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Al termine della notte

Viaggio al termine della notte
di Louis-Ferdinand Céline
(1932)
(Voyage au bout de la nuit, Gallimard, 1952)
Traduzione e note di Ernesto Ferrero
Corbaccio, 1995
Pagine 575

voyageIl silenzio. Questo solo rimane dopo l’immersione in questo libro senza pari. Come Proust desiderava per la sua Recherche, dobbiamo dire anche a Céline: ‘Sì, la vita è veramente così. Le cose accadono come tu le hai descritte’.
Non la notte che ci avvolge, non il buio che percorriamo ma la notte che siamo. Questo, nulla di meno, Céline ha tentato di descrivere. Il nostro corpo, magnifico e disgustoso, desiderato e repellente. La menzogna di chi parla dell’avvenire e in suo nome intende redimere -sacrificandolo- il presente. La guerra con la sua «imbecillità infernale» (pag. 20). L’inganno delle maggioranze. La pericolosa ma inavvertita potenza delle parole che devastano i sentimenti e creano mondi; la terribilità ancora più grande di quello che non è stato ancora detto. Il commercio, «questo cancro del mondo, sfolgorante nelle réclames ammiccanti e pustolose» (230). La truffa della vivisezione, la gratuita crudeltà verso le bestie. Il tempo che non basta se non per pensare a se stessi. Il tentativo reciproco, continuo e infaticabile di fregarci a ogni istante, l’istinto assassino della gente, la sua «impotenza speculativa» che la obbliga «a odiare senza alcuna chiarezza» (421), tanto che «fidarsi degli uomini è già farsi uccidere un po’» (200). La potenza, di contro, della solitudine, di una forte vita interiore capace di bastare a se stessa. L’invincibile muraglia del destino, ai cui piedi si ricade «ogni sera, sotto l’angoscia dell’indomani, sempre più precario, più sordido» (225). Il destino che ci rende «tutti aggrappati come palle di bigliardo vacillanti sull’orlo della buca» (385). La finzione della morale, quest’immensa fatica«per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi» (459). Il bisogno, l’istinto, di godere ed essere felici e l’impossibilità quindi di un vero, integrale, dolore. L’impulso a vomitare la terra intera, questo «spaventoso universo proprio orribile…» (549). La pena, quindi, che non ci lascia mai, che non si può mollare in qualche angolo di strada e che «forse è ancora meglio finire per amarla un po’ invece di dannarsi a picchiarla tutta la vita» (383). Una vita che somiglia a «una classe in cui la noia è il professore» (391). L’amore che ci manca, quello per la vita degli altri. Lo studio, l’istruzione che fa l’orgoglio di un uomo e attraverso la quale «bisogna proprio passare per entrare nel cuore della vita. Prima, ci si gira soltanto intorno» (269), tanto che non basta essere ostinati e carogne se non si aggiunge la cognizione, la quale soltanto consente di andare più lontano degli altri. Lontano fino a scorgere «sùbito in qualsiasi individuo la sua realtà di grosso verme ingordo» (372), fino a comprendere la radicale malvagità degli uomini, la loro «sporca anima eroica e fannullona» (21), capire «fino a qual punto gli uomini sono carogne» (33), gli uomini, queste bestie verticali (159).
«A ciascuno il suo terrore» (62). Qualunque cosa accada, è da soli che si muore perché la morte è inseparabile dal nostro essere, è l’altro nome dell’individualità, è la prima sostanza e l’ultimo apprendimento: «La verità è un’agonia che non finisce mai. La verità di questo mondo è la morte» [cfr. Canetti: Massa e potere] (225). Una volta che si è nati, la cosa migliore è uscire da questa «notte smisuratamente ostile e silenziosa» (361), dopo essere stati «una scheggia di luce» (376).
Tutto questo e molto altro è il Voyage. Una narrazione che va da Parigi al Congo, dal fronte franco-germanico a Detroit, «dalla vita alla morte». Spinta da una inesausta «voglia di saperne sempre di più» (263), intessuta e materiata di un linguaggio senza modelli, insieme gergale ed elegante, immediato e artificioso, sensuale e plebeo senza mai essere volgare. Nello specchio deformante e quindi fedele di questo libro mi sono guardato e mi sono  riconosciuto. «Non avevo una grande idea dell’uomo io» (545).

