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Impermanenza

Mente & cervello 107 – novembre 2013

Non sono pochi gli umani che sognano di azzerare l’esistenza sinora trascorsa e ricominciare una nuova vita in qualche altrove. Persone anche famose e ricche, le quali concludono spesso nel suicidio il loro sogno. Nulla di strano, dato che la depressione è l’altra faccia del narcisismo, «soprattutto nei suoi aspetti di vulnerabilità -vissuti di inferiorità, incapacità di tollerare le critiche, tendenza a conformarsi alle aspettative degli altri- nei quali il perfezionismo gioca un ruolo preminente» (F. Cro, p. 21). Tutto si tiene nel nostro esistere. Gli eventi e il corpomente costituiscono un vero network. L’ambiente conta ma è un ben preciso corpomente che vive in quell’ambiente; la società permea il singolo ma la biologia è intranscendibile.
Lo dimostrano in modo clamoroso e drammatico i casi di persone irreprensibili, le quali a un certo punto del loro percorso cominciano a scatenare le proprie pulsioni erotiche, anche verso i bambini. Come mai? Spesso perché dei tumori cerebrali hanno leso alcune aree dell’encefalo, mutando completamente la personalità. Asportato il tumore, ritornano a comportarsi come prima. «Ciò che siamo, quindi, è solo in parte determinato dall’ambiente in cui siamo cresciuti e, per quel che riguarda la sessualità, ha anche una forte componente biologica contro la quale è difficile andare» (D. Ovadia, 81). Tutto questo mostra ancora una volta la superficiale parzialità del Diritto moderno, con il suo presupposto di una volontà totalmente libera e ‘capace di intendere e di volere’. Sono i nostri organi a decidere quello che scegliamo o che evitiamo, per la semplice ragione che i nostri organi siamo noi, per la chiara ragione che il Leib costituisce il coordinamento nello spazio e nel tempo della magnifica molteplicità del Körper. Non siamo colpevoli di nulla perché non siamo liberi di volere ciò che vogliamo. E quindi il corpo sociale ha diritto di evitare il danno che le nostre azioni possono arrecare, non ha -invece- il diritto di giudicarci colpevoli o peccatori.
La potenza del corpomente è tale «che spesso i nostri pensieri sono in grado di ampliare i nostri limiti, sia fisici sia cognitivi» poiché «mente e corpo non sono entità separate; i nostri pensieri hanno un notevole controllo sul nostro corpo e il nostro atteggiamento mentale è in grado di migliorare le prestazioni dei nostri cervelli» (O. Atasoy, 103). Il buddhismo ha compreso tutto questo e da molti è ritenuto una possibile barriera allo strabordare dell’io e quindi anche a quel narcisismo depressivo che rappresenta una tipica rottura dei limiti che il mondotempo assegna a ciascuno di noi. «Ciò spiega l’interesse di numerosi psicoterapeuti contemporanei per il pensiero buddhista. La maggior parte dei principi del buddhismo ha in effetti un valore universale. Come l’impermanenza: al mondo nulla dura, né le nostre sofferenze, né i nostri dolori, né i frutti dei nostri sforzi, né gli oggetti a cui siamo più legati. Tutto passerà e svanirà, e l’accettazione di questa realtà ci renderà paradossalmente più felici. […] O ancora l’interdipendenza: tutto è legato, e anche il minimo dei miei atti si iscrive in una catena complessa di causalità e conseguenze. Credersi unici e indipendenti è un errore profondo, e una fonte di sofferenze, per sé e per gli altri» (C. André, 74).

 

Orologi biologici

I RITMI DELLA VITA
Gli orologi biologici che controllano la vita quotidiana di ogni essere vivente
di Russel Foster – Leon Kreitzman
(Rhythms of Life, 2004)
Trad. di Isabella C. Blum
Prefazione di Lewis Wolpert
Bollati Boringhieri, 2011
Pagine 359

