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Mente & cervello 90 – Giugno 2012

Il corpo parla, sempre. Comunica non soltanto con le parole esplicite e neppure solo con il tono, il timbro, l’inflessione della voce. Quando ad esempio siamo arrabbiati [alla rabbia è dedicato il dossier di questo numero di Mente & cervello] incominciamo tutti a somigliare a dei piccoli “incredibili Hulk”, il cui corpo vorrebbe azzannare i soggetti e le situazioni che hanno causato la nostra ira. Quanto più vicino e conosciuto è l’oggetto della rabbia, tanto più ci si scatena: «È noto che in ogni rapporto d’amore ci sia una zona d’ombra, un lato oscuro popolato da sentimenti ostili, ma quella tra fidanzati, coniugi, genitori e figli sembra ormai una guerra dal bollettino sconfortante» (M. Picozzi, p. 43). Famiglia che diventa poco raccomandabile soprattutto quando «trasforma un’intenzione generosa in un meccanismo dannoso, perché non sempre l’affetto è abbastanza rispettoso dell’identità separata dell’altro», come dimostra il caso di una ragazza succube dell’affetto paterno sino alla morte del genitore e anche oltre (M.G. Antinori, 54). Gli ambienti di lavoro sono spesso permeati di una violenza latente, sottile e ancor più devastante proprio per i rapporti gerarchici che li intridono. Si parla in questi casi di una vera e propria psicopatia industriale: «Per un corporate psychopath l’altro non è mai un individuo, ma una risorsa da sfruttare, un cliente da catturare, un avversario da sconfiggere» (Picozzi, 36).  Eppure la rabbia non è di per sé soltanto distruttiva. Aristotele ne distingue varie forme e sostiene che arrabbiarsi con la persona giusta, nel momento opportuno, nel modo adeguato e con uno scopo positivo è del tutto legittimo, anche se certamente non facile. La rabbia può quindi «essere una forza positiva e costruttiva, un’emozione che permette di far valere le proprie ragioni e negoziare i propri bisogni» (29). Arrabbiarsi rimane però un atteggiamento quasi sempre volgare e profondamente negativo per chi ne è pervaso.

Non si arrabbiavano ma si limitavano a ubbidire coscienziosamente i soggetti che nel celebre esperimento di Stanley Milgram (1961) colpivano con scariche elettriche sempre più letali dei volontari (in realtà degli attori) soltanto perché a chiederglielo era un “esperto” dall’aria gelida e vestito con un camice. Anche se l’articolo che qui se ne occupa cerca di fornire interpretazioni più sfumate di questo e di altri analoghi esperimenti (come quello di Zimbardo del 1971), mi sembra evidente che la natura gregaria dell’Homo sapiens produrrà sempre la ferocia dell’esecutore se non si pongono degli argini formali alle azioni che possono essere oggetto di un comando. In caso contrario, “ho obbedito agli ordini ricevuti” sarà sempre una buona giustificazione della violenza inflitta ad altri umani e animali (è il caso della vivisezione).

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Mente

È del significato l’essere transeunte, è della verità l’essere nomade. Significati e verità abitano nel corpo che è per sua natura l’effimero e cangiante coagularsi della materia in un ordine temporale destinato sin dal suo apparire alla dissoluzione. Prospettivismo e relativismo non sono tanto e soltanto un’opzione culturale, gnoseologica e neppure esistenziale ma costituiscono, assai più radicalmente, la struttura stessa –paradossalmente costante- del pensare e dell’esserci umani nel tempo/mondo.
Ogni verità che si pone fuori dal tempo, ogni principio che si autocostituisce come variabile indipendente nel cangiare incessante delle sensazioni e delle conoscenze, è solo una labile espressione del bisogno che abbiamo di stabilità in quella transizione incessante che la vita umana –individuale e collettiva- è. La finitudine biologica del corpo fonda il limite ontologico del mondo. Noi siamo questo limite. Pensare il tempo è possibile solo a partire da un processo che esso stesso produce. La mente è tale processo. La mente è un grumo di tempo consapevole del proprio passare, è la consapevolezza che il flusso temporale acquista di se stesso in un’entità biologica che produce significati come il ragno fila la propria tela.