«Notte fredda» / «Fiamma meravigliosa»

Il Profumo
di Patrick Süskind
(Das Parfum, Diogenes Verlag AG, 1985)
Trad. di Giovanna Agabio
Longanesi, 2006
Pagine 261

Profumo_1Dentro la storia ma come una densa allegoria antropologica e religiosa.
La vicenda di Jean-Baptiste Grenouille, venuto al mondo nel 1738 nello spazio più maleodorante di Parigi e morto in quello stesso luogo nel 1767, è quella di una creatura, di una entità, nella quale Luce e Tenebra si mescolano a produrre il più mostruoso e il più adorato degli umani, a scatenare un odio furibondo e uno sconfinato amore. «La sua anima non aveva bisogno di nulla» (pag. 26), anima nera nella quale «regnava una notte fredda» (247), in cui trionfo del sé e disprezzo del mondo si coniugano al tocco di una Grazia enigmatica. La Grazia che è la Bellezza.
Jean-Baptiste Grenouille vive solo per la Bellezza, per distillarla dai corpi, per racchiudere e salvare dal tempo i loro odori più fragranti, dolci, esaltanti, in qualche goccia di un profumo trascendente. Quest’uomo è solo olfatto. Non gli interessa vedere, toccare, sentire con le orecchie, gustare con il tatto. Dotato della capacità prodigiosa di distinguere milioni di effluvi e di sentirli a distanze lontanissime, il suo solo interesse sta nell’annusare, nel percepire le esalazioni di ogni cosa, nel cogliere l’essenza olfattiva di tutto. Non solo l’odore delle creature morte fra le quali era nato –nel putrido mercato del Cimetière des Innocents-, non solo quello dei malvagi bambini dell’orfanotrofio o delle pelli dei conciatori sul fiume o l’odore delle essenze del profumiere Baldini presso il quale aveva lavorato come garzone, non il profumo soltanto o il fetore delle cose vive che brulicano nel mondo ma anche quello degli oggetti, «l’odore della seta stirata, ad esempio, […] l’odore di un pezzo di broccato ricamato d’argento, […] l’odore di un pettine di tartaruga» (39).
Tutti gli odori del mondo, in ogni loro declinazione, intensità, direzione, fragranza e puzzo. Ma lui, Grenouille, lui non ha odore. È questo il segreto atroce che lo rende invisibile agli altri e orribile a se stesso. È questa la causa dell’odio che prova verso gli umani. Nel momento del suo trionfo supremo, quando riesce a far sì che la collera, la vendetta, il fiele di coloro ai quali ha ucciso le figlie per trarne il profumo, diventino stupore e venerazione, si trasformino nel puro amore generato da una goccia soltanto del profumo che aveva distillato dalle sue vittime, «in quel momento tutto il disgusto per l’umanità si ridestò in lui e avvelenò il suo trionfo» (244). Quel profumo è capace di tutto e potrebbe dare al suo creatore un potere sugli umani universale e completo, ma neppure quell’aroma trascendente può far sentire a Grenouille il suo proprio odore.
Vicinissimo all’essenza olfattiva delle creature e tuttavia lontanissimo dal comprendere e giustificare la loro esistenza, «era la lontananza dagli uomini a dargli la sensazione della massima libertà», fino a indurlo a trascorrere sette anni (un numero chiaramente simbolico) in una caverna sulla cima di un vulcano spento, il Plomb du Cantal: «Il suo naso lo portò in regioni del paese sempre più isolate, lo allontanò sempre più dagli esseri umani e sempre più lo spinse verso il polo magnetico della solitudine estrema» (124).
Una solitudine che è soprattutto distanza dai corpi, perché al naso di Grenouille la massa degli organismi umani produce solo un fetore più o meno acre e insopportabile e poche sono –invece- le creature pervase di profumo e quindi di innocenza. Ed è quella innocenza che Grenouille vuole possedere o, meglio, riconquistare. Per ottenerla uccide -senza risentimento né odio- ventiquattro ragazze splendenti di bellezza e di fragranza e, alla fine, la più bella fra di loro: Laure Richis. È la goccia del perfetto odore di lei a trasformare la folla che intrisa d’odio aspetta il supplizio di Grenouille in una massa di corpi adoranti e orgasmici, nel miracolo ironico e potente della più grande orgia che si fosse vista da secoli, nelle migliaia di persone che investite dall’aura della sua presenza «copularono in posizioni e accoppiamenti impossibili […] L’aria era greve del sudore dolciastro del piacere e colma delle grida, dei grugniti e dei gemiti delle diecimila belve umane. Era infernale» (243).
Profumo_2Destinato alla Crocifissione, Grenouille si trasforma da mostruoso assassino nell’«innocenza in persona», da abominio dell’umano in Angelo del Signore, «nell’essere più bello, più attraente e perfetto che si potesse immaginare» (240), nel Salvatore stesso per i cristiani, nel Signore delle tenebre per i satanisti, nell’Essere Sublime per i deisti.
Quest’uomo insignificante e potente, questa nullità capace di creare mondi fatti di piacere e di assoluta gioia, si offre alla fine in pasto a un gruppo di malnati e malvissuti, a un’antologia della canaglia umana. Ciascuno di costoro «voleva toccarlo, ognuno voleva una parte di lui, una piccola piuma, un’ala, una scintilla della sua fiamma meravigliosa» (258). L’Angelo sterminatore diventa così una figura eucaristica, che infonde nelle anime di coloro che si sono comunicati alla sua carne -anime fino ad allora intrise di tenebra- «un’ombra di gaiezza», un «barlume di felicità», un sorriso, una fierezza, e soprattutto la sensazione di avere per la prima volta nelle loro vite depravate «compiuto un atto d’amore» (259).
Il Profumo è quello del Paradiso perduto. Il romanzo è una metafora cristologica e gnostica che esprime il meglio di sé nei primi e negli ultimi capitoli, là dove la dimensione simbolica -l’essere letteralmente gettati nel puzzo della materia riscattandosi attraverso il profumo della Luce- diventa struttura narrativa. Nel mezzo c’è l’itinerario dell’anima, delineato con una certa lungaggine e qualche ripetitività. In ogni caso, pur essendo Jean-Baptiste Grenouille una creatura evidentemente ripugnante, rimane nel lettore un’attrazione profonda verso di lui. Ancora un miracolo del suo profumo.

