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Un recente dibattito su relatività e cosmologia

in Giornale di Metafisica
n. 30
3/2008 – aprile 2009
Pagine 613-626

Cope Meta 2008-3:Cope Meta 2005-1

Abstract

In the last years the big bang theory has shown wide gaps. In order to support it scholars usually turn to specific hypotheses and even questionable interpretations of the data deriving from scientific observations. It is behind this weak examining method that lies one of the most important problems connected to the theory of Relativity: the relationship with the Quantistic Physics.
Some recent works by Brian Greene and Marco De Paoli debate the developments of the matter. Marco De Paoli, in particular, expresses a well-organized criticism to the standard cosmological model. The mathematical and cosmological background of his thesis is a hand-to-hand struggle against relativity, especially in its general version of 1915. Against the separation between science and experience, he asserts that empiria and mathematics should instead come together into the explanation of the world.
This paper discusses the key points of the debate and moves in turn some criticism to Marco De Paoli’s thought, although it acknowledges the value and the originality of his theory.

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Recensioni:

R. De Monticelli – C. Conni
Ontologia del nuovo. La rivoluzione fenomenologica e la ricerca oggi

E. Canone (a cura di)
Per una storia del concetto di mente
Volumi I e II

in Giornale di Metafisica
n. 30
3/2008 – aprile 2009
Pagine 659-661 e 665-668

(liberamente leggibili in formato pdf)

Mente & Cervello 49 – Gennaio 2009

In natura non si dà alcun teleologismo. Ce lo hanno insegnato, fra gli altri, Democrito, Darwin, Nietzsche e lo ricorda anche Enrico Bellone in apertura di questo numero di Mente & cervello. E fa bene, perché uno dei postulati della sapienza consiste nell’ammettere che l’essere è assai più complesso, intricato, ricco e stupefacente di quanto qualunque conoscenza umana possa immaginare, tanto meno raggiungere. Basta sfogliare questa Rivista.

«La visione non è una fotografia della realtà: ciò che vediamo dipende da un insieme di motivi, alcuni legati alla struttura dell’occhio, altri a fattori centrali, cioè le caratteristiche della corteccia visiva e i processi mentali» (Oliverio, p. 18; consiglio sul tema il volume di Paola Bressan Il colore della luna).
Se -come tante volte ho avuto occasione di sostenere- la coscienza dimentica, «il cervello non dimentica (…) ogni esperienza vissuta lascia una traccia precisa nel nostro cervello» e nell’intero corpo (Murelli, 22).
Ciò che i piccoli moralisti chiamano “egoismo” è semplicemente il naturale Wille zum Leben, la “volontà di vivere” che per Schopenhauer costituisce la struttura di fondo di ogni cosa e che «il comandamento dell’evoluzione» conferma: «“Persegui un’azione che ti procura piacere; sospendi un’azione che ti procura fastidio”» (Clément, 39). La vita, la sua potenza, è racchiusa in queste parole. Persino il morire per salvare altre persone, o “per il bene della causa”, è espressione di tale desiderio di autoaffermazione. Il “piacere”, infatti, ha una miriade di forme, espressioni, direzioni. Lo mostra l’articolo di copertina, dedicato al feticismo, nel quale Olaf G. Schmidt afferma giustamente che «non tutto ciò che è atipico deve necessariamente essere considerato patologico», tanto più che «continua comunque a sorprendere la capacità del cervello umano di produrre astrazioni, fantasie e pensieri di ogni genere per generare piacere fisico» (57 e 61). La neurobiologia dà ragione anche a Leopardi, alla sua preferenza per il sabato, dato che «anticipare qualcosa di piacevole crea infatti una maggiore attività nel centro di piacere del cervello rispetto a quanto non faccia l’effettivo raggiungimento dell’obiettivo prefissato» (Lambert, 91).
Cervello che ha nel linguaggio una delle sue espressioni più potenti. Un articolo assai interessante dedicato al “cervello da interprete” conferma -come ha intuito Heidegger– che in ogni caso (anche quando si conoscono perfettamente più idiomi) si pensa davvero in una sola lingua poiché si vive sempre in un solo mondo; il clamoroso e ripetuto fallimento dei software rivolti alla traduzione mostra che il linguaggio non costituisce un algoritmo ed è quindi impossibile «mettere a punto una macchina in grado di realizzare le complicate operazioni simboliche, sensoriali ed emotive necessarie per realizzare un’operazione così complessa» (Cicerone, 43).
Cervello che da sempre è ibridato con apparati e sistemi artificiali e lo diventa sempre di più poiché «cellulari, computer e iPod sono diventati estensioni del nostro corpo» (Barberi, 70).