 

Vedere

L’occhio e lo spirito
(L’Œil  et l’Esprit [1960], Gallimard, Paris 1964)
di Maurice Merleau-Ponty
Trad. di Anna Sordini
Postfazione di Claude Lefort
SE, Milano 1989
Pagine 75

Che cosa significa vedere? In che cosa consiste il mondo di colori, forme, strutture che si impone appena apriamo gli occhi? L’arte, e in specie la pittura, descrivono il reale oppure lo producono? Quali saperi sono più adatti a comprendere la relazione  che intercorre tra i sensi, il cervello e l’essere? Le scienze dure manipolano il reale e rinunciano ad abitarlo, afferma Merleau-Ponty, poiché prendono in considerazione soltanto le componenti quantitative che esse stesse hanno elaborato in modo che possano essere registrate dagli apparati di cui si servono. Vale anche per esse il principio fenomenologico fondamentale secondo cui noi «vediamo solamente quel che guardiamo» (p. 17). La fenomenologia è anche un tentativo di guardare l’esterno della materia e l’interno della coscienza non come contrapposte ma in quanto generate entrambe dalla stessa matrice, che è il corpo isotropo. Il movimento di ciascuno, infatti, «è il proseguimento naturale e la maturazione di una visione» (18), la quale si struttura come un cerchio il cui centro è la materia consapevole di esistere -il corpo, appunto- e le cui onde sono la penna e il computer, il sole e le stelle, le montagne e le case, tutto ciò che la visione tocca e che noi stessi diventiamo nel tocco della visione. Vedere è dunque «la metamorfosi delle cose stesse nella loro visione», è «la doppia appartenenza delle cose al grande mondo e a un piccolo mondo privato» (31).
Per questo, secondo Merleau-Ponty, ogni teoria della pittura è sempre anche una metafisica della visione e dipingere significa comprendere in atto che «qualità, luce, colore, profondità, che sono laggiù davanti a noi, sono là soltanto perché risvegliano un’eco nel nostro corpo, perché esso li accolga» (20). È dal corpo quindi che si genera il mondo reale, inteso come mondo percepito, sentito, compreso e vissuto. In quanto si muove e vede, vede e si muove, il corpo

tiene le cose in cerchio intorno a sé, le cose sono un suo annesso o un suo prolungamento, sono incrostate nella sua carne, fanno parte della sua piena definizione, e il mondo è fatto della medesima stoffa del corpo. (19)

Al di là di soggettivismi e oggettivismi, di idealismi e di realismi vecchi e nuovi, una fenomenologia corporea  ci aiuta a penetrare nell’enigma della visione, dello spazio, della pittura, la quale non è cartesianamente disegno ma è quell’«indeciso mormorio dei colori» che ci mostra «cose, foreste, tempeste, insomma il mondo» (33).
Ultimo scritto di Merleau-Ponty -redatto in Provenza nell’estate del 1960, nel paesaggio abitato da Cézanne-, L’Œil  et l’Esprit, l’occhio e la mente, «facendo vedere con delle parole» (Lefort, p. 75) restituisce al linguaggio la sua natura ontologica e all’essere delle cose la loro scaturigine dalla materia che parla, dal corpo che vede e che guarda.

