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Salute, tristezza, iPhone

Mente & cervello 95 – Novembre 2012

 

Salute e malattia non sono dei concetti universali, non sono dei dati di fatto assoluti. Tanto più questo è vero nell’ambito complesso del corpomente. Lo confermano i mutamenti anche radicali del concetto di malattia mentale e della catalogazione dei disturbi della psiche. Nel maggio del 2013 uscirà la quinta edizione del DSM, Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders, pubblicato per la prima volta nel 1952. In questi sessant’anni il DSM ha cancellato numerosi comportamenti prima definiti patologici, dichiarando o la loro “normalità” -l’omosessualità, ad esempio, dal 1974 non è più una malattia- o l’insufficienza dei dati clinici necessari a darne una definizione psichiatrica. In questa nuova edizione viene eliminata dalla nosografia ufficiale la “personalità isterica”, sostituita da vari disturbi di personalità borderline. In compenso, si procede alla patologizzazione di una condizione umana tanto diffusa quanto naturale: la tristezza. Essa viene sempre più spesso classificata come depressione e in questo modo segnata da un crisma patologico che non le appartiene. A mettere in guardia da questi sviluppi tipicamente biopolitici sono importanti psichiatri quali Allen Frances o Allan Horwitz, i quali paventano il rischio di medicalizzare «momenti dell’esistenza e comportamenti non necessariamente patologici, come il lutto, i capricci, gli eccessi alimentari, l’ansia e la tristezza, il lieve declino cognitivo dell’anziano» (F. Cro, p. 66).
Un’altra prova del fatto che «tutta la letteratura sui disturbi di personalità è fondata sulle sabbie mobili» (Id., 62) è fornita dalla sindrome autistica. Rispetto al passato, infatti, si tende oggi a sostenere che «essere autistici è una differenza, non un deficit. Essere autistici è avere un’altra mente» (M. Cattaneo, 3), anche se si ammette che «quale che sia la sua forma, la sindrome autistica dà luogo, per tutta la vita della persona che ne è colpita, a difficoltà di adattamento importanti, che hanno un impatto negativo sulla qualità della vita del soggetto e su quella del suo ambiente familiare» (L. Mottron, 26).

Se e quando esisteranno, le Intelligenze Artificiali saranno sottoposte anch’esse al rischio della malattia mentale? Herbie, il robot protagonista di uno dei racconti di Isaac Asimov, posto di fronte a un dilemma insolubile, a un circolo vizioso logico, impazzisce e muore dopo aver lanciato un urlo «acuto, lacerante, come pervaso dallo strazio di un’anima perduta» (I. Asimov, Io, robot, Mondadori 2003, p. 153). Prima di eventualmente ammalarsi, però, queste IA dovrebbero esserci. Crearle è l’obiettivo di numerosi laboratori di ricerca, i quali tentano di produrre dei robot da compagnia in grado di sostituire gli umani nella cura di anziani e bambini. Le difficoltà sono naturalmente enormi. Tali macchine, infatti, dovrebbero essere senzienti, vale a dire dovrebbero avere «la capacità di integrare percezione (stimoli provenienti dall’esterno), la cognizione (ciò che noi chiamiamo pensiero) e l’azione in una scena e in un contesto coerente, in cui l’azione stessa può essere interpretata, pianificata, generata o comunicata» (D. Ovadia, 71). In altri termini, i ricercatori lavorano non più sull’intelligenza logico-formale (che l’ampio dibattito nato a proposito dell’esperimento mentale della Stanza cinese di Searle ha mostrato essere del tutto insufficiente) ma sulla Embodied Cognition, «la capacità del corpo di avere una mente a sé, di essere l’elemento di cerniera tra il pensiero e l’ambiente» (Id., 72). Paolo Dario osserva giustamente che «esiste già un perfetto robot da compagnia, ed è molto più diffuso di quanto si pensi: è l’iPhone» (Id., 71); lo è in molte delle sue funzioni e in particolare in Siri, il programma che è capace di parlare con l’interlocutore umano comprendendo -entro certi limiti- il nostro linguaggio naturale.
Daniela Ovadia ha chiesto a Siri “mi vuoi bene?”, «ricevendo in cambio la criptica risposta “non ho molte pretese”» (Id., 74). Io ho cercato di intavolare con Siri una conversazione sul tema dell’amore, al che -in modo direi piuttosto intelligente, non foss’altro che per la sua umiltà- l’IA mi ha risposto così: «Per questo tipo di problemi ti consiglio di rivolgerti a un umano, possibilmente esperto». Al di là di queste provocazioni di chi lo usa, Siri è davvero utile. Quando cammino in bicicletta, ad esempio, le chiedo (la voce è femminile) che ore sono, qual è la temperatura, di farmi ascoltare un determinato brano. Le sue risposte sono sempre immediate ed esatte. Se la ringrazio dicendole che è molto brava, mi risponde in vari modi, tra i quali «Lo sai che vivo per te». L’ironia (o la paraculaggine) di quest’ultima risposta sarebbe un segno sicuro di intelligenza se Siri fosse consapevole di ciò che sta dicendo. Ma non lo è. E la mia previsione è che le IA non lo saranno mai, a meno di essere implementate su dei corpi protoplasmatici, “di carne e sangue”.
Solo l’unità del corpomente, infatti, è intelligente. E cangiante. Ed ermeneutica. «La nostra memoria», afferma Donna Bridge, «non è statica. Se ricordiamo un evento alla luce di un nuovo contesto e di un periodo diverso della nostra vita, la memoria tende a integrare dettagli differenti e inediti» (22). Non basta quindi neppure la corporeità, è necessario che essa sprofondi nel tempo.

