore chiarezza e completezza possibili ciò che penso dell’attuale momento storico. Anche se indirettamente, ho cercato di far emergere la forza psicosociale del virus come manifestazione di una potenza ancestrale, del bisogno di dogmi in una società del disincanto, dell’intimidazione moralistica come rito collettivo che dà forza a chi lo pratica in contrapposizione agli “egoisti, malvagi e indifferenti”. Il Covid19 come religione, insomma.

Il saggio è articolato in sette paragrafi:
-La vita di Don Abbondio
-La vita
-Il potere
-Panico televisivo
-Il corpo cancellato di Socrate
-I luoghi
-Infine, l’Intero, la Φύσις

[Una versione più sintetica e liberamente leggibile di questo saggio si trova qui: Epidemie]

 

Scienza e magia

Leggo sul Fatto Quotidiano del 31.7.2020 questa notizia: Coronavirus, governo contro la pubblicazione degli atti del Comitato tecnico scientifico: “Danneggerebbero l’ordine pubblico”.

Come sanno tutti quelli che hanno un minimo di istruzione, la scienza è per definizione una procedura pubblica, ripetibile, controllabile. In caso contrario si parla di magia, di superstizione, di guru, di sette. E di questo si tratta ormai a proposito del Covid19. Ma il governo Conte questo non lo sa. E non lo sanno neppure il Fatto Quotidiano, la Repubblica, la Rai e la miriade di fogli e media obbedienti.
Di tale atteggiamento superstizioso fa parte la maschera/museruola, che all’inizio dell’epidemia veniva raccomandata soltanto agli operatori sanitari e a quanti mostrassero difficoltà respiratorie (parola del Ministero italiano della Salute e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità), poi -una volta disponibili milioni di museruole– è diventata magicamente necessaria, obbligatoria, fondamentale per non ammalarsi e non contagiare. Maschera/museruola la cui efficacia è sottoposta a una serie di regole e procedure -nel toccarla, conservarla, indossarla– che somigliano a una complessa cerimonia giapponese e che i suoi utilizzatori naturalmente ignorano tenendola in tasca, sul braccio, ovunque; prendendola con mani non lavate; riutilizzandola. Temo che questa pratica farà danno alla salute degli incauti utilizzatori. Anche perché tenerla a lungo sulla bocca e sul naso fa sì che l’anidride carbonica ritorni nei polmoni invece che dissolversi nell’ambiente. Una ragione per la quale il respiro ha un ben preciso ciclo ci sarà, no? «Il metabolismo energetico aerobico consuma ossigeno e produce biossido di carbonio (comunemente detta anidride carbonica). In fisiologia si intende, per respirazione, anche la funzione biologica di scambio dei gas fra organismo e ambiente esterno, con assorbimento dell’ossigeno ed emissione del biossido di carbonio» (Wikipedia, voce Respirazione).
La maschera/museruola non svolge dunque una funzione sanitaria ma è un simbolo politico di controllo generale e un vero e proprio talismano che dovrebbe garantire dal malanno.
Non solo: l’utilizzo dei guanti, che contrariamente alle mani non vengono lavati, conduce con sé batteri e sporcizia di tutti i generi. Ma il Supremo e Segreto Potere Sanitario si è pronunciato (da un certo momento in poi) a favore delle maschere e dei guanti. E il popolo obbedisce. Non tutto, per fortuna.

Alle osservazioni di un amico il quale ha obiettato che «il popolo è ‘uno animale pazzo’ come diceva Guicciardini, quindi fraintenderebbe il contenuto delle conclusioni scientifiche, di per sé problematiche» ho risposto in questo modo: «Quello che scrivi mi sembra molto pericoloso, poiché è la giustificazione di tutti i poteri autoritari, dai Tribunali della Controriforma alla CIA. E in questo caso tra ‘il popolo’ ci sono anch’io e migliaia di studiosi e intellettuali ai quali una setta autoproclamatasi ‘scientifica’ nasconde le proprie procedure e decisioni. E poi ci sono sempre i media -compreso lo zelante FQ– a tenere buono il popolo. Proprio perché ‘problematiche’ le risultanze DEVONO essere pubbliche. In caso contrario saremmo in balia di folli, di guru, di capi indiscutibili, che oggi si chiamano Conte, domani potrebbero chiamarsi Salvini, Biuso, Rossi. Non importa. Non è una questione di partiti o di nomi, è una questione di istituzioni, di salute, di diritto e di libertà».