Corpo/Cultura

La corporeità umana è un insieme inseparabile di natura, cultura e tecnica.
La dimensione naturale fa del corpo un organismo che si pone in continuità con la struttura atomica, molecolare, biologica della Terra, delle piante, degli altri animali. Come essi, il corpo è sottomesso alle leggi fisiche di gravitazione, impenetrabilità, unicità spaziale; è sottoposto alle leggi chimiche dello scambio energetico e termico, alla regola universale dell’entropia; è soggetto alle leggi biologiche del metabolismo, della crescita, maturazione e decadenza, è ostaggio sin dall’inizio della morte.
Come cultura, il corpo è segnato dai simboli cosmici e politici, dai tatuaggi che riproducono le forze degli altri animali e degli dèi, dagli abiti che lo coprono, difendono, modellano e immergono nei gusti estetici e nei modi di fare quotidiani di un’epoca, un popolo, una società. Come cultura, il corpo è desiderato in sembianze anche estetiche e non solo sessuali e riproduttive; diventa modello per le forme nello spazio, per i colori sulle tele, per le narrazioni letterarie. Come cultura, il corpo è esibito nelle piccole e grandi occasioni sociali e nelle forme rituali collettive (la hola degli stadi, il ballo nelle discoteche, il corpo dell’attore nei teatri). Come cultura, il corpo è agglutinato nelle masse che manifestano, scioperano, scandiscono slogan a una voce che sembra sola ma che in realtà è il frutto del convergere di esclamazioni innumerevoli. Come cultura, il corpo è sacralizzato nei totem, nei crocifissi, nei corpi paramentati a festa dei sacerdoti. Come cultura, il corpo inventa le forme che percepisce nello spazio e le loro regolarità; elabora i colori -veri e propri significati virtuali del nostro cervello- e in generale le immagini che danno spessore e profondità alla nostra percezione. Come cultura, il corpo è guardato –e non solo percepito-, è ammirato, compianto, commentato, imitato, segnato dai giudizi degli altri corpi. Come cultura, il corpo parla e il suo dire, il suono fisico capace di esprimere il processo immateriale del pensare, incide a fondo, produce eventi, sconvolge luoghi, trasforma le esistenze, plasma la storia. Come cultura, persino i prodotti organici del corpo –saliva, lacrime, sudore- sono irriducibili alla dimensione soltanto biologica e indicano, invece, un intero mondo di emozioni e di significati.
La corporeità è la nostra dimensione di enti finiti, la cui intelligenza consiste in gran parte nella comprensione del bastione temporale oltre il quale al corpo –e quindi a noi- è impossibile andare.

 

La montagna incantata

(Der Zauberberg, 1924)
di Thomas Mann
Trad. di Bice Giachetti-Sorteni
Dall’Oglio editore, Milano 1980
Due volumi – Pagine 379 e 406

Un libro immenso e inquietante, che descrive lo spazio della storia in un luogo e in un istante particolari i quali però assumono una dimensione metatemporale. Il tempo è al centro dell’opera, come in Proust. Ma diversamente da Proust non c’è qui alcuna tensione verso la memoria. Piuttosto, c’è l’ambizione di un tempo puro, di un tempo altro. Il tempo non vi è calcolato ma viene esperito nella sua neutra immediatezza, per la quale «anni densi di avvenimenti trascorrono molto più lentamente di altri poveri, vuoti, leggeri, che il vento soffia via. […] Una uniformità ininterrotta abbrevia grandi periodi di tempo in un modo incredibile e spaventoso» (Vol. I, p. 116). Nonostante secoli di cristianesimo, la rappresentazione del tempo torna a farsi circolare e soprattutto diventa rispettosa del suo enigma, del suo essere «un mistero privo di essenza, inafferrabile e potente» (II, 5).
In questa temporalità senza tempo si svolge l’iniziazione di Hans Castorp alla vita. Uomo semplice, borghese senza eccessivi conflitti e aspirazioni, Castorp si trova a partecipare al grande spettacolo della conoscenza e della morale. Il mondo in cui si muove è un teatro tutto letterario e proprio per questo veramente reale. Una pervasiva ironia e una scettica ambiguità danno voce e carne ai grandi princìpi, agli archetipi, ai concetti. E tutto ciò senza che i personaggi nei quali idee, archetipi e concetti prendono corpo e forma risultino minimamente artificiosi.
Il romanzo è immerso in un’atmosfera nichilistica ben riassunta dalle parole di Clawdia Chauchat: «Il nous semble qu’il est plus moral de se perdre et même de se laisser dépérir que de se conserver» (I, 376; il corsivo e il francese sono dell’Autore). Nell’incontro e nel conflitto tra Occidente e Oriente, pensiero e natura, ragione e magia -conflitto che attraversa l’intero romanzo- Hans Castorp catalizza intelletto e corporeità, si fa testimone e vittima della dissoluzione di un mondo, dell’Europa alle soglie del suicidio, alla vigilia della Prima guerra mondiale.
Insieme a lui vivono altre allegorie: la mediocrità volgare della signora Sthör; la regalità dionisiaca di Peeperkorn «sacerdote danzante» (II, 254); la lucidità umanistica di Settembrini, per il quale la parola è civiltà; il radicalismo religioso e comunistico di Naphta, che unifica Gregorio Magno e la dittatura del proletariato in una palingenesi millenaristica; il militarismo obbediente e devoto alla bandiera di Gioachino; il bonario ed eccentrico dottor Behrens. È un universo di comportamenti e di caratteri che rendono il sanatorio di Davos una metafora del mondo, con tutto il suo male, la sua stoltezza, la sua violenza.
Il «monte del peccato» (II, 402) è una piovra continuamente tesa ad afferrare altre vittime tra i suoi tentacoli, è un trionfo della morte nella morte del tempo. Non a caso l’improvviso ritorno di Castorp in pianura a causa della tragedia bellica acquista quasi un senso di rinascita dopo la costante dissoluzione vissuta sulla montagna incantata. Al di sopra, eppure, sembrano rimanere incontaminati, dietro l’apparenza di un’intima partecipazione al male, la misteriosa antica bellezza di Clawdia e la calma tollerante di Hans. I dialoghi tra loro due e Peeperkorn sono singolari e perturbanti ma testimoniano di una lucida razionalità, di uno sceverare l’interiorità fin nei più reconditi meandri, di un amore verso la «forma» che non è «pedanteria» ma umana civiltà (I, 377). Clawdia rimane tuttavia una venere tartara e indolente, Hans un preoccupante figlio della vita troppo facilmente attratto dall’ambigua grandezza della morte, dell’amore, della malattia. Una triade costante nella poetica di Thomas Mann, per il quale il corpo è a volte una cosa sola con il Geist, altre è invece principio di dissolutezza.
Der Zauberberg è intriso di una palpitante luminosità, che si racchiude e si schiude nel finale del romanzo, quando in mezzo a rumori di sfacelo e a bagliori di guerra germina la luce di un sentimento d’amore legato alla «festa mondiale della morte» ma che al di là del «malo delirio che incendia intorno a noi la notte piovosa» (II, 406) ha saputo essere pura forma di una bellezza antica.