Forse due milioni, forse cento, probabilmente dieci. È il numero di specie viventi che abitano il pianeta Terra. Da circa tre miliardi di anni tutte queste entità animali e vegetali vivono seguendo un ben preciso orologio biologico, senza il quale non esisterebbero; transitano nell’essere sincronizzando i propri ritmi endogeni con quelli del cosmo, che per noi terrestri significa con i ritmi di rotazione della terra intorno al proprio asse e intorno alla stella che ci dà energia. «Il tempo è racchiuso nei nostri geni» afferma Lewis Wolpert nella Prefazione al libro (p. 7); «È proprio il nostro rapporto con il concetto di tempo a renderci umani» scrivono i due autori a chiusa del testo (299) e tuttavia la medicina contemporanea non riconosce ancora la fondamentale importanza della tempistica nella somministrazione delle terapie; l’importanza della cronobiologia nei test di tossicità dei farmaci (ratti e topi sono animali notturni rispetto all’uomo animale diurno e questo influisce enormemente sui risultati clinici 1); l’importanza della relazione profonda e costitutiva tra il corpomente e il cosmo, tra ciò che gli autori chiamano “giorno interno” e “giorno esterno”.  Gli orologi biologici sono infatti «regolati quotidianamente al levarsi e al calar del sole in modo da sincronizzare il tempo interno dell’organismo sul tempo astronomico» (11). Se la medicina occidentale trascura gravemente questa struttura temporale dei corpi, «la medicina cinese» -afferma l’oncologo Bill Hrushesky- «riconosce da più di 5000 anni che la dose non può essere isolata dal concetto di tempo» (cit. a p. 269).
I ritmi che intridono e costituiscono la natura sono molti -quotidiani, mensili, annuali- e hanno come base l’intervallo naturale delle 24 ore. Circadiano è dunque il ritmo che segue la scansione del giorno e della notte; nonostante gli artifici luminosi consentiti dall’elettricità il corpo umano è ancora totalmente sincronizzato su tale ciclo. Ultradiano è il ritmo inferiore a un giorno e dunque con frequenza più alta (come il battito cardiaco). Infradiano è l’inverso: un ritmo con una frequenza più bassa e quindi con un periodo più lungo (come il ciclo mestruale). Altri cicli importanti sono quelli interditali (maree), lunari, i ritmi non ripetibili del nascere e del morire. Per gli umani è talmente importante la scansione del tempo da indurli a inventare ritmi diversi da quelli naturali anche se sempre legati a essi. Intervalli come il secondo, il minuto, l’ora, la settimana non esistono in natura e costituiscono un tentativo di abitare e vivere meglio le partizioni cosmiche del giorno e dell’anno.
In ogni caso, nessuna comprensione della vita -della sua fisiologia, della patologia- è possibile fuori dalla struttura temporale che il corpo è. Le ricerche di Foster e Kreitzman sono ormai un classico della biologia proprio perché ricordano con chiarezza e determinazione questa semplice ma fondamentale verità. E lo ricordano ai biologi e ai medici, a coloro per i quali essa dovrebbe risultare evidente. Il luogo cerebrale nel quale i ritmi cronobiologici si generano è infatti il nucleo soprachiasmatico formato da poche cellule  -ventimila circa- collocate nella parte anteriore dell’ipotalamo: «Questo minuscolo gruppo di cellule, il cui volume ammonta a meno di un terzo di un millimetro cubico, è stato definito “orologio della mente”» (92). Al di là di questa localizzazione, il risultato più importante delle ricerche cronobiologiche -condotte in Italia con particolare cura da Vincenzo Di Spazio– è che la temporalità dei mammiferi (e quella umana in particolare) è diffusa in tutto il corpo, tanto che «oggi si parla più spesso di sistemi circadiani, poiché sta diventando chiaro che, sebbene in alcune specie probabilmente esista un orologio centrale, nella maggior parte di esse la scansione del tempo è distribuita in tutto l’organismo» (15-16). E questo significa che siamo fatti di tempo, alla lettera. Tempo genetico, tempo cosmico, tempocoscienza costituiscono un unico battito della materia consapevole di sé, dell’energia che scaturisce, si modula e si esaurisce. È tale battito profondo e inarrestabile che definiamo con i termini diversi di mondo, natura, umanità.
La biologia del tempo ha anche scoperto che tutto questo è una cosa sola con la luce. È la luce, infatti, a costituire il più potente e pervasivo Zeitgeber, il segnatempo al quale i corpi animali e vegetali affidano la regolarità delle proprie strutture vitali. La luce «mantiene il meccanismo sincronizzato con l’alba e il tramonto» (34) e permette dunque ai corpi di sincronizzarsi con l’intero volgere della Terra e del Sole. Con il segno τ è indicato il periodo naturale di un ritmo biologico free-running, il ritmo endogeno tenuto da un sistema circadiano in condizioni costanti.
Queste scoperte biologiche confermano con evidenza ciò che la metafisica ha pensato in modi diversi ma convergenti: la luce è la sostanza stessa del mondo; il movimento ripetuto, ritmico, eterno della materialuce è il tempo.