«Mò ce stà ‘o virùss»

Veloci sono spesso i cambiamenti collettivi. A volte anche repentini. Diventano fulminei in presenza di eventi che sconvolgono proprio da un giorno all’altro la vita di milioni di persone. E quindi se «fino a pochi mesi addietro, in tutti i paesi si indicava come uno dei gravi drammi dell’epoca la solitudine», se «se ne discuteva sulla stampa, in radio, in tv, sul web», se «per combatterla si proponeva la ricetta dell’empatia. Dell’affetto. Della vicinanza. Dell’abbraccio. Di colpo, lo scenario si è rovesciato. […] Distanziamoci. E criminalizziamo chi non sta alle regole» (Marco Tarchi, Diorama Letterario 355, maggio-giugno 2020, p. 1).
Criminalizzazione che è uno degli effetti di «una vera e propria fabbrica della paura, che mette quotidianamente in circuito immagini e discorsi allarmanti» (Id., p. 2). Alcune delle conseguenze sono state sperimentate in un modo o nell’altro da tutti i cittadini. E sono queste: «La gran parte delle persone ha sacrificato volontariamente la propria libertà in cambio di un’illusoria sicurezza. La nostra prigionia, per quanto imposta dallo stato, è accettata dai più come male necessario. Lo Stato, principale responsabile della diffusione dell’epidemia, si declina come Stato Etico, padre che comanda, punisce e imprigiona i figli per il loro “bene”. I nemici sono quelli che non si piegano alle regole, persino quelle più insensate. I nemici sono i sanitari che denunciano la strage, invece di scrivere una pagina del libro Cuore del Covid-19. I nemici sono i lavoratori che scioperano nonostante i divieti, perché il ruolo di agnello sacrificale gli sta stretto. I nemici sono i detenuti che provano a sopravvivere. La delazione verso il vicino che trasgredisce è il premio morale per chi, strangolato dalla paura, resta intanato in casa, in inconsapevole attesa che il virus gli venga recapitato a domicilio dal parente che lavora o fa la spesa. Il panopticon globale è il passo successivo, la condizione che ci viene posta per passare dai domiciliari alla libertà vigilata. Sinora i più si sono piegati allo stato di eccezione senza opporre resistenza» (Maria Matteo, A Rivista anarchica, n. 443, maggio 2020, p. 12).

Sullo stesso numero di A Rivista anarchica, Giuseppe Aiello descrive una situazione che ho vissuto anch’io, identica, nel dialogo con alcuni amici e colleghi: «In tempi di pace, quando i morti sul lavoro, sulle autostrade, di cancro industriale si contano a decine di migliaia, ma non c’è “lo Gran Morbo” a minacciarci, citano Foucault come se fosse una specie di amico di famiglia dal quale hanno analiticamente appreso i segreti della microfisica del potere sin da quando erano in fasce. Adesso che si sono all’improvviso brancaleonizzati, della critica dell’istituzione medica, dell’analogia strutturale tra luoghi di detenzione brutale come il carcere e quelli della salute statalizzata non sanno più nulla. Ma come, il rapporto medico-paziente non era uno dei cardini della torsione autoritaria della società disciplinare? L’ospedale non aveva lo stesso significato di manicomio e caserma? No, roba passata, mò ce stà ‘o virùss» (p. 32).

Il virus ha colpito in modo drammatico l’Italia e l’Europa, le cui classi dirigenti reputano la sanità pubblica uno spreco da tagliare, tagliare, tagliare. In Lombardia, terra molto solerte nel tagliare, le conseguenze sono state tragiche.
L’Unione Europea, come mostra anche l’«accordo» suicida che in questi giorni i media presentano come una vittoria dell’Italia (!), non mira soltanto a tagliare quanto più possibile le spese sociali ma, più in generale, a «fare tabula rasa della lunga e ricca storia europea» (Yann Caspar, Diorama letterario 355, p. 14), cancellando il tesoro delle differenze a favore di una omologazione identitaria fondata sul primato di ciò che Aristotele chiamava crematistica, vale a dire l’elemento soltanto finanziario.