Identità

Tomboy
di Céline Sciamma
Francia, 2011
Con Zoé Héran (Laure/Mickäel), Jeanne Disson (Lisa), Mallon Lévana (Jeanne), Sophie Cattani (la madre),  Mathieu Demy (il padre)
Trailer del film

Laure è una ragazzina efebica e insieme mascolina. Arrivata in un nuovo quartiere, la prima coetanea che incontra la prende per un ragazzo. Lei non la corregge e si fa presentare come maschio al gruppo di adolescenti nel quale Lisa la introduce. Laure si fa chiamare Mickäel, gioca al calcio, vince nelle zuffe, si costruisce e utilizza un pene finto quando indossa il costume da bagno. Tra Mickäel e Lisa nasce un ovvio affetto, delicato e sensuale. La finzione però non può durare e quando la verità emerge la madre di Laure ha una reazione molto severa. Chiarito tutto con i vicini di casa e con il gruppo, il sorriso tra Laure/Mickäel e Lisa non viene meno.

Ed è su questo sorriso di una piccola attrice assolutamente credibile che il film si chiude e si riapre. Finzione, verità? L’identità di genere non coincide sempre con l’identità sessuale. Al genere non si  appartiene solo per caratteristiche biologiche ma esso dipende anche dal sentirsi maschio o femmina. E Laure si sente così maschio, e tale appare, che quando la madre la costringe a indossare un insulso abitino femminile lo spettatore percepisce in modo netto l’innaturalità di quell’abito su quel corpomente. Tuttavia l’antibiologismo di una concezione soltanto psicologica e mentale del genere può sì liberare il soggetto da un’identità che non sente propria ma può anche essere funzionale al dominio di un’ontologia volontaristica che diventa il controllo dei chirurghi estetici su corpi che sentono se stessi come sbagliati.
Tomboy ha il grande merito di affrontare un tema così difficile tramite la complessa semplicità delle azioni più che delle parole, degli sguardi che Laure/Mickäel rivolge a Lisa, agli altri bambini, a se stessa mentre si guarda allo specchio. Non c’è alcun binario prefissato in questo film, non c’è alcun compiacimento o sentimentalismo ma lo scavo appassionato e rispettoso nell’interiorità di un essere umano in un momento di  transito e di confine.

 

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