Baci

Mente & cervello 134 – febbraio 2016

M&C_134_febbraio_2016Innato e appreso non sono in contraddizione ma costruiscono insieme la continuità dell’umano e di molti altri animali. L’intelligenza ha certamente delle basi biologiche e genetiche -che la costituiscono per il 40% circa- ed è poi «ovvio che un potenziale cognitivo su basi genetiche si esprime in un ambiente adatto, vale a dire dipende da fattori sociali scolastici, dal crescere in un ambiente stimolante e via dicendo» (A. Oliverio, p. 18)  Per questa e per altre ragioni, la tesi di Noam Chomsky sulla grammatica interna -e quindi innata- del linguaggio è assolutamente plausibile, nonostante le critiche che da più parti le vengono rivolte: «Una ricerca pubblicata su ‘Nature Neuroscience’ sembra però offrire una prova alla presenza di un meccanismo cerebrale che consente di costruire un’organizzazione gerarchica per comprendere il linguaggio» (V. Daelli, 20).
Innato è il sentimento amoroso, nella varietà assai complessa delle sue forme storiche e strutture psichiche. Tra di esse le più importanti sono quelle che i Greci definivano Eros, Philia e Agape, l’amore passionale, l’amore materno e amicale, il sentimento universale di condivisione del medesimo destino.
Al tema è dedicato il dossier di questo numero della rivista. Uno degli articoli si occupa del bacio, pratica non così universale come di solito si ritiene: «Nel complesso, Jankowiak ha osservato 77 culture in cui il bacio romantico era presente e 91 in cui era assente» (F. Sgorbissa, 34). Nata molto probabilmente in India tra il 1500 e il 1200 a.C., la pratica del bacio venne diffusa tramite le conquiste di Alessandro il Grande e divenne poi dominante a Roma. Da qui è transitata ovunque in Europa e nel Mediterraneo. Le ricerche di Jankowiak mostrano che c’è una correlazione tra la pratica del bacio e le condizioni economiche e culturali di una società: «Più è complessa una cultura maggiore è la probabilità che gli individui si bacino». Il piacere erotico ha infatti «una componente di provocazione e ‘attesa’ […] e solo le società che possono permettersi di perdere tempo in attività di intrattenimento possono aver sviluppato il bacio» (Id., 34). Questo dato non è affatto in contraddizione con la constatazione che molti altri animali, in particolare i nostri cugini primati, si bacino. Le ragioni sono ovvie e legate al piacere che il bacio offre e scatena ma si può anche aggiungere che le società composte da altri animali hanno di solito molto più ‘tempo libero’ di quelle umane -«Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre» (Mt., 6,26). Espressione della Philia è anche la compassione, l’essere sensibili alla sofferenza degli altri, unita al desiderio di alleviarla. Più che l’autostima, è l’autocompassione a costituire una condizione di equilibrio, purché naturalmente non diventi un alibi: «Essere aperti alla propria sofferenza e gentili con se stessi, non condannarsi ed essere consapevoli che la sofferenza accomuna tutti, così da non sentirsi soli e non provare vergogna» (F. Cro, 54).
In questa nostra debole e dolorosa esistenza possiamo comunque contare su molte e differenti risorse. La prima è il corpo stesso che siamo, un dispositivo fragile ma anche potente, come è confermato dagli studi sulla neuromodulazione, i neurotrasmettitori, gli endocannabinoidi che il corpo genera per affrontare i momenti più delicati della vita e dei giorni. Kevin Tacey sostiene giustamente che «il nostro corpo è un’enorme industria farmaceutica. Chi scoprirà il modo per modulare la produzione endogena dei neurotrasmettitori in maniera precisa e accurata avrà trovato la chiave per curare un gran numero di patologie neurologiche e psichiatriche» (98).

