Skip to content


Amore?

Manuel Cruz
L’amore filosofo
(Amo, luego existo. Los filósofos y el amor, 2010)
Trad. di Federica Niola
Einaudi, Torino 2012
Pagine VII-244

Una copertina molto bella, sulla quale campeggia un particolare del Ratto di Proserpina, scultura di Gian Lorenzo Bernini nella quale il marmo si fa carne, le dita di Ade affondano nella coscia di Persefone lasciando il segno di una pressione tutta fisica.
E qui finisce il libro, che invece è un capovolgimento del corpo e della sua potenza. Capovolgimento attuato mediante tutta una serie di valori, i quali per essere valori molto attuali, molto alla moda, molto inclusivi, non per questo sono meno asfissianti e sopratutto incapaci di andare al fondo dei comportamenti e delle passioni umane.
Il titolo originale del volume suona Amo, luego existo, ‘Amo, dunque esisto’, intendendo con questa formula che è l’amore a rendere possibile la filosofia e non la σοφία ad attirare l’amore di quanti si pongono delle domande (a partire dallo stupore) sulla struttura e sul significato del reale.
Sulla base di tale assunto vengono analizzate otto prospettive filosofiche, metà delle quali riguardano rapporti d’amore intrattenuti da alcuni filosofi. E dunque, in ordine cronologico, appaiono Platone, Agostino, Abelardo ed Eloisa, Spinoza, Nietzsche e Lou Salomé, Sartre e Simone de Beauvoir, Arendt e Heidegger (ma non solo), Foucault. Segue un epilogo che accenna allo statuto dell’amore.
I risultati migliori dell’indagine costituiscono però in alcuni casi anche delle ovvietà. Così, Cruz osserva giustamente che la figura di Eloisa non ha nulla dell’eroina moderna alla quale viene spesso ricondotta, e anzi il suo amore fu totalmente subordinato agli interessi e alle aspirazioni di Abelardo, come era ovvio nel contesto in cui vissero. Di Spinoza si dice che in