Recensione a:
Un’ordinata ambiguità.
Per una genealogia dell’anarca
di Giuseppe Raciti
in Diorama letterario
Numero 290 – novembre 2008
Pagine 38-39
Recensione a:
Un’ordinata ambiguità.
Per una genealogia dell’anarca
di Giuseppe Raciti
in Diorama letterario
Numero 290 – novembre 2008
Pagine 38-39
di Wim Wenders
Con: Campino (Finn), Dennis Hopper (Frank), Giovanna Mezzogiorno (Flavia), Patti Smith (Se stessa) Milla Jovovich (Se stessa)
Germania-Italia 2008
Düsseldorf. Finn è un celebre fotografo che si divide tra gallerie d’arte, foto di moda, ascolto di musica e profonda solitudine. Da quando è morta sua madre, fa sogni nei quali il tempo diventa liquido, gli orologi si piegano, gli spazi si dilatano o contraggono. Abituato a fotografare ovunque -anche mentre guida- evita per poco uno scontro frontale. La foto scattata in quell’istante raffigura una persona che gli sembrerà di incontrare anche a Palermo, dove si reca per un servizio fotografico. Qui conosce Flavia, pittrice che sta restaurando il Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis. Con lei cercherà di capire che cosa davvero gli stia accadendo, chi veramente stia sognando…
Wim Wenders continua il suo personale periplo del mondo. Dopo Tokyo, Lisbona, Berlino, il Texas, immerge questa vicenda tra la sua città natale e Palermo. Senza concedere nulla a promozioni turistiche ma cogliendo l’inquietudine dei luoghi. Palermo Shooting affronta in modo diretto il tema chiave, la morte, e lo fa con espliciti riferimenti a Bergman (Il posto delle fragole, Il settimo sigillo), a Escher e -più nascosti- a David Lynch. L’opera comincia con le mummie della cripta del Cappuccini e ruota intorno al carattere, al corpo, agli incubi del protagonista, presente in ogni scena. Nel ruolo più difficile, un Dennis Hopper misurato ma sempre inquietante. Il film è rischioso perché oscilla di continuo tra il sublime e il ridicolo ma il risultato è di una certa suggestione, soprattutto nell’analisi dell’affresco quattrocentesco e nel modo in cui viene legato all’intera trama
Sorpresa! (ma lo si sa da tempo…): molte specie animali sono bisessuali e praticano quindi l’omosessualità, probabilmente «per distendere le tensioni sociali, per proteggere i propri piccoli oppure per preservare la fertilità quando non vi sono partner disponibili del sesso opposto…o semplicemente perché è divertente» (E.V. Driscoli, p. 39). Che cos’è quindi natura? Che cosa contronatura? E che cosa -ancora- è cultura? Dovremmo, in realtà, abbandonare sia l’antropocentrismo (che è una vera e propria malattia del sapere, oltre che gesto di assoluta vanità) sia ogni forma di dualismo, compreso quello tra scienze del cervello e filosofia della mente.
Stanno infatti per cadere «come questa rivista non cessa di sottolineare -scrive Enrico Bellone-, le barriere che separano la scienze del cervello dalle riflessioni sulla mente, e che per molto tempo hanno creduto di distinguere le funzioni cerebrali dalla produzione di cultura» (3). Uno degli esiti dello scientismo è invece la scissione fra queste due dimensioni dell’unità psicosomatica a favore del solo organismo e cioè dell’unica dimensione che i metodi quantitativi siano in grado di osservare. La corporeità umana è corpo oggettivo e corpo vissuto, entrambi immersi in un ambiente fisico col quale scambiano energia e informazione, in relazione profonda con gli altri corpi, insieme ai quali costituiscono un mondo di simboli e di significati che è il solo mondo nel quale gli umani possano vivere e cioè non solo sussistere ma anche esistere.
Esistenza che è fatta spesso di inquietudine, a volte di angoscia; dimensioni, queste, anch’esse naturali ma che non poca psicologia intende patologizzare. E si arriva a casi davvero criminali come quelli raccontati da K. Lambert e S.O. Lilienfeld. Episodi nei quali è lo psicoterapeuta a creare -letteralmente- disturbi psicologici gravissimi come schizofrenie, personalità alternative -alters-, falsi ricordi orribili (come violenze sessuali subite da parte dei genitori) che intessono ogni istante e dai quali più non ci si libera: «prima di cominciare la terapia, Sheri soffriva di una leggera insonnia e di blandi stati d’ansia. Dopo l’inizio della terapia [condotta dal Dott. Kenneth Olson] cominciò ad avere emicranie, vertigini, mal di schiena, nausea e disturbi intestinali (…) A dieci anni di distanza, Sheri continua ad assumere farmaci psicotropi, sperimenta immagini e pensieri intrusivi, è ancora senza lavoro e socialmente isolata» (59).
Un consiglio dunque? Tenersi ben lontani dagli psicoterapeuti, da questo ibrido tra confessori, medici e stregoni, il cui autocompiacimento e narcisismo possono indurre a ritagliare addosso al paziente «la psicopatologia che in quel momento lo gratifica, usando il proprio “sapere” come fonte di potere. Questi terapeuti possono pretendere ammirazione incondizionata dai loro assistiti; sono però anche molto vulnerabili a ogni passo del paziente verso l’autonomia, che percepiscono come un abbandono o un tradimento» (F. Cro, 93). Non solo: alcuni psicoterapeuti -come appunto Olson nei confronti di Sheri Storm- possono rovinare per sempre le vite degli incauti che affidano la propria psiche, e quindi la vita, a soggetti «con tendenze, psicopatiche, sadiche o incestuose» (Id., 94).
La salute della memoria, invece, coincide con la salute della persona. Ricordare e dimenticare costituiscono un contrappunto essenziale nella vita della mente, la curiosità è fondamentale per la sopravvivenza dei neuroni e questo «può aiutare a spiegare come mai gli studiosi, che presumibilmente vivono in un mondo intellettualmente più ricco, siano meno suscettibili all’Alzheimer» (A. Levine, 99-100). Letteratura, matematica, filosofia, insomma, fanno bene alla salute.
Numerosi gli altri temi affrontati in questo numero della Rivista: dal disagio natalizio alle stragi nelle scuole statunitensi (ma non solo), dai canoni estetici alle coppie (etnicamente) miste…