Nota

1. Robert Burns spiega che se «a mezzogiorno la sostanza chimica non ha dato luogo ad alcun tumore […] se la stessa dose fosse stata somministrata a mezzanotte, tuttavia, ossia in un momento di massima suscettibilità dell’evento biochimico studiato, il 40% degli animali avrebbe sviluppato un tumore al fegato e il composto sarebbe stato classificato come cancerogeno e non sicuro» (cit. a p. 268).

Deliri e trapianti

Mente & cervello 106 – ottobre 2013

 

La manifestazione delle emozioni è pressoché identica non soltanto tra tutti gli umani -al di là delle etnie, dei luoghi, delle culture- ma anche tra gli umani e i primati. Gli studi più recenti confermano la correttezza anche della classica catalogazione darwiniana delle emozioni primarie: rabbia, paura, disprezzo, felicità, tristezza, sorpresa e disgusto. Lo sviluppo e le dinamiche di queste e di altre emozioni possono condurre a sindromi che sono state definite nel corso dei secoli con espressioni e termini quali follie demoniache, dementia praecox, schizofrenia ma che non costituiscono una sola malattia bensì un insieme differenziato di disturbi talmente complesso da resistere sinora a una spiegazione completa e quindi a delle terapie adeguate. In generale, sembra che «nel delirio depressivo l’esperienza tende a orientarsi sulla propria persona, nel delirio schizofrenico sull’ambiente circostante» (P. Garlipp, p. 45). Le manifestazioni di tali deliri sono davvero molto numerose, gravi, anche bizzarre. Ne ricordo soltanto alcune: «Delirio d’amore. Lo so che lui mi ama. Solo che non può dirmelo, altrimenti sua moglie se ne accorge. […] Delirio di gelosia. So che mia moglie mi tradisce. Ne sono sicuro proprio perché lei insiste a negare. […] Delirio genealogico. Lei non sa con chi sta parlando. Io sono imparentato con la famiglia reale di Danimarca. […] Delirio di grandezza. Il mondo mi appartiene. […] Sindrome di Cotard. Sono un cadavere già decomposto». E così via (Id., 46-49). La psicologa Eleanor Longden ha subìto (e ancora a volte subisce) una delle espressioni più antiche della schizofrenia: sentire voci terribili, minacciose, autorevoli. Ne è in gran parte uscita e ha compreso «che le voci più negative e aggressive rappresentavano le parti più ferite di me stessa», quelle il cui paziente ascolto le ha consentito di maturare un «crescente senso di compassione, accettazione e rispetto verso me stessa» (E. Longden, 43). Un’esperienza, questa, che conferma come amare noi stessi -o almeno avere misericordia nei confronti dei nostri limiti- sia una delle condizioni per amare anche gli altri e, più in generale, per affrontare con razionalità la durezza dell’esistere. Non dobbiamo inventarci alibi ma non dobbiamo neppure accanirci contro di noi.