Che la mente umana abbia struttura e funzione ermeneutica è confermato dal fatto che «una rapida analisi visiva dell’andatura ci può informare sulla vulnerabilità di una persona», sul suo sesso, sull’età, sullo stato emotivo, sulla condizione sociale (N. Guèguen, 55). Il corpo parla, lo sappiamo, e lo fa ad alta voce quando cammina. Conosco un soggetto che dalla sola andatura è classificabile come una specie di guappo. E infatti lo è. Anche quando vorrebbe nascondere questa sua caratteristica, essa emerge con chiarezza dal movimento nello spazio.

Innamoramento ed evoluzione

Mente & cervello 94 – ottobre 2012

Animali sociali. E in questa socialità animali innamorati. Innamorati di un progetto, un luogo, un obiettivo, un oggetto, una persona. E quando arriviamo a possedere il fine del nostro agire raggiungiamo qualcosa di assai prossimo alla felicità. Ma poi, lentamente e inesorabilmente, quel progetto scolora di fronte ad altri obiettivi, l’oggetto diventa un’abitudine, della persona emergono i limiti. Diane Felmlee, una sociologa californiana, sostiene che alla lunga veniamo respinti proprio da quegli aspetti dell’altro che all’inizio ci avevano affascinati. Felmlee definisce tale dinamica con il termine di disillusione; lo psicologo Michael Cunningham aggiunge i cosiddetti allergenici sociali, elementi del comportamento che in principio appaiono insignificanti e che invece possono minare un rapporto alla radice. Il risultato di tali dinamiche è la deromanticizzazione che di fatto uccide le relazioni più appassionate, proprio perché appassionate. Non solo: si dà anche un fattore che possiamo chiamare giustizia e che risulta fondamentale in qualsiasi tipo di scambio sociale, compresa la coppia: «Secondo la teoria dell’equità, chi sente che il suo rapporto si sta sbilanciando a suo sfavore cercherà di cambiare le cose o ripristinando l’equità -presunta o reale- o interrompendo il rapporto stesso» (J. Palca e F. Lichtman, p. 53). Senza reciprocità, in altri termini, nessun rapporto può durare, perché anche la relazione di coppia -soprattutto la relazione di coppia- è una forma dello scambio sociale. Tra i suggerimenti che questi studiosi offrono ce n’è uno apparentemente semplice e però fondamentale: «Secondo Aron uno degli aspetti più importanti all’interno di una relazione è festeggiare i successi e i momenti positivi del partner. “È ancora più importante di quanto non sia sostenerlo quando le cose vanno male”»  (Id., 55).

