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Finitudine / Pienezza

Il 10.12.2019 tenni una lezione alla Scuola Superiore di Catania su Natura Cultura Ibridazione.
Lezione che venne registrata e si può seguire sul canale YouTube della Scuola.
Il video dura poco più di 2 ore (!), che sono comunque riempite anche da immagini, dall’intervento della Dott.ssa Selenia Anastasi -la quale ha affrontato alcuni aspetti del Transumanesimo e della sua complessità-, dalle domande delle persone presenti. La registrazione è leggermente (proprio leggermente) asincrona, un po’ alla Enrico Ghezzi 🙂

Il nucleo teoretico della lezione è -insieme all’ibridazione- il concetto e la realtà della finitudine, come essa si esprime anche in una celebre scena di Blade Runner, così commentata da Eugenio Mazzarella:
«Alla fine, mentre si spengono i circuiti, sogna d’essere quella fragile cosa tra le sue mani che è un uomo, e una colomba –quella nuda mortale vita che era già stato il sogno di ogni burattino animato, di ogni bugia di legno della vita; è un cyber che sogna di tornare, dopo averlo avanzato in ogni cosa, all’uomo da cui veniva». Il sogno si realizza proprio nel momento in cui sembra svanire. Roy Batty diventa umano nell’istante in cui accetta di morire lasciando che la vita prosegua in altri, dimostrando in tal modo di aver appreso l’essenziale, poiché davvero «il corpo e la sua morte restano i più grandi pensatori» (Eugenio Mazzarella, Vie d’uscita. L’identità umana come programma stazionario metafisico, il melangolo  2004, pp. 8 e 11).
Molti secoli prima di Ridley Scott e di Eugenio Mazzarella, un poeta cantava un’altra struttura ibridativa:
«Ha appena finito questa preghiera, che un pesante torpore le pervade le membra, il tenero petto si fascia di una fibra sottile, i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; il piede, poco prima così veloce, resta inchiodato da pigre radici, il volto svanisce in una cima. Conserva solo la lucentezza»
(Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 548-552; trad. di Piero Bernardini Marzolla).
Mentre si trasforma in alloro, Dafne remanet nitor unus in illa, conserva solo la lucentezza. L’ibridazione è anche la luce della materia che diviene.
Il corpo ibridato con le macchine che da esso stesso sono scaturite costituisce pertanto la vera identità del corpomente umano. Un’identità sempre cangiante e costantemente molteplice come cangiante e molteplice è il corpo. Accettare e accogliere tale molteplicità vuol dire:
-comprendere e vivere la nostra differenza dentro l’essere, coniugata alla nostra identità con l’intero naturale e artificiale del quale siamo soltanto una parte;
-vuol dire trasformare il labirinto in cui ci muoviamo nella ragnatela dei significati che il nostro corpo intesse e con i quali cattura la pienezza d’esserci, la gioia.

Cervello / Tempo

Recensione a:
Dean Buonomano

Il tuo cervello è una macchina del tempo.
Neuroscienze e fisica del tempo
(Your Brain Is a Time Machine. The Neuroscience and Physics of Time, 2017)
Bollati Boringhieri, 2018
Pagine 332
in Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia
Anno 10 – Numero 2/2019
Pagine 228-230

Non è possibile comprendere la mente senza comprendere il tempo. La coscienza umana è una funzione temporale del corpomente; il suo indispensabile ruolo consiste nel rielaborare enti, eventi e processi che accadono nel mondo per adattarsi quanto meglio possibile al loro divenire.
Il mondo è fatto di enti temporali, di eventi che accadono, di processi che fluiscono. Basta aprire gli occhi, basta osservare gli spazi e le situazioni –un suono, il cenno di una mano, le onde che si infrangono a riva, l’appuntamento con l’amato, l’ora di lezione prevista per domani, il sorgere e il tramontare dell’astro sull’orizzonte, la luce di una stella, le rughe sulla fronte, il fluire di un corso d’acqua, e così all’infinito–, basta esistere per essere immersi nel tempo, per essere tempo in atto. 