Una delle più odiose mancanze di misericordia è quella che riguarda la predazione di organi che si scatena quando una famiglia viene colpita dalla tragedia di una morte improvvisa. L’articolo di Daniela Ovadia che ne parla su questo numero di Mente & cervello mi sembra davvero lacunoso perché, nonostante qualche segnale lessicale di tipo neutro, sta tutto dalla parte delle lobby mediche e ospedaliere che speculano sui trapianti. Il titolo dell’articolo –Donare una parte di sé– accompagnato dalla tenera immagine di un uomo che tiene in mano la riproduzione di un cuore, è poco scientifico e molto ideologico. Ovadia informa correttamente che se «la persona ha espresso parere negativo» quando era sana, allora «non si può fare nulla, nemmeno con l’assenso dei familiari» e ricorda anche che nel caso, invece, di mancata manifestazione della propria volontà, la famiglia ha un potere di veto (p. 78). In realtà il Decreto attuativo previsto dalla L. 91/99 art. 5 non è stato emanato, quindi l’opposizione della persona in vita non ha modo di esprimersi secondo legge con le dovute garanzie, tanto più che alle Disposizioni Transitorie art. 23 il Centro Nazionale Trapianti ha agganciato vari artifici contro legge (Asl, anagrafe, carta d’identità, associazioni varie, medici di famiglia, tesserino Bindi, e altro) che non offrono alcuna garanzia alla persona, in particolare ai soggetti privi di famiglia; famiglia la quale mantiene -per chi non si è espresso in vita- il diritto di opposizione scritta entro le 6 ore dall’accertamento di morte cerebrale. Un diritto di veto molto importante nei confronti della volontà biopolitica che vede in ogni cittadino un fornitore di organi sostitutivi. E invece l’autrice stigmatizza il fatto che «le famiglie sembrano essere l’ostacolo principale alla donazione d’organi non solo in Italia, ma un po’ in tutto il mondo» (Ibidem).

Ovadia prosegue poi cercando -come sempre e banalmente avviene in questi casi- di suscitare sensi di colpa in coloro che non mettono a disposizione i propri organi. Sensi di colpa che vengono esplicitamente teorizzati da alcuni studiosi come utilissimi al fine di aumentare il numero dei cosiddetti donatori: «Bisognerebbe quindi puntare anche sui sensi di colpa di chi si rifiuta a priori di aderire alle campagne di donazione» (82). Viene auspicata la presenza di psicologi “esperti in donazioni” e si raccomanda di distanziare l‘«annuncio  di morte dalla richiesta di donazione», allo scopo di far crescere le possibilità di una risposta consenziente da parte della famiglia (80). L’articolo giudica eccessivo il timore di molti «che, in caso di gravi incidenti, chi ha autorizzato l’espianto degli organi dopo la morte non riceva gli interventi che potrebbero salvargli la vita» (81). E invece è proprio questo che troppo spesso accade, come documentano ampiamente i casi raccolti e denunciati dalla Lega Nazionale Contro la Predazione di Organi e la Morte a Cuore Battente .

La questione scientifica ruota intorno al concetto di morte cerebrale, che molti studiosi danno per indiscutibile e che invece è soltanto una delle possibili letture di un fenomeno assai complesso qual è il morire. Ovadia scrive che «secondo gli standard medici attuali, la morte cerebrale è considerata il segnale certo del decesso di una persona. La legge italiana consente l’espianto degli organi solo se la morte cerebrale è constatata da tre medici -tra cui un neurologo- facenti parte di un’apposita commissione e dopo 24 ore di osservazione senza modificazioni dello stato del paziente» (79). In realtà le ore richieste dalla legge sono 6 e non -come scrive Ovadia- 24 e di fatto accade regolarmente che persino tempi così ristretti non vengano rispettati; accade che la fretta –nel caso dei trapianti la velocità è tutto-, le menzogne, gli interessi economici, lo sciacallaggio conducano a macellare dei corpi vivi. Il concetto di morte cerebrale è infatti sottoposto in ambito scientifico a discussioni e a critiche radicali e invece nella pratica lo si utilizza per legittimare comportamenti gravissimi per la dignità delle persone.

Sulla questione dei trapianti convergono elementi assai diversi quali: slanci etici da parte dei singoli; interesse personale nel caso prima o poi si avesse bisogno di organi altrui; grave disinformazione da parte del mainstream mediatico; pressappochismo e incompetenza dei decisori politici (e a volte anche corruzione); indecidibilità scientifica e filosofica sull’esatto statuto ontologico del morire; enormi -e preponderanti- interessi finanziari da parte di una varietà di soggetti.
Non si tratta di stabilire statisticamente se e quanti escano dal coma cerebrale. Si tratta di impedire che il bisogno di organi e il loro scambio medico-affaristico prendano il sopravvento sul diritto di ciascuno di essere curato con la massima attenzione possibile, senza che i corpimente ancora pulsanti diventino un semplice materiale di ripristino di corpimente altrui, anche con le migliori intenzioni. Accettare un simile punto di vista apre infatti la strada all’affermarsi di una posizione che vede i singoli esseri umani come parte di un tutto che è lo Stato, il quale sarebbe autorizzato a entrare -letteralmente- dentro i corpi umani, dopo aver stabilito già da molto tempo il suo diritto a fare di questi corpi uno strumento di lavoro (sfruttamento), uno strumento di guerra (servizio militare), uno strumento di arricchimento (i corpi come destinatari dall’inarrestabile flusso pubblicitario televisivo), uno strumento di discriminazione specista (la vivisezione sui corpi degli altri animali e le pratiche a essa correlate). Si tratta di ciò che Michel Foucault ha ben descritto come biopolitica, vale a dire il culmine del potere e dei suoi strumenti di controllo sul singolo e sulle comunità.