Da festeggiare in un rapporto di coppia c’è sicuramente l’orgasmo. A proposito di quello femminile, Elizabeth Lloyd parla di “strano caso”. Perché? Riporto qui alcune delle sue risposte, lasciando ai lettori -femmine o maschi che siano- la responsabilità di una riflessione su questioni così delicate. Lloyd risponde alle domande di Antonella Tramacenere.
«L’orgasmo femminile sarebbe emerso nel corso dell’evoluzione come un sottoprodotto evolutivo, un prodotto secondario. […] Approssimativamente, infatti, il 90 per cento delle donne è in grado di raggiungere l’orgasmo attraverso qualche tipo di stimolazione -manuale, orale o con penetrazione- ma molte di loro, più del 50 per cento, non ne fanno esperienza durante la copulazione. Al contrario nella stessa condizione quasi il 100 per cento degli uomini riporta regolarmente esperienze orgasmiche» (90).
«Per ricordare che sottoprodotto è solo un termine tecnico, che non ha lo stesso significato che gli attribuiamo nel linguaggio quotidiano, l’ho chiamato “accidente felice”. Recentemente sto usando anche l’espressione “fantastico bonus”, alludendo al fatto che l’orgasmo femminile è un bonus senza nessuno scopo evolutivo» (93).
«Non ci sono connessioni tra orgasmo femminile e fitness evolutiva. Pertanto nessun dato empirico suggerisce che l’orgasmo femminile sia un adattamento in corso per favorire il legame di coppia» (95).
Quest’ultima affermazione è certamente impegnativa. E lo è ancora di più la seguente: «La presenza dell’orgasmo femminile durante il rapporto sessuale dipende principalmente dall’anatomia della donna, non dalla psicologia, mentre le caratteristiche del maschio fanno la differenza solo in alcuni casi» (93).
Liberare il piacere dalla psicologia, liberare il corpomente dai suoi occhiuti controllori, sarebbe già un’ottima cosa.

Nietzsche

«Diventa necessario! Diventa limpido! Diventa bello! Diventa sano!» (Frammenti postumi 1882-1884. Parte I, 5[1/198]).
Diventa necessario come una ruota che scende sul piano inclinato del tempo ma che proprio per questo –nel suo movimento scandito e inesorabile- si fa essa stessa temporalità consapevole, vivente e vissuta.
Diventa limpido come una mente che ha fatto di sé il riflesso creativo del mondo abbandonando per sempre la pretesa di esserne padrona, di possedere senza tremore se stessa, i sentimenti, gli altri umani, la natura. L’alterità, infatti, è sempre in fuga, sempre pronta ad allontanarsi dalle nostre volontà di dominio e controllo sull’accadere, sulle altrui passioni, sui corpi e le cose che pure vorremmo continuamente con noi, che vorremmo diventassero noi.
Diventa bello come tutto ciò che ha vinto la dismisura, ha rinunciato allo squilibrio dell’inutile ferocia, della meschinità, dell’invidia, del ‘così fan tutti’; che sorride a se stesso perché è all’intero che sorride.
Diventa sano perché guarito dalla contrapposizione tra io e mondo, tra soggetto e oggetto, tra umanità e natura.
Un corpomente necessario, limpido, bello, sano si immerge nella vita senza più giudicarla, senza più negarla ma anche senza più volerla, come una goccia che scorre nel fiume del tempo che siamo.
Questo, forse, significa una frase che è un magnifico vortice concettuale: «Io sono troppo pieno e così dimentico me stesso, tutte le cose sono dentro di me e non vi è null’altro che tutte le cose. Dove sono finito io?» (Così parlò Zarathustra, variante al § 4 della Prefazione). L’io è finito in quel mondo trasfigurato e in quei cieli esultanti nei quali Nietzsche colse infine la sua pienezza.
Isabelle von Ungern-Sternberg disse di lui che era un «Creso del pensiero che aveva dei mondi da regalare». Da parte sua, quest’uomo sapeva di aver versato una «goccia di balsamo […] e questo non sarà dimenticato». No, non lo è stato.