Memoria e oblio

Paul Ricoeur
Ricordare, dimenticare, perdonare
L’enigma del passato
(Das Rätsel der Vergangenheit. Erinnern – Vergessen – Verzeihen, Wallstein, Göttingen 1998)
Trad. di Nicoletta Salomon
il Mulino,  2012
Pagine XVII-124

La persona umana è una memoria viva che si muove nello spaziotempo costituito dai ricordi che abitano il suo corpo e dagli eventi che si susseguono nel mondo. Entrambi -ricordi ed eventi- non possiedono la struttura massiccia e uniforme di una strada e del muro che la delimita, non sono uniformi e continui ma somigliano alla complessità delle isole di un arcipelago, che emergono dal mare profondo del tempo.
Il corpomente è costituito dalla molteplicità delle possibili relazioni con questo arcipelago. In primo luogo dalla differenza tra μνήμη e ἀνάμνησις, già fondamentale e assai chiara in Aristotele, per il quale la staticità del μνήμη è inseparabile dal dinamismo dell’ἀνάμνησις, poiché il ricordo è sempre anche rimemorazione ora di ciò che è avvenuto prima. E questo fa del ricordare un’attività del presente rivolta all’azione nell’adesso e nel poi.
L’aristotelico Heidegger ha tenuto ben presente questa distinzione quando ha posto a fondamento di molte analisi di Sein und Zeit la differenza tra il passato come Vergangenheit e il passato come Gewesen-Gewesenheit, la differenza tra ciò che non è più e ciò che è ancora nel suo essente-stato. Quanto Ricoeur  definisce passéité, passeità, non è l’essere-stato che non è più ma è l’essente-stato che è ancora. È, ad esempio, l’oggetto d’amore perduto dal singolo ma ancora presente nel suo essere stato perduto. È l’evento accaduto a una comunità, evento che come struttura eveniente è passato ma che determina ora e ancora l’identità e i drammi del gruppo.

L’oblio strumentale di ciò che è stato compiuto dai singoli e dai popoli -strumentale al non pagarne le conseguenze- ha il suo contraltare nell’«ostinata politica di commemorazione» che produce «abusi della memoria» (p. 81) il cui inevitabile esito è l’insostenibilità del ricordo, sia per chi è accusato sia per chi accusa.
Se ci sono forme di oblio strumentali, passive e interessate, c’è anche e soprattutto una forma d’oblio necessaria alla vita umana, alla sua continuazione lungo i sentieri delle vicende individuali e collettive. Come ben sapeva Nietzsche, l’oblio è infatti necessario alla «conquista della distanza temporale» (68) e quindi alla risignificazione che permette di accogliere quanto è accaduto nelle strutture dell’adesso. Se «i fatti sono incancellabili, se non si può più disfare ciò che è stato fatto, né fare in modo che ciò che è accaduto non lo sia, in compenso, il senso di ciò che è accaduto non è fissato una volta per tutte» (41 e 92 ).
Un vero perdono è difficile poiché non cancella i fatti accaduti, cancellazione impossibile, ma muta il loro significato, accettando che il debito non venga saldato e che il debitore rimanga insolvente senza per questo rimanere per sempre colpevole. Un perdono di questa natura, portata ed effetti è possibile soltanto perché i fatti storici non coincidono con l’oggettività dell’accaduto, non sono strutture date una volta per tutte ma costituiscono una costellazione semantica che presentifica il passato in modo ogni volta diverso in relazione alla differenza che è il futuro.

La riflessione heideggeriana sulla Schuld, sulla colpevolezza intrinseca all’essere, è feconda anche nell’ambito psichico e storico, oltre che metafisico. Comprendere la colpa, accoglierla come struttura  ontologica e non morale, è una condizione di intendimento del limite che accomuna ogni evento e della differenza tra gli eventi che confermano la colpa e altri che invece da essa affrancano.
Gli esistenziali di Sein und Zeit mostrano in questo modo la loro continuità con il platonismo, con l’immemorabile da sempre obliato e la cui ἀνάμνησις rappresenta il lavoro della mente che conosce «ciò che non abbiamo mai veramente appreso, e che tuttavia ci fa essere ciò che siamo: forze di vita, forze creatrici di storia, ‘origine’, Ursprung» (100-101). È questo il fondamento dell’apprendimento platonico, che rende  «possibile imparare ciò che in un certo senso non si è mai smesso di sapere» (101).
Come si vede, bisogna affrancarsi da ogni prospettiva semplicemente etica per cogliere quanto si muove nel fondo dell’umano e del suo tormento.