 

Streghe interiori

In Trance
(Trance)
di Danny Boyle
Con: James McAvoy (Simon), Rosario Dawson (Elizabeth), Vincent Cassel (Franck)
Gran Bretagna, 2012
Trailer del film

Le aste dei dipinti più preziosi sono blindate come e più delle banche. Ma dei ladri ben decisi riescono ugualmente a farcela, tanto più se vengono aiutati da qualcuno che lavora all’interno, come il banditore Simon. Oggetto del furto è un capolavoro inestimabile (venticinque milioni di sterline): le Streghe nell’aria di Francisco Goya. Il problema è che il dipinto sparisce. Dopo aver sottoposto Simon a tortura, i suoi complici devono ammettere che egli non ricorda effettivamente dove abbia nascosto la tela. Decidono quindi di ricorrere a una psicologa, specialista in ipnosi. La cura raggiunge il suo obiettivo ma ha effetti devastanti su tutti i personaggi. Ciò che lentamente affiora dalla mente di Simon è molto più di quanto si potesse immaginare. Al centro della ragnatela mnemonica sembra stagliarsi proprio Elizabeth, che si rivela snodo centrale della vicenda.
Sontuoso nei colori, intricatissimo nel plot, abbastanza corretto -anche se inevitabilmente grossolano- nella descrizione degli stati mentali, Trance è un film come tanti ma piacevole soprattutto per chi si aspetta dei colpi di scena a ripetizione. Il merito maggiore, da un altro punto di vista, è l’intuizione della radicale complessità del corpomente e delle sue memorie profonde. La presenza -discreta ma centrale- di Goya aiuta. È con questo artista che l’illusione della realtà si sfalda e trasmuta nell’universo interiore in cui ogni umano deve fare i conti con i propri fantasmi. A rischio della follia ma ottenendo come premio la pace della conoscenza. Non è un caso che il quadro intorno al quale tutto ruota abbia come titolo Streghe nell’aria.

 

Terapie stupefacenti

Mente & cervello 102 – giugno 2013

 