È anche tale complessità a spiegare le numerose forme di creduloneria di cui approfittano demagoghi, commercianti, politici, cartomanti e anche…terapeuti e scienziati. Se, infatti, la credulità «consiste nel rifiuto di nuove credenze per attaccamento a credenze precedenti» (Clément, 38), anche con essa si spiega il proliferare di soluzioni ad hoc nell’ambito -ad esempio- della cosmologia, dove emerge sempre più l’implausibilità dell’ipotesi del cosiddetto Big Bang (si veda il recente studio di Marco De Paoli su La relatività e la falsa cosmologia, Piero Manni Editore 2008). Ha quindi ragione Max Planck quando afferma -nella sua Scientific Autobiography– che «una nuova verità scientifica non trionfa convincendo i suoi oppositori e facendo loro vedere la luce, ma piuttosto perché i suoi oppositori alla fine muoiono e cresce una nuova generazione che è abituata ad essa» (cit. da Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche [1962 e 1970], Einaudi 1978, p. 183).

Se questo accade in ambiti come la fisica e l’astronomia, figuriamoci in saperi incerti come la psicologia. Due esempi. Nel numero di ottobre di M&C Ester di Rienzo aveva difeso l’utilizzo delle testimonianze dei bambini in modi che mi erano parsi francamente eccessivi; lo sono sembrati anche a Giovanni Battista Camerini e al suo gruppo di lavoro, i quali criticano in modo assai duro l’articolo della loro collega, citando anche delle sentenze della Cassazione che mettono in guardia dalla creazione -da parte degli stessi “esperti” che interrogano i bambini- di «falsi ricordi», rilevando il grave rischio di «sottovalutare il ruolo della suggestione e, con esso, di alimentare le denunce infondate, ovvero i “falsi positivi”, la cui frequenza assume un rilevo sempre maggiore nel panorama giudiziario e i cui costi umani e sociali, specie per i bambini e per le famiglie coinvolte, possono essere molto alti, paragonabili (come hanno sostenuto Fonagy e Sandler) all’ignorare un “falso negativo”» (6-7). Sempre a proposito di psicologi, non è per nulla «sorprendente» un dato che sempre più emerge nella pratica clinica, e cioè «la centralità della personalità terapeutica del singolo professionista. In sostanza l’abilità clinica del terapeuta, al di là dell’appartenenza a uno specifico orientamento, sarebbe l’elemento fondamentale per la guarigione del paziente» (Castiello d’Antonio, 77). Come sempre, infatti, a contare sono le competenze professionali, la ricchezza culturale, la sensibilità umana delle persone e non la sequela dell’una o dell’altra scuola o corrente. E visto che di psicologi siffatti ce ne sono pochi, non hanno poi torto quanti si rifiutano di affidarsi a tali professionisti (circostanza che l’autore dell’articolo invece deplora…). Uno che se ne intende -Woody Allen- ha detto che «la psicoanalisi è un mito tenuto vivo dall’industria dei divani» (Ivi, 75).

Dove lo spirito critico dà il meglio di sé è nello smascheramento operato da Michael Shermer della fiducia eccessiva riposta nel Brain imaging. Si tratta, ancora una volta, della tendenza ad applicare alla mente le analogie più in voga in ciascuna epoca. Vedere nel cervello una macchina idraulica (XVIII secolo), un calcolatore meccanico (XIX), un computer (XX), ha significato non comprenderne le peculiarità, la potenza, il sottrarsi a qualunque similitudine meccanicistica. Shermer critica sia tecnologie come la PET e la fMRI sia la concezione modulare del cervello quale «coltellino svizzero, con una serie di moduli specializzati evoluti per risolvere problemi specifici» (96). In realtà, le immagini ottenute con la risonanza magnetica funzionale hanno almeno cinque gravi limiti: i dati sono statisticamente non corretti perché escludono una significativa percentuale della popolazione che rifiuta di entrare in un ambiente claustrofobico e costringe quanti invece vi si sottopongono a “pensare” in un contesto del tutto innaturale; le immagini sono indirette poiché scaturiscono semplicemente dall’allinearsi di alcuni atomi al campo magnetico della macchina; nella ricostruzione finale i colori appaiono netti e divisi per zone, quando ciò che si ottiene è invece molto più distribuito tra tutte le parti del cervello, amalgamato e insieme approssimativo; il risultato è sempre una media statistica, frutto delle fotografie dei cervelli di numerosi soggetti; i tecnici cadono spesso nella fallacia induttiva del post hoc ergo propter hoc: «se creo in te uno stato di paura, la tua amigdala si accende, ma ciò non significa che ogni volta che la tua amigdala si accende tu provi paura. Ogni area del cervello si attiva in corrispondenza di innumerevoli stati differenti» (101). La vita, insomma, «è infotografabile» (F. Leoni, in Neurofenomenologia, Bruno Mondadori 2006) e il cervello è un organo olistico, non modulare o meccanico. Il Brain imaging non è una registrazione di quanto accade nella mente ma una costruzione a posteriori, è una metafora non una raccolta di dati: «le tecnologie di scansione cerebrale continueranno a produrre dati per le nostre teorie metaforiche» (101) e cioè per le sedicenti ipotesi empiriche e cerebrali sulla mente, che invece sono teorie anch’esse, né più né meno delle interpretazioni filosofiche o psicologiche del mentale.

mc_49_gennaio09

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