La mente di Van Gogh

Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità
(At Eternity’s Gate)
di Julian Schnabel
USA, 2018
Con: Willem Dafoe (Vincent Van Gogh), Oscar Isaac (Paul Gauguin), Rupert Friend (Theo Van Gogh), Emmanuelle Seigner (Madame Ginoux), Mathieu Amalric (il Dr. Paul Gachet)
Trailer del film

In movimento, a frammenti, su campi lunghissimi e poi su primissimi piani dai quali emergono gli occhi, la pelle, le scarpe, le mani, altro. A volte con la metà inferiore dell’inquadratura sfocata e la parte superiore oscillante. Il cielo che si capovolge in vegetazione, il fango che diventa nuvola. E poi domande su domande da parte di chi non capisce e vorrebbe ricondurre Van Gogh alla misura della consuetudine, della stasi. Interrogatori ai quali il pittore risponde con lucidità, precisione, intelligenza. Guardandoci con i suoi occhi azzurri.
Così Julian Schnabel è riuscito a restituire la mente di Van Gogh. Una intuizione registica profonda e una virtuosistica prestazione tecnica con la quale il cinema conferma ancora una volta la sua capacità di entrare nella psiche umana che è fatta di istanti, intuizioni, ripetizioni, relazioni, vuoti, al modo dei fotogrammi di un film, legati tra di loro e tra loro sempre diversi.
L’innocenza di Vincent Van Gogh emerge da questa forma in tutta la sua bellezza, la sua purezza, la sua differenza, la sua mobilità rispetto alla morta gora delle persone di comune intelligenza e di comune vita che lo circondano, ne diffidano, lo odiano, lo cancellano. Tra questi i bambini di una classe elementare -feroci come soltanto i bambini sanno essere-, i loro genitori viventi dentro i confini di un borgo -Arles- del quale ignorano il fulgore, i giovinastri di Auvers-sur-Oise che forse hanno ucciso lui e che certamente hanno tentato di uccidere i suoi quadri.
Tutti costoro sono da molto tempo ossa e polvere che nessuno giustamente più ricorda. Sono il nulla. Van Gogh è invece ancora il sole. «‘Che cosa dipingi?’ ‘La luce’».

«Architetto della vita felice»