Pressoché tutte le culture hanno fatto uso delle piante sacre, di quei vegetali dai quali è possibile trarre sostanze che attutiscono il dolore di esistere e inducono il corpomente a inventare mondi in maniera ancora più massiccia di quanto faccia normalmente. Le società industriali e postindustriali hanno trasformato queste pratiche millenarie o in comportamenti ludici (le “canne”) o in reati gravemente puniti, arrivando a proibire l’uso terapeutico di sostanze naturali -cannabis e allucinogeni come la ketamina- che lasciate all’utilizzo individuale potrebbero certamente risultare pericolose ma che se assunte in contesti adeguati sono molto potenti nell’attutire effetti, disturbi e sindromi in vario modo riconducibili alla depressione.
Pare che in Europa siano «circa 23 milioni le persone affette da depressione clinica diagnosticata» (S. Grimm e M. Scheidegger, p. 34), cifra enorme e che probabilmente indica semplicemente la medicalizzazione dell’angoscia di vivere. Lo conferma il fatto che la depressione sembra addirittura contagiosa, nel senso che «l’umore degli altri può influenzare la nostra vulnerabilità cognitiva» (V. Murelli, 23). Anche per evitare che tale “vulnerabilità” diventi distruttiva e autodistruttiva, siamo noi stessi a secernere delle sostanze che ci aiutano nelle più diverse circostanze, gli endocannabinoidi, il cui studio «consente di immaginare quali possano essere i benefici -in gran parte dimostrati anche in trial clinici- del consumo di cannabis esogena a scopo terapeutico» (D. Ovadia, 40). E infatti «prima che fossero proibiti negli anni settanta -la risposta normativa all’esplosione del loro uso alla fine degli anni sessanta- gli allucinogeni erano stati prescritti a circa 40.000 soggetti studiati nelle ricerche. Allora i risultati furono promettenti: avevano aiutato i malati terminali a superare il dolore, la paura, l’isolamento psicologico e la depressione. Oggi i ricercatori riscoprono alcune virtù della psilocibina, che non solo riduce i sintomi seduta stante, ma migliora gli esiti terapeutici per mesi, se non per anni» (E. Rex, 26). In ogni caso, si deve fare di tutto per moltiplicare gli strumenti capaci di curare non soltanto la depressione ma in generale le malattie psichiatriche, la cui natura è insieme ambientale/esperienziale e genetica/innata.
La complessità del cervellocorpo è talmente grande da rendere velleitario l’ennesimo tentativo di imitarne struttura e funzione: l’Human Brain Project ideato da Henry Makram «ambisce a simulare in un supercomputer il cervello umano, integrando sistematicamente tutte le conoscenze prodotte per chiarire la catena di eventi che porta dalle molecole alla cognizione, comprendere le malattie neurologiche e mentali, progettare neurorobot capaci di comportamenti autonomi» (G. Sabato, 75). Ambizione che si scontra con una miriade di ostacoli, di strutture, di eventi, tra cui -per ricordarne tre dei quali si parla in questo numero di Mente & cervello«l’influenza del Sole sull’umore», che sembra essere ancora più pervasiva e fondamentale di quanto si pensi (N. Gueguen, 85); il legame totale di ogni corpomente umano con la madre che l’ha generato, come conferma la teoria dell’attaccamento elaborata da John Bowlby; la consapevolezza -che sin dall’inizio ci accompagna- della nostra mortalità.
«Il terrore esistenziale dei morenti è un argomento tabù in medicina» (A. Bossis, 27), anche perché nessuna scienza empirica può spiegare la verità di cui sono intrisi i versi dell’Alcesti di Euripide, ricordati da Vittorino Andreoli: «I mortali hanno un debito / ed è questo, che devono morire / tutti quanti» (17). È a tale debito che fa riferimento il primo testo della filosofia europea: «Principio degli esseri è l’apeiron, la polvere della terra e del tempo, il suo flusso infinito…Da dove gli enti hanno origine, là hanno anche la distruzione in modo necessario: le cose che sono tutte transeunti, infatti, subiscono l’una dall’altra punizione e vendetta per la loro ingiustizia secondo il decreto del Tempo» (Anassimandro, DK, B 1). Soltanto la filosofia può tentare una comprensione radicale dello stare umano al mondo e del mondo stesso.

 

Salute, tristezza, iPhone

Mente & cervello 95 – Novembre 2012

 

Salute e malattia non sono dei concetti universali, non sono dei dati di fatto assoluti. Tanto più questo è vero nell’ambito complesso del corpomente. Lo confermano i mutamenti anche radicali del concetto di malattia mentale e della catalogazione dei disturbi della psiche. Nel maggio del 2013 uscirà la quinta edizione del DSM, Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders, pubblicato per la prima volta nel 1952. In questi sessant’anni il DSM ha cancellato numerosi comportamenti prima definiti patologici, dichiarando o la loro “normalità” -l’omosessualità, ad esempio, dal 1974 non è più una malattia- o l’insufficienza dei dati clinici necessari a darne una definizione psichiatrica. In questa nuova edizione viene eliminata dalla nosografia ufficiale la “personalità isterica”, sostituita da vari disturbi di personalità borderline. In compenso, si procede alla patologizzazione di una condizione umana tanto diffusa quanto naturale: la tristezza. Essa viene sempre più spesso classificata come depressione e in questo modo segnata da un crisma patologico che non le appartiene. A mettere in guardia da questi sviluppi tipicamente biopolitici sono importanti psichiatri quali Allen Frances o Allan Horwitz, i quali paventano il rischio di medicalizzare «momenti dell’esistenza e comportamenti non necessariamente patologici, come il lutto, i capricci, gli eccessi alimentari, l’ansia e la tristezza, il lieve declino cognitivo dell’anziano» (F. Cro, p. 66).
Un’altra prova del fatto che «tutta la letteratura sui disturbi di personalità è fondata sulle sabbie mobili» (Id., 62) è fornita dalla sindrome autistica. Rispetto al passato, infatti, si tende oggi a sostenere che «essere autistici è una differenza, non un deficit. Essere autistici è avere un’altra mente» (M. Cattaneo, 3), anche se si ammette che «quale che sia la sua forma, la sindrome autistica dà luogo, per tutta la vita della persona che ne è colpita, a difficoltà di adattamento importanti, che hanno un impatto negativo sulla qualità della vita del soggetto e su quella del suo ambiente familiare» (L. Mottron, 26).