Un delirio collettivo

Fisiologiche e frequenti sono nelle collettività umane le ondate di delirio collettivo causate da diverse ragioni e circostanze: guerre e fanatismi bellici atti a mobilitare cittadini e sudditi verso la loro morte e quella altrui; millenarismi religiosi pronti ad assicurare che un qualche regno dei cieli è vicino e basta fare qualcosa – ad esempio recarsi a piedi a Gerusalemme e conquistarla nel nome di Cristo (1096)– per ottenere la garanzia della salvezza; epidemie e contagi che spargendo il terrore supremo giustificano ogni ordine e decreto delle autorità pro tempore, qualunque sia il loro segno politico.
In nome del contagio da Covid19 e della pandemia psichica da esso scatenata si proibiscono i matrimoni tra omosessuali; si lasciano in angosciosa solitudine i moribondi; si dà la caccia a solitari camminatori sulle spiagge; si sprangano scuole, università e biblioteche facendo precipitare il corpo sociale in quelle che una volta si chiamavano le «tenebre dell’ignoranza», sostituendo la relazione viva con un algido e sterile contatto digitale/telematico/virtuale tra insegnanti e allievi.

E inoltre, a clamorosa negazione di anche recentissime campagne ecologiche, si suggerisce l’utilizzo dell’automobile privata come ‘mezzo più sicuro’ rispetto a quelli pubblici; si impongono mascherine/museruole e guanti di plastica il cui casuale smaltimento sta producendo danni enormi all’ambiente, come testimonia anche il noto geologo Mario Tozzi sulla rivista del Touring Club Italiano:

«Arrivano già le segnalazioni di quantitativi crescenti di mascherine e guanti in mare, dove diventano letali per tartarughe e pesci che li scambiano per cibo. […] Se anche solo l’1% delle mascherine venisse smaltito non correttamente (e alla fine disperso in natura), ciò significherebbe dieci milioni di mascherine al mese disperse nell’ambiente. […] Questa roba finirà nel Mediterraneo, dove ogni anno si riversano già 570 mila tonnellate di plastica. […] E c’è una contraddizione ambientale ancora più pesante. Ovviamente soffriamo per le 320mila vittime che Covid19 ha mietuto in tutto il mondo, ma non ci impressionano tanto i 4 milioni di morti in più , rispetto alle medie ‘normali’ che l’Oms segnala da tempo a proposito dell’inquinamento atmosferico; 80 mila solo in Italia, quando per il virus ne piangiamo, per ora, meno della metà. Il virus fa paura, l’inquinamento e la plastica inutile no»
(La rivincita della plastica, «Touring», luglio-agosto 2020, p. 22).

Le ondate di panico collettivo sono sempre molto pericolose e quella legata al Covid19 è particolarmente insidiosa anche per la sua dimensione planetaria, globale, dalle conseguenze ambientali assai gravi e intrisa di un asfissiante conformismo.

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Questo testo è stato pubblicato il 22.6.2020 su corpi e politica  e su girodivite.it.
Dal 28 giugno anche corpi e politica è entrato in una nuova fase, come si può leggere nel testo collettivo Corpi e corpi. In presenza, nel quale scriviamo – tra l’altro – che «oggi, nel tempo oscurantista della paura, […] liberare i corpi significa puntare sull’incontro fisico, rilanciare la potenza del contatto e la necessità – umana ovvero politica – della relazione.
Tenere una lezione ai propri studenti senza mediazioni telematiche, in presenza fisica; lavorare in gruppo ‘dal vero’; spostarsi fisicamente in un’altra città o nazione; fare una festa; fare un’assemblea – potrebbero sembrare le più ovvie delle rivendicazioni, il ritorno a una normalità da recuperare dopo un periodo di obbligata astinenza. Ma invece proprio il tempo della deprivazione ha dimostrato quanto quelle pratiche siano preziose, funzionali alla vita activa senza la quale, per l’uomo, non si dà vita contemplativa ma neppure la mera sopravvivenza biologica.
Per questo corpi e politica si apre da oggi non solo alle riflessioni sul nostro tempo, ma anche al racconto di esperienze concrete di liberazione dei corpi, che possono prefigurare nuove forme di resistenza all’invadenza – di sistema e di dettaglio – di uno Stato etico che mina alla radice la libertà della vita» .