«O tenebris tantis tam clarum extollere lumen / qui primus potuisti inlustrans commoda vitae, / te sequor, o Graiae gentis decus». Così Lucrezio si rivolge al suo maestro nell’incipit del terzo libro del De rerum natura (1-3): «O tu, che in mezzo a così grandi tenebre primo potesti / levare una luce tanto chiara, illuminando le gioie della vita, / io seguo te, o onore della gente greca» (trad. di Francesco Giancotti).
Gioia della vita è la libertà, che per Epicuro significa assenza di timori sul presente e sul futuro, significa serenità. Il mondo fisico è per questo filosofo il presupposto scientifico dell’etica. Si tratta di un universo atomistico, quantitativo, in cui il movimento degli atomi nel vuoto costruisce e dissolve mondi. La casualità fisica e la libertà del volere sono le conseguenze della παρέγκλισις e ἔγκλισις -il «clinamen principiorum» di Lucrezio (De rerum natura, Liber II, v. 292)-, la piccola ma decisiva deviazione e spostamento degli atomi nel loro movimento dentro lo spaziotempo.
Gli strumenti metodologici di cui Epicuro si serve per delineare questo universo sono l’inferenza, l’analogia, la spiegazione multipla. Da una esperienza nota, mediante accostamenti e deduzioni, si perviene a formulare varie ipotesi su ciò che non è possibile cogliere empiricamente.
In questo mondo pervaso di razionalità, gli dèi costituiscono una comunità felice, imperturbabile, che non distribuisce premi o castighi e che in nulla deve preoccupare i mortali. Tanto più che la persona umana è composta di due elementi tra di loro inseparabili, è un indissolubile «complesso di ψυχή e σῶμα, dotato di determinati moti» (A Erodoto, §§ 65-66, p. 171, in Opere, a cura di Margherita Isnardi Parente, Utet 1983; le successive citazioni sono tratte da questo volume) e dunque «non bisogna temere le pene degli inferi perché le anime con la morte si dissolvono né vi sono inferi di sorta» (Testimonianze, Lattanzio, Div. inst., III, 17,42; p. 364).
Se così è, neppure il morire può diventare causa d’angoscia. Esso rappresenta infatti il momento di dissoluzione del composto umano, che nasce dalla materia e alla materia è destinato a tornare. Della morte è dunque impossibile fare esperienza «dal momento che, quando noi ci siamo, la morte non c’è, e quando essa sopravviene noi non siamo più» (A Meneceo, § 125, p. 198). E dunque il saggio «del tempo cerca di godere non il più lungo, ma il più dolce» (Ivi, § 126, p. 199).
Avendo compreso come è fatto il mondo e quali forze lo determinano, eliminata la paura degli dèi, della morte e di ciò che la segue, ci si può volgere a un piacere che è frutto di moderazione, libertà dalle passioni, rifiuto di ogni ὕβρις: «La saggezza è sobrietà e ordine nei desideri», come sintetizza Plutarco nel Gryllus (6, 989 b; p. 449). «Quando dunque diciamo che il piacere è un bene, non alludiamo affatto ai piaceri dei dissipati che consistono in crapule, come credono alcuni che ignorano il nostro insegnamento o lo interpretano male; ma alludiamo all’assenza di dolore nel σῶμα, all’assenza di perturbazione nella ψυχή» (A Meneceo, § 131, p. 201).
La serenità è possibile, da essa nasce e a essa mira la filosofia. Serenità, ἀρετή e sapere sono inseparabili; è questo il tratto socratico di Epicuro. E bisogna pertanto, quando è necessario, saper rinunciare, saper capire, essere padroni di se stessi. Per questo «il saggio è sempre felice» (Testimonianze, Cicerone, Tusc. disp., V, 10,31; p. 499).
E dunque la più esatta definizione di Epicuro l’ha forse data Cicerone quando lo definisce non soltanto «inventore veritatis» -scopritore della verità- ma anche «architecto beatae vitae», architetto della vita felice (De finibus, I, 32; p. 413).

 

Cyborgsofia

La rivista Zero Zero News mi ha chiesto un’intervista sul concetto di Cyborgsofia; la conversazione è stata pubblicata il 17 settembre 2018.

«L’umano è una struttura da sempre ibridata con altre dimensioni dell’essere. L’antroposfera esiste e opera dentro la zoosfera (la relazione con gli altri animali), la tecnosfera (la relazione con le nostre macchine e dispositivi), la teosfera (la relazione con la dimensione del sacro). La filosofia del computer, o cyborgsofia, è un tentativo di pensare a fondo tali relazioni».

 