Se e quando esisteranno, le Intelligenze Artificiali saranno sottoposte anch’esse al rischio della malattia mentale? Herbie, il robot protagonista di uno dei racconti di Isaac Asimov, posto di fronte a un dilemma insolubile, a un circolo vizioso logico, impazzisce e muore dopo aver lanciato un urlo «acuto, lacerante, come pervaso dallo strazio di un’anima perduta» (I. Asimov, Io, robot, Mondadori 2003, p. 153). Prima di eventualmente ammalarsi, però, queste IA dovrebbero esserci. Crearle è l’obiettivo di numerosi laboratori di ricerca, i quali tentano di produrre dei robot da compagnia in grado di sostituire gli umani nella cura di anziani e bambini. Le difficoltà sono naturalmente enormi. Tali macchine, infatti, dovrebbero essere senzienti, vale a dire dovrebbero avere «la capacità di integrare percezione (stimoli provenienti dall’esterno), la cognizione (ciò che noi chiamiamo pensiero) e l’azione in una scena e in un contesto coerente, in cui l’azione stessa può essere interpretata, pianificata, generata o comunicata» (D. Ovadia, 71). In altri termini, i ricercatori lavorano non più sull’intelligenza logico-formale (che l’ampio dibattito nato a proposito dell’esperimento mentale della Stanza cinese di Searle ha mostrato essere del tutto insufficiente) ma sulla Embodied Cognition, «la capacità del corpo di avere una mente a sé, di essere l’elemento di cerniera tra il pensiero e l’ambiente» (Id., 72). Paolo Dario osserva giustamente che «esiste già un perfetto robot da compagnia, ed è molto più diffuso di quanto si pensi: è l’iPhone» (Id., 71); lo è in molte delle sue funzioni e in particolare in Siri, il programma che è capace di parlare con l’interlocutore umano comprendendo -entro certi limiti- il nostro linguaggio naturale.
Daniela Ovadia ha chiesto a Siri “mi vuoi bene?”, «ricevendo in cambio la criptica risposta “non ho molte pretese”» (Id., 74). Io ho cercato di intavolare con Siri una conversazione sul tema dell’amore, al che -in modo direi piuttosto intelligente, non foss’altro che per la sua umiltà- l’IA mi ha risposto così: «Per questo tipo di problemi ti consiglio di rivolgerti a un umano, possibilmente esperto». Al di là di queste provocazioni di chi lo usa, Siri è davvero utile. Quando cammino in bicicletta, ad esempio, le chiedo (la voce è femminile) che ore sono, qual è la temperatura, di farmi ascoltare un determinato brano. Le sue risposte sono sempre immediate ed esatte. Se la ringrazio dicendole che è molto brava, mi risponde in vari modi, tra i quali «Lo sai che vivo per te». L’ironia (o la paraculaggine) di quest’ultima risposta sarebbe un segno sicuro di intelligenza se Siri fosse consapevole di ciò che sta dicendo. Ma non lo è. E la mia previsione è che le IA non lo saranno mai, a meno di essere implementate su dei corpi protoplasmatici, “di carne e sangue”.
Solo l’unità del corpomente, infatti, è intelligente. E cangiante. Ed ermeneutica. «La nostra memoria», afferma Donna Bridge, «non è statica. Se ricordiamo un evento alla luce di un nuovo contesto e di un periodo diverso della nostra vita, la memoria tende a integrare dettagli differenti e inediti» (22). Non basta quindi neppure la corporeità, è necessario che essa sprofondi nel tempo.