Carne


Sul numero dell’inverno 2015 della rivista Gli Altri Animali il medico Alessandra Gallana commenta lo studio sul rapporto tra cancro e alimentazione carnea diffuso dalla IARC (International Agency for Research on Cancer) e dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità). Nell’articolo (pp. 6-7) si legge, tra le altre cose, questo:
«Quale medico consiglierebbe mai il fumo, sia pur in quantità ridotte, sapendo con certezza scientifica che provoca uno dei peggiori tumori nell’uomo? Facendo un conto molto cinico, ma molto serio perché basato sulla percentuale indicata dalla IARC, su 110.000 nuovi malati all’anno in Italia, quasi 20.000 persone potrebbero evitare di ammalarsi semplicemente eliminando le carni rosse lavorate dalla loro tavola. Non è forse una buona ragione per smettere di consumarle?
[…]
Non a caso l’OMS e l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano affermano che una percentuale tra il 35 e il 40% dei tumori in generale sarebbe evitabile adottando un’alimentazione composta prevalentemente da cereali integrali, frutta, verdura e legumi, e che tale percentuale arriva al 70% nel caso del cancro all’esofago, dello stomaco e del colon-retto»

Lo scambio simbolico

Lo scambio simbolico e la morte
(L’échange symbolique et la mort, 1976)
di Jean Baudrillard
Traduzione di Girolamo Mancuso
Feltrinelli, 2007
Pagine 255