«Che l’uomo non sia carnivoro per natura»

Plutarco
Del mangiare carne
Trattati sugli animali
(Plutarchi Moralia selecta: De esu carnium; Bruta animalia ragione uti; De sollertia animalium)
Introduzione di Dario Del Corno
Traduzione e note di Donatella Magini
Adelphi, 2001
Pagine 296

Una delle ipotesi più accreditate sulle origini del Coronavirus è che si sia sviluppato nei mercati di carne animale, viva e morta. Può dunque essere utile leggere quanto un antico saggio ha argomentato contro la pratica umana di mangiare la carne di altri animali.
Il volume – ben tradotto e arricchito da due feconde introduzioni e da un imponente apparato di note – raccoglie infatti tre testi di Plutarco (47-127) dedicati all’animalità: De esu carnium; Bruta animalia ragione uti; De sollertia animalium, vale a dire Del mangiare carne, Gli animali usano la ragione, L’intelligenza degli animali di terra e di mare (questo il vero argomento, al di là del modo in cui viene intitolato in latino il terzo testo). 

Molto più che trattati di zoologia antica, molto più che una godibilissima antologia di centinaia di affascinanti leggende greche e romane sul mondo animale, le pagine di Plutarco mostrano alcune delle ragioni per le quali i due immediati successori di Aristotele alla guida del Peripato – Teofrasto e Stratone di Lampsaco – si allontanarono dalla scala naturae del Maestro, sostenendo invece la presenza di una ψυχή, della mente, in tutti gli animali.
Il paradigma proposto da Teofrasto, Stratone, Plutarco è opposto a quello biblico ben testimoniato dalle parole che Yahweh (הְוֶה) rivolge a Noè all’uscita dall’arca: «Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere. Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo» (Genesi, 9, 2–3; trad. La Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane 1988, p. 50).

