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l’Arte c’è quando “malgrado” si ride

l’Arte c’è quando “malgrado” si ride. Opere dal 1950 al 2011
Catania – Sala Vaccarini ed ex cucine del Monastero dei Benedettini
A cura di Daniela Vasta
Sino al 31 maggio 2011

Il titolo -certo inconsueto- di questa mostra fa riferimento alle parole di Joseph Beuys, a una sua opera. Beuys, Fontana, Isgrò, Sironi, Vedova, Accardi, Capogrossi sono solo alcuni dei numerosi artisti le cui opere Filippo Pappalardo e Anna Pia Desi hanno raccolto negli anni con intelligenza e lungimiranza e che adesso espongono in due degli spazi più belli dell’ex Monastero dei Benedettini di Catania.
Le opere sono divise in sei sezioni i cui titoli rappresentano già da soli un percorso critico nell’arte della seconda metà del Novecento e del primo decennio del XXI secolo. SegnoGestoMateria anzitutto. Perché l’arte contemporanea è libera dai significati e fa del significante la propria stessa sostanza. Il nero denso e  fluttuante di Hans Hartung, la perfezione classica del Cellotex (1980) di Alberto Burri, il paradossale e sfuggente realismo di Emilio Scanavino e del suo Alfabeto senza fine N. 1, esprimono assai bene l’identità e la differenza della pura forma.
Tra le Alleg(o)ria la più rappresentativa è forse una Testa di generale di Enrico Baj, dove la denuncia, l’ironia, l’oltrepassamento della separazione tra plastica e pittura conducono davvero a sorridere e a pensare sorridendo. Le opere di Still life reinterpretano e rinnovano uno dei più antichi temi dell’arte; esemplare, in questo, l’opera di Felice Carena. Tra i Paesaggi il più denso è la costruzione fantastica ma anche inquietante nella sua plausibilità dell’Agglomerato n. 3, nel quale Giacomo Costa ha fuso varie immagini di grattacieli e palazzi. I Corpi rivelati mostrano tutti lo statuto ambiguo e aperto della corporeità nella società del presente. Ai poli opposti di questa tensione corporea si collocano una famosa modella nera fotografata tra la frutta esotica da David La Chapelle e l’autoritratto di Marina Abramovic (Balcan Baroc II) mentre spazzola ossa sanguinolente di bue.
I Percorsi e ricorsi, infine, testimoniano del fatto che l’arte non muore, mai. Anche quando, come fa con elegante e intensa semplicità Giulio Paolini in Ennesima, i segni vergati su un foglio di carta bianco si dividono, suddividono, dissolvono sino a farsi superficie nera. Perché quella superficie conserva in sé la memoria di tutti i colori, di tutte le forme.
Una collezione privata, questa, dal respiro davvero assai ampio.

Mente & cervello 76 – Aprile 2011

Il corpo è il luogo del potere, della memoria, delle passioni, dei significati. Ipermnesia e amnesia costituiscono forme patologiche dell’identità di un umano, che consiste nel ricordare e nel dimenticare, inseparabili. Il sonno, la cui funzione è rimasta per secoli un enigma, è necessario per selezionare e consolidare nel cervello le informazioni ricevute e le esperienze vissute durante la veglia. Nessuna parte, sezione, area dell’encefalo conserva ricordi come un cassetto conserva dei documenti. L’ippocampo, la struttura cerebrale senza la quale si perde la memoria, costituisce «non la fonte o il magazzino della memoria, ma un mediatore essenziale per la sua formazione» (A.J. Greene, p. 61), «una stazione di passaggio per la conservazione dei ricordi a lungo termine» (Suzanne Corkin, intervistata da D. Ovadia, 45).

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Mente & cervello 75 – Marzo 2011

Comprendere l’umanità nelle sue potenzialità e nei suoi limiti significa prima di tutto accettare e accogliere il dato di fatto della nostra corporeità anche chimica e molecolare, quella che -ancora una volta- rende illusorio il libero arbitrio. Il corpo che siamo, infatti, comunica sì con i segni verbali ma parla anche con i feromoni -come fanno altre specie viventi- e «laddove le conversazioni verbali sono astratte e piene di sfumature, quelle chimiche sono fisiche e largamente predeterminate» (J. Castro, p. 102). La parola è uno strumento naturale che veicola significati non materiali, esattamente come gli odori.

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Mente & cervello 73 – Gennaio 2011

«La nostra esperienza del mondo, e la capacità di interagire con esso, passa interamente per il nostro corpo», esso «è l’oggetto di gran lunga più familiare al mondo», tanto che gli strumenti -l’artificio– costruiti per estendere le capacità delle mani diventano per il cervello esattamente come le mani, una loro parte naturale (P.Haggard e M.R.Longo, pp. 102-103).