Che la mente umana abbia struttura e funzione ermeneutica è confermato dal fatto che «una rapida analisi visiva dell’andatura ci può informare sulla vulnerabilità di una persona», sul suo sesso, sull’età, sullo stato emotivo, sulla condizione sociale (N. Guèguen, 55). Il corpo parla, lo sappiamo, e lo fa ad alta voce quando cammina. Conosco un soggetto che dalla sola andatura è classificabile come una specie di guappo. E infatti lo è. Anche quando vorrebbe nascondere questa sua caratteristica, essa emerge con chiarezza dal movimento nello spazio.

Innamoramento ed evoluzione

Mente & cervello 94 – ottobre 2012

Animali sociali. E in questa socialità animali innamorati. Innamorati di un progetto, un luogo, un obiettivo, un oggetto, una persona. E quando arriviamo a possedere il fine del nostro agire raggiungiamo qualcosa di assai prossimo alla felicità. Ma poi, lentamente e inesorabilmente, quel progetto scolora di fronte ad altri obiettivi, l’oggetto diventa un’abitudine, della persona emergono i limiti. Diane Felmlee, una sociologa californiana, sostiene che alla lunga veniamo respinti proprio da quegli aspetti dell’altro che all’inizio ci avevano affascinati. Felmlee definisce tale dinamica con il termine di disillusione; lo psicologo Michael Cunningham aggiunge i cosiddetti allergenici sociali, elementi del comportamento che in principio appaiono insignificanti e che invece possono minare un rapporto alla radice. Il risultato di tali dinamiche è la deromanticizzazione che di fatto uccide le relazioni più appassionate, proprio perché appassionate. Non solo: si dà anche un fattore che possiamo chiamare giustizia e che risulta fondamentale in qualsiasi tipo di scambio sociale, compresa la coppia: «Secondo la teoria dell’equità, chi sente che il suo rapporto si sta sbilanciando a suo sfavore cercherà di cambiare le cose o ripristinando l’equità -presunta o reale- o interrompendo il rapporto stesso» (J. Palca e F. Lichtman, p. 53). Senza reciprocità, in altri termini, nessun rapporto può durare, perché anche la relazione di coppia -soprattutto la relazione di coppia- è una forma dello scambio sociale. Tra i suggerimenti che questi studiosi offrono ce n’è uno apparentemente semplice e però fondamentale: «Secondo Aron uno degli aspetti più importanti all’interno di una relazione è festeggiare i successi e i momenti positivi del partner. “È ancora più importante di quanto non sia sostenerlo quando le cose vanno male”»  (Id., 55).

Da festeggiare in un rapporto di coppia c’è sicuramente l’orgasmo. A proposito di quello femminile, Elizabeth Lloyd parla di “strano caso”. Perché? Riporto qui alcune delle sue risposte, lasciando ai lettori -femmine o maschi che siano- la responsabilità di una riflessione su questioni così delicate. Lloyd risponde alle domande di Antonella Tramacenere.
«L’orgasmo femminile sarebbe emerso nel corso dell’evoluzione come un sottoprodotto evolutivo, un prodotto secondario. […] Approssimativamente, infatti, il 90 per cento delle donne è in grado di raggiungere l’orgasmo attraverso qualche tipo di stimolazione -manuale, orale o con penetrazione- ma molte di loro, più del 50 per cento, non ne fanno esperienza durante la copulazione. Al contrario nella stessa condizione quasi il 100 per cento degli uomini riporta regolarmente esperienze orgasmiche» (90).
«Per ricordare che sottoprodotto è solo un termine tecnico, che non ha lo stesso significato che gli attribuiamo nel linguaggio quotidiano, l’ho chiamato “accidente felice”. Recentemente sto usando anche l’espressione “fantastico bonus”, alludendo al fatto che l’orgasmo femminile è un bonus senza nessuno scopo evolutivo» (93).
«Non ci sono connessioni tra orgasmo femminile e fitness evolutiva. Pertanto nessun dato empirico suggerisce che l’orgasmo femminile sia un adattamento in corso per favorire il legame di coppia» (95).
Quest’ultima affermazione è certamente impegnativa. E lo è ancora di più la seguente: «La presenza dell’orgasmo femminile durante il rapporto sessuale dipende principalmente dall’anatomia della donna, non dalla psicologia, mentre le caratteristiche del maschio fanno la differenza solo in alcuni casi» (93).
Liberare il piacere dalla psicologia, liberare il corpomente dai suoi occhiuti controllori, sarebbe già un’ottima cosa.

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