Il paradigma di questi Greci si può invece riassumere in alcuni punti tanto chiari quanto fondamentali per comprendere le dinamiche dell’οἶκος, della comune abitazione dei viventi:
-tutti gli animali, qualunque sia la loro specie, sono dotati di percezione, ragionamento, comprensione della complessità degli ambienti nei quali vivono. A volte alcuni di essi impazziscono e non si può impazzire se non si possiede la ragione. Essi tutti sono in grado di comprendere i pericoli e di perseguire i vantaggi, in caso contrario semplicemente non esisterebbero; rispetto agli umani, sono anche dotati di un maggiore equilibrio nei comportamenti quotidiani, tanto è vero – afferma Grillo nel Bruta animalia ragione uti – che «le bestie, invece, hanno un animo totalmente inaccessibile e impenetrabile alle passioni di provenienza esterna, e vivono tenendosi lontano da vane illusioni» (cap. 6, 989 C, p. 91). Una superiorità etica alla quale si ispirò Machiavelli per il suo splendido e incompiuto poema L’Asino;
-tra le passioni che li muovono, gli umani nutrono una ferocia smodata, una costante aggressività, un eccesso persino sadico, dal quale le specie carnivore sono invece libere. Se infatti «per loro [serpenti, pantere, leoni] il sangue è un cibo vitale, invece per voi è semplicemente una delizia del gusto» (De esu carnium, 2, 994 B; 58), sino al punto che «per un minuscolo pezzo di carne priviamo un essere vivente della luce del sole e del corso dell’esistenza, per cui esso è nato ed è stato generato» (Ivi, 3, 994 E ; 59-60);
-la struttura anatomo-fisiologica di Homo sapiens è la più evidente prova della sua natura frugivora e non carnivora: «Che l’uomo non sia carnivoro per natura, è provato in primo luogo dalla sua struttura fisica. Il corpo umano infatti non ha affinità con alcuna creatura formata per mangiare la carne: non possiede becco ricurvo, né artigli affilati, né denti aguzzi, né viscere resistenti e umori caldi in grado di digerire e assimilare un pesante pasto a base di carne. Invece, proprio per la levigatezza dei denti, per le dimensioni ridotte della bocca, per la lingua molle e per la debolezza degli umori destinati alla digestione, la natura esclude la nostra disposizione a mangiare la carne. Se però sei convinto di essere naturalmente predisposto a tale alimentazione, prova anzitutto a uccidere tu stesso l’animale che vuoi mangiare. Ma ammazzalo tu in persona, con le tue mani, senza ricorrere a un coltello, a un bastone o a una scure» (Ivi, 3, 994 F -995 A; 60-61);
-l’abitudine al sangue e alla violenza inflitta ad altri animali si trasforma inevitabilmente in crudeltà verso i propri conspecifici, verso gli umani. Lo hanno ribadito, tra gli altri, filosofi come Kant, Schopenhauer, Horkheimer, Adorno, Marcuse e lo afferma con chiarezza anche Plutarco: «Queste pratiche insegnano […] a considerare il sangue, la morte di esseri umani, le ferite e i combattimenti il più raffinato degli spettacoli» (Ivi, 2, 997 C, 67); «Una volta che ebbero così gradualmente temprato la propria insaziabilità, gli uomini si volsero alle stragi dei loro simili, ai delitti e alle guerre» (Ivi, 4, 998 C; 70); «La caccia sia responsabile del diffondersi fra gli uomini dell’insensibilità e della ferocia» poiché essa corrobora «la componente sanguinaria e ferina, che è insita in loro [gli umani] per natura, e la resero inflessibile alla pietà […] Infatti l’abitudine è straordinariamente efficace nel far progredire l’uomo con il graduale insinuarsi degli affetti» (De sollertia animalium, 2, 959 D-F, 106-107);
-nutrirsi della carne di altri animali è, di fatto, un nutrirsi di cadaveri. Plutarco è su questo punto del tutto chiaro: «Io mi domando con stupore in quale circostanza e con quale disposizione spirituale l’uomo toccò per la prima volta con la bocca il sangue e sfiorò con le labbra la carne di un animale morto; e imbandendo mense di corpi morti e corrotti, diede altresì il nome di manicaretti e di delicatezze a quelle membra che poco prima muggivano e gridavano, si muovevano e vivevano. […] Come mai quella lordura non stornò il senso del gusto, che veniva a contatto con le piaghe di altre creature e che sorbiva umori e sieri essudati da ferite mortali?» (De esu carnium, 1, 993 B; p. 55).

L’ultimo trattato è il più lieve e curioso. In esso infatti due interlocutori, Aristotimo e Fedimo, difendono con convinzione rispettivamente l’intelligenza profonda degli animali di terra e di aria e quella degli animali marini. Una lode che arriva sino all’ammirazione e al sacro. Una lode così convinta che Soclaro, che li ha ascoltati, conclude che «collegando i vostri discorsi contrapposti, entrambi lotterete insieme validamente contro chi priva gli animali di ragione e di intelligenza» (De sollertia animalium, 37, 985 C, 188). Emerge in questo modo evidente la contraddizione logica e retorica che intride tutto il dialogo e che consiste nel fatto che gli animali così efficacemente descritti, dei quali si dimostra la sensibilità, l’intelligenza, la nobiltà dei comportamenti, vengano lodati da coloro che però difendono poi la caccia che a loro viene data, la morte che a loro viene inferta.
Credo si tratti di un effetto voluto da Plutarco, il quale – per bocca di Fedimo – riconosce l’universalità della lotta, della violenza e della morte che intridono il mondo dei viventi, di tutti gli animali: «E la natura ha creato per loro tale ciclo e tale avvicendarsi di reciproci inseguimenti e fughe come esercizio e pratica di competizione per l’abilità e l’intelligenza» (Ivi, 27, 979 A, 168). E però l’intelligenza è capace di allontanarci, per le ragioni da Plutarco ben argomentate, da una pratica tanto insensata quanto feroce come il mangiar carne.

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