Nelle società avanzate il principio di simulazione ha sostituito il principio di realtà. Alla contraffazione della prima età moderna e alla produzione di quella industriale, segue la simulazione, intesa da Baudrillard in termini assai complessi, a partire dalla universale riproducibilità tecnologica, artificiale e mediatica di ogni ente, evento e processo: «Per le opinioni, come per i beni materiali, la produzione è morta, viva la riproduzione!» (pag. 78) e, con essa, una cultura impregnata della morte artificiale e della equivalenza generale di ogni cosa con ogni altra, fondamento dello scambio capitalistico che ha sostituito e distrutto lo scambio simbolico.
Lo scambio tra forza lavoro e salario si fonda sulla morte, «bisogna che un uomo muoia per diventare forza-lavoro. È questa morte che egli monetizza nel salario» (55). La morte diventa così l’equivalente generale della socializzazione. Nel passaggio «dallo scambio simbolico delle differenze alla logica sociale delle equivalenze» (188), reale diventa «ciò di cui è possibile fare una riproduzione equivalente. […] Al termine di questo processo di riproducibilità, il reale è non soltanto ciò che può essere riprodotto, ma ciò che è sempre già riprodotto. Iperreale» (87).
La simulazione è anche il simulacro al quale i rapporti sociali vengono ridotti e la stessa struttura politica della democrazia. Il suffragio universale è in realtà «il primo dei mass-media» in cui «propaganda e pubblicità si fonderanno sul medesimo marketing e merchandising di oggetti o di idee-forza» (77), nel quale le differenze tra programmi e progetti si annullano mediante la distribuzione statistica del 50% per ogni coalizione, tanto che «il voto rassomiglia al moto browniano delle particelle o al calcolo delle probabilità, è come se tutti votassero a caso, è come se votassero delle scimmie. A questo punto, poco importa che i partiti in causa esprimano storicamente e socialmente checchessia –bisogna anzi che non rappresentino più nulla: il fascino del gioco, dei sondaggi, la coazione formale e statistica è tanto maggiore» (81). Baudrillard sintetizza tali dinamiche della politica contemporanea nella formula dura ma efficace «della leucemizzazione di tutta la sostanza sociale: sostituzione del sangue con la linfa bianca dei media» (79). Non solo: coinvolti in questa leucemizzazione, i partiti e i sindacati “rappresentanti dei lavoratori” sono in realtà diventati i loro nemici di classe mentre –a livello di economia universale- il segno monetario si disconnette «da qualsiasi produzione sociale: esso entra allora nella speculazione e nell’inflazione illimitata» (35).
Le forme dell’equivalenza si possono trovare in ambiti molto diversi tra di loro, quali: la centralità nella medicina contemporanea del Körper, del corpo-cadavere, rispetto al Leib, il corpo vissuto; la natura razziale dell’Umanesimo, poiché prima di esso culture e razze «si sono ignorate o annientate, ma mai sotto il segno d’una Ragione universale. Non c’è un criterio dell’uomo, non la divisione dell’Inumano, soltanto delle differenze che possono affrontarsi a morte. Ma è il nostro concetto indifferenziato dell’Uomo che fa sorgere la discriminazione» (137); la profonda corrispondenza tra monoteismo e potere politico unificato, così diverso dallo scambio molteplice dei politeismi; il sostanziale matriarcato delle società senza Padre quali sempre più vanno diventando le nostre “avanzate” strutture sociali, un matriarcato dell’equivalenza tra madri e figli che impedisce la crescita autonoma del «soggetto perverso» il cui lavoro «consiste nell’installarsi in questo miraggio di se stesso e di trovarvi l’appagamento del suo desiderio –in realtà appagamento del desiderio della madre. […] Processo identico a quello dell’incesto: non si esce più dalla famiglia» (127).
L’equivalenza tesa a cancellare ogni differenza si esprime soprattutto nell’utopia negativa e mercantile della abolizione della morte, in ciò che Norbert Elias ha definito la «solitudine del morente» e che Baudrillard descrive come «paranoia della ragione, i cui assiomi fanno sorgere ovunque l’inintelligibile assoluto, la Morte come inaccettabile e insolubile» (179) poiché «tutta la nostra cultura non è che un immenso sforzo per dissociare la vita dalla morte, scongiurare l’ambivalenza della morte a solo vantaggio della riproduzione della vita come valore, e del tempo come equivalente generale. Abolire la morte –è il nostro fantasma che si ramifica in tutte le direzioni: quella della sopravvivenza e dell’eternità per le religioni, quella della verità per la scienza, quella della produttività e dell’accumulazione per l’economia» (162).
Contro questi deliri di equivalenza vanno difesi il senso e la realtà dello scambio simbolico che permette ai primitivi di vivere con i loro morti «sotto gli auspici del rituale e della festa» mentre «noi commerciamo con i nostri morti con la moneta della malinconia» (148).
Ecco perché, rispetto alla sterile superficialità di ogni riduzionismo economicistico, psicologistico, sociologico, Baudrillard può giustamente asserire che «la rivoluzione è simbolica, o non è affatto» (219). Lo spazio del simbolico è infatti l’ambito nel quale l’umano esplica le proprie esigenze più fonde, le speranze assolute, le forme delle culture e delle comunità, la potenza dei sentimenti, l’edificazione delle arti e delle filosofie, la sfera del senso.
L’umano è un dispositivo semantico perché non vive di solo pane e per riuscire letteralmente a muoversi, agire, prendere la costante serie di decisioni che intesse la vita, ha bisogno di trovare un significato –un qualsiasi significato- al tempo che è e che le cose da sole non hanno. L’incessante scambio simbolico in cui la vita consiste comprende in sé anche la morte, soprattutto la morte, e solo in questa com-prensione le può dare un significato né soltanto biologico né malinconicamente disperante né economicamente in perdita ma colmo della pienezza del dono che ogni presente è, anche quello della fine.