Mente & cervello 84 – Dicembre 2011

Nel recensire questa Rivista dedico ogni volta uno spazio consistente a malattie, sindromi, sciagure di vario genere. È forse triste ma anche inevitabile, visto che il corpomente è “na scarfoglia i cipulla”, vale a dire (la definizione è della mia nonna paterna -Giuseppa-, donna davvero straordinaria) una foglia di cipolla, fragile e sottile, pronta dunque a sbriciolarsi. Mi sono ricordato di quella definizione leggendo la risposta che Leonardo Tondo dà a un lettore che delinea un vero e proprio «ritratto di una depressione»; lo psichiatra scrive infatti che «la depressione si infila spesso nei gangli vitali di una persona, e talvolta è difficile mandarla via perché sembra più congeniale alle nostre emozioni della felicità» (p. 7). Ciò vuol dire che c’è qualcosa che ci attira verso il baratro dello star male, che la prospettiva di esser felici ci spaventa a volte più di una condizione di profonda tristezza. Perché? Rispondere a tale domanda significherebbe comprendere una parte consistente dell’enigma umano. E sospetto che la risposta coinvolga anche quel particolare -e distruttivo- sentimento che è il senso di colpa, il quale secondo molti psicologi ha degli effetti positivi o addirittura necessari per evitare atti di ferocia e di crudeltà. E tuttavia penso che il senso di colpa debba rimanere sempre a livelli bassissimi poiché alla lunga distrugge le relazioni umane, la serenità, le vite. Una ragione di questa sua pericolosa caratteristica sta nel fatto che la colpa è -in modo solo apparentemente paradossale- «un’emozione narcisistica» in quanto «chi si sente in colpa tende a mettere le proprie azioni al centro del mondo» (P.E. Cicerone, 76), attribuendo sempre a se stesso la responsabilità di ogni male, credendosi insomma onnipotente. Ma non basta: provare sensi di colpa verso qualcuno ci autorizza a detestarlo con il conforto di una buona coscienza. In definitiva nutrire eccessivi sensi di colpa vuol dire essere essenzialmente egoisti. Ecco perché chi -come ad esempio Nietzsche- invita a sbarazzarsi di questa orrida zavorra lo fa anche come atto d’amore verso se stessi e verso gli altri. Se ne deduce che le religioni che sul senso di colpa fondano gran parte del loro potere -a partire dall’ebraismo, con la sua storiella di Adamo ed Eva- sono nemiche di ogni concordia.

L’articolo filosoficamente più interessante di questo numero di Mente & cervello è dedicato a un breve resoconto sulla questione del libero arbitrio [il testo si può leggere per intero in inglese sul sito di Nature]. Gli esperimenti neurologici di Libet e di Haynes hanno mostrato come ancora prima «che il soggetto fosse consapevole di aver preso una decisione il suo cervello aveva già scelto» e che dunque «la consapevolezza di aver preso una decisione potrebbe essere nient’altro che un’appendice biochimica, priva della pur minima influenza sulle azioni della persona» (K.Smith, 96). Il dibattito su queste ricerche è amplissimo e intenso; per farsene un’idea consiglio la lettura di Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il problema del libero arbitrio, a cura di De Caro, Lavazza e Sartori, Codice edizioni, 2010. Qui mi limito a rilevare -con l’autrice dell’articolo- che bisogna prima di tutto mettersi d’accordo su che cosa si intenda con l’espressione libero arbitrio: «Alcuni filosofi lo definiscono come la capacità di prendere decisioni razionali in assenza di coercizione. Altre definizioni lo situano in un contesto di natura cosmica: al momento della decisione, e considerando come dato tutto ciò che è accaduto in passato, sarebbe stato possibile giungere a una decisione diversa. Altri restano legati all’idea che ci sia un’ “anima” di natura non fisica a governare le decisioni» (99). Si aggiunga a questo il problema metodologico che nasce dal fatto che gli esperimenti di Libet, di Haynes e di altri neurologi si riferiscono a situazioni di estrema semplicità: «Premere un pulsante o giocare a un videogioco è ben lontano dal preparare una tazza di tè, candidarsi alla presidenza della Repubblica o commettere un delitto» (100). L’ostacolo più grave al dialogo tra filosofi e neuroscienziati è comunque un altro e consiste nel fatto che questi ultimi si attardano spesso -ed è certo singolare- su una concezione dualistica dell’umano. Parlare infatti di una precedenza dell’attività neuronale su quella mentale o viceversa significa rimanere in un ambito nel quale mente e cervello sono distinti; il paradigma cartesiano si mostra così assai più potente e pervasivo di quanto anche i suoi avversari pensino.
La successione cronologica individuata da Libet e Haynes costituisce un importantissimo contributo tecnico sulle dinamiche dell’encefalo ma non può essere assunta a metodo di soluzione  di una questione che va molto oltre la scansione cerebrale e che ha bisogno invece di tutta l’attenzione fenomenologica che soltanto la filosofia può offrire. Bisogna dunque con tranquillità affermare che sul problema del libero arbitrio continuano a dare una plausibile soluzione le argomentazioni di Spinoza e di Schopenhauer. Queste sì capaci di togliere fondamento all’illusione del libero arbitrio.

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