L’insieme di strutture e funzioni che è il corpo è capace di individuare prima di tutto i volti di altri umani, poiché è attraverso loro che transitano le intenzioni amichevoli oppure ostili, affettuose o indifferenti, in una parola transita la relazionalità. E poiché la visione è un insieme di «processi probabilistici con cui il cervello costruisce la realtà» (G.Sabato, 105), i volti sono in gran parte il risultato di una costruzione del tutto mentale, sul fondamento anche di pochissimi e scarni dati empirici. Si osservi la locandina del film Premonition e se ne avrà un esempio, uno soltanto tra le migliaia che è possibile indicare. A pag. 71 di questo numero di Mente & cervello, infatti, alcune efficaci immagini impongono al lettore la percezione di un viso anche là dove ci sono soltanto «una sala sbarrata da un cordone, una penna USB, un rubinetto, un vecchio telefono, una palla da bowling e un ciocco di legno» (S.Martinez-Conde e S.L.Macknik). «Ciò che vedo è un significato», afferma Wittgenstein (Osservazioni sulla filosofia della psicologia, I, § 869, Adelphi 1990, p. 246) e ha perfettamente ragione, anche perché «gran parte della nostra esperienza quotidiana è data da analoghi processi di riempimento degli spazi vuoti tra un’informazione e l’altra, in cui prendiamo ciò che sappiamo del mondo e lo usiamo per immaginare quel che non sappiamo» (S.Martinez-Conde e S.L.Macknik, 81)

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Franko B.

Franko B. I Still Love

Milano – Padiglione d’Arte Contemporanea
A cura di Francesca Alfano Miglietti
Allestimento di Fabio Novembre
Sino al 28 novembre 2010

Aver trasformato il corpo dell’artista da strumento dell’opera a opera esso stesso, è certamente uno dei fenomeni più importanti e radicali dell’arte contemporanea. Franko B., milanese di nascita ma londinese da ormai molti anni, è uno di questi artisti-opera che però inserisce se stesso all’interno di un itinerario tra le cose e i concetti del quale egli diventa parte. Le opere presentate in questa mostra sono infatti tra loro differenti, anche se tutte accomunate da una tonalità nello stesso tempo cupa e in rivolta. Il nero vi domina, nel corpo di Franko e negli acrilici che soltanto le ombre in rilievo -e dunque la luce- riescono a far emergere dallo sfondo. Vi si contrappone il bianco-rosso del cotone egiziano cucito sulle tele, a disegnare soggetti diversi. Cinque panche di chiesa ridipinte in color oro formano poi una scultura dal titolo The Golden Age Period, l’età d’oro delle certezze infantili, catechistiche. Alcune grandi fotografie e dei video mostrano il corpo dell’artista nudo e perfettamente bianco, segnato da ferite dalle quali cola il sangue che si raggruma a terra. Nelle opere più recenti, invece, il corpo è dipinto di un nero integrale e immobile, come gli uccelli e altri animali -tutti nerissimi anch’essi- che compongono varie installazioni.

Parte essenziale della mostra è l’allestimento con il quale l’architetto Fabio Novembre ha modificato gli interni del PAC allo scopo di dare luce e spazio al nero di Franko. Entrando, la prima sala è vuota e confluisce nella seconda con un’apertura nel muro a forma di croce, al centro della quale c’è il volto dell’artista. Volto che finalmente appare in una delle immagini conclusive della mostra, non più oscurato e coperto ma intenso, rassegnato, triste. Col suo nero delle forme sul nero della realtà -avrebbe detto Hegel- l’arte non si lascia ringiovanire ma soltanto morire. Tutto infatti qui sembra immobile, finito, anche se Franko B. dichiara di “amare ancora”.

L’omosessualo

Mussolini era certamente assai più colto e meno volgare ma tra i caratteri comuni ai due uomini politici più importanti dell’Italia del Novecento e del XXI secolo uno è evidentissimo: il fascino sessuale che entrambi hanno esercitato sulle masse. Freud e soprattutto Reich colsero bene la natura erotica del rapporto che il capo assoluto intrattiene coi suoi servi adoranti, in particolare nei fascismi. Il caso Berlusconi credo che però vada oltre e costituisca un impensabile gorgo somatico. I governi guidati da questo personaggio hanno prodotto risultati economici e sociali del tutto catastrofici, impoverendo le famiglie, annullando uno Stato sociale pur minimo (sanità, scuola, università, energia, trasporti) a vantaggio anche di dissennate guerre coloniali, raggiungendo il picco della corruzione amministrativa, trasformando l’Italia nello zimbello del pianeta, imponendo una televisione pubblica e privata degna della Romania di Ceausescu. Gli italiani, insomma, “la prendono nel culo” continuamente. E tuttavia sembra che ancora milioni di loro apprezzino, difendano o almeno giustifichino chi li sta violentando. Il disprezzo mostrato da costui verso gli omosessuali appare dunque una forma di denigrazione verso l’intera società da lui sodomizzata ma anche verso se stesso in quanto androgino. Berlusconi racconta infatti che «subito dopo la partita dello scudetto del 1988, un tifoso vede la mia macchina, mi riconosce, si pianta davanti al cofano e grida: “Silviooooo, Silviooooo: sei una gran bella figa!”. È stato il complimento più bello della mia vita» (M. Belpoliti, Il corpo del capo, Guanda 2009, p. 77). Insomma, disprezzando gli omosessuali disprezza la gran figa che è in lui.

(Su questo vortice politico-carnale segnalo un approfondito articolo di Andrea Cortellessa nel numero di ottobre di Alfabeta2, Dalla Pornocrazia alla Mignottocrazia; aggiungo che oggi, 6.11.2010, l’Unità ha pubblicato dei brani da Eros e Priapo di Gadda, dove -tra l’altro- lo scrittore disegna il seguente ritratto del potente narciso: «in lui tutto viene relato alla erezione perpetua e alla prurigine erubescente dell’Io-minchia, invaghito, affocato, affogato di sé medesimo»).

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