Possesso

L’impero dei sensi
(Ai no Korīda – L’Empire des sens)
di Nagisa Oshima
Giappone, Francia 1976
Con: Eiko Matsuda (Sada Abe) Fuji (Kichizo Ishida)

Sada Abe lavora in una pensione, si lega al padrone in un rapporto erotico totale che li condurrà a esiti estremi. La vicenda accadde realmente in Giappone.
Molte scene sono esplicite: i corpi, le bocche, i membri, le vagine si intrecciano; i gesti, le posizioni, i movimenti dell’uno esigono e rispondono a quelli dell’altro, stabilendo una dipendenza e possesso perfetti. E tuttavia è un film gelido, nel quale a dominare è il Körper, l’organismo, più che il Leib, il corpo vissuto; è una tecnica di godimento e non una storia.
Il desiderio dell’altro implica certamente anche il desiderio del piacere che l’altro può offrirci, ma bisogna sopportare ciò che di effimero e inafferrabile è in gioco per saper riconoscere all’altro il suo proprio senso, irriducibile al nostro. Qui Sada non ammette interruzioni al loro inesauribile piacere, cerca sempre più e soltanto il membro del suo amante, per portarlo costantemente con sé. Kichi san, dal suo canto, si lascia possedere con totale abbandono, quasi a preferire la morte a una boccata d’aria tra gli orgasmi.
L’impero dei sensi è un elegante esercizio dello sguardo; è una illustrazione persino didascalica del legame tra Eros e Thanatos; è la disperazione proustiana dell’inoltrepassabile solitudine degli amanti, preferibile a tutto.
Non c’è erotismo ma c’è eleganza in quest’opera, l’eleganza di una civiltà avvezza a esprimere in forme misurate la ferocia. Come se il Sole che sorge sull’Oriente illuminasse ogni volta una Notte destinata a non finire. L’Eros è un’altra cosa. È scambio, sorriso, gioia.

Felicità

Mente & cervello 127 – luglio 2015

Essere tristi è un diritto dell’umanità e dei singoli umani, gettati in un mondo di tristezza e di morte. Il dovere degli umani è tuttavia essere felici, cercare di esserlo in tutti i modi che non moltiplichino gratuitamente e insensatamente il dolore del mondo. È quanto pensano anche alcuni psicologi, come Christophe André il quale afferma che «proprio perché la vita è dura la felicità, in alcuni momenti, è indispensabile. Ed è proprio perché la nostra esistenza ci riserverà di sicuro una serie di momenti bui che la felicità non è un lusso né un accessorio, ma una gioiosa necessità» (p. 68).
La felicità è un’esperienza assai complessa, che richiede elementi caratteriali, tra i quali la resistenza a un troppo facile sentimento di negatività dal quale alcuni soggetti vengono travolti. Altre condizioni riguardano la pienezza degli eventi, nel senso che non è possibile trovare gioia in situazioni o eventi troppo banali -«i livelli più alti di felicità non si raggiungono mai guardando la televisione» (69)- e soprattutto nel senso che a essere determinante non è ciò che ci succede ma l’interpretazione che ne diamo. Il maestro Arthur scrive infatti che «quando ad esempio degli uomini invidiano altri per gli avvenimenti interessanti in cui si è imbattuta la loro vita, dovrebbero piuttosto invidiarli per la dote interpretativa che ha riempito siffatte vicende del significato, quale si rivela attraverso la loro descrizione» (A. Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, Tomo I, a cura di Giorgio Colli, Adelphi 1981, p. 426).
L’ultima e la prima condizione della felicità umana è la conciliazione con il tempo che va e con il tempo che si è. Perché il tempo intesse tutta la materia e la materia che noi stessi siamo. Alla lettera. Infatti «uno studio pubblicato su ‘Currenty Biology’ sostiene di aver individuato una regione nel cervello che tiene traccia dell’informazione tempo, del suo scorrere, e questa zona si troverebbe nello striato» (M. Maccarone, 19). Il cervello è tempo in azione, il cervello non è soltanto un ente ma è anche un evento.

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