O amato Pan

Sulle rive dell’Ilisso, sotto un platano frondoso, il dialogo tra Socrate e Fedro ha una densità e un equilibrio profondi. Iniziano con il leggere un discorso di Lisia, nel quale l’autore intende mostrare che è assai meglio per l’amato unirsi a chi non è innamorato piuttosto che all’innamorato. Anche Socrate sostiene in un primo tempo una tesi analoga per poi però attuare una palinodia nella quale Eros si mostra come la divinità che stimolando alla bellezza conduce la ψυχή al vero e al bene. Nasce qui la complessa metafora del carro alato con i due cavalli e l’auriga.
Il contrasto tra il discorso di Lisia, il primo discorso di Socrate e la successiva palinodia serve a incentrare il dialogo sulla retorica. Ancora una volta la contrapposizione di Platone ai Sofisti è netta, anche se nella efficace esposizione di due opposte argomentazioni il filosofo rivela anch’egli la sua capacità di rendere persuasivo qualunque discorso.
Nella parte conclusiva Platone parla dei limiti della scrittura. Simile ai personaggi dei dipinti, lo scritto tace; se interrogato, risponde sempre allo stesso modo; arriva nelle mani di chiunque, anche di chi non ha gli strumenti per comprenderlo; ha bisogno, per difendersi, dell’aiuto dell’autore. L’effetto dello scrivere non sarà quindi la sapienza ma una sua parvenza. E tuttavia criticare per iscritto la scrittura non costituisce anche un gioco? Il platonismo è certamente un labirinto più intricato e una vertigine più profonda di quanto di solito si pensi.
Il punto centrale che il dialogo intende svolgere sembra l’identificazione tra retorica (tecnica del dire) e dialettica (tecnica del pensare), la conformità tra il discorso e l’indagine metafisica: «τοῦ δὲ λέγειν ἔτυμος τέχνη ἄνευ τοῦ ἀληθείας ἧφθαι οὔτ᾽ἔστιν οὔτε μή ποτε ὕστερον γένηται (un’efficace tecnica del discorso che non si immerga nella verità non esiste e non esisterà mai)» (Fedro, 260 e). Non il sofista, quindi, ma il filosofo è il vero retore. In lui pensiero e parola convergono a rappresentare l’unione tra il Bello, il Vero, e l’ἀγαθός, fondamento della filosofia come dominio di sé, equilibrio, serenità e misura. La filosofia non esclude, anzi implica, la presenza e il potere di una segreta «μανίας, θείᾳμέντοι δόσει διδομένης (follia, se e quando sono gli dèi a donarcela)» (244 a). I diversi modi nei quali la follia si mostra in ciascuno esprimono anche la gerarchia tra le menti. Al livello più basso c’è l’«ἐπιθυμία ἡδονῶν (un innato desiderio di piaceri)» (237 d). Mano a mano che si sale prevale invece la volontà di conoscenza, l’esistenza come ricerca del sapere.
La legge di Aδράστεια -l’Inevitabile- determina i diversi piani che dall’infimo gradino del tiranno ossessionato dal potere pervengono invece a chi ama bellezza e conoscenza, passando attraverso i gradi del sofista, artigiano, artista, indovino, ginnasta, esperto di economia, governante rispettoso della legge (248 e). Pertanto, «se prevalgono le parti migliori della mente (τῆς διανοίας ἀγαγόντα) e conducono a una vita equilibrata e alla filosofia, costoro vivranno qui un’esistenza felice e in armonia, poiché possiedono se stessi, avendo sottomesso ciò da cui deriva nella ψυχή il male e liberato ciò da cui deriva invece l’ἀρετή, l’equilibrio con la propria natura» (256 a-b). Gli altri sono preda, in diversa misura, dell’eccesso, della ὕβϱις, del male.
La preghiera a Pan, con la quale il dialogo si chiude, esprime bene la sua intera tonalità e intenzione: «ὦ φίλε Πάν τε καὶ ἄλλοι ὅσοι τῇδε θεοί, δοίητέ μοι καλῷ γενέσθαι τἄνδοθεν: ἔξωθενδὲ ὅσα ἔχω, τοῖς ἐντὸς εἶναί μοι φίλια. πλούσιον δὲ νομίζοιμι τὸν σοφόν: τὸ δὲ χρυσοῦ πλῆθος εἴη μοιὅσον μήτε φέρειν μήτε ἄγειν δύναιτο ἄλλος ἢ ὁ σώφρων (O amato Pan, e tutti gli dèi che siete in questo luogo, fatemi il dono di diventare bello dentro me stesso e che tutto ciò che possiedo al di fuori sia in armonia con quanto è dentro me. Che consideri davvero ricco il filosofo e avere tanta ricchezza quanto soltanto chi è saggio possa portare con sé)» (279 b-c).
Il Fedro parla della Bellezza e dell’Eros -come il Simposio-, dell’immortalità della ψυχή-come il Fedone, della giustizia e del potere, come Repubblica e Leggi. Si colloca dunque al cuore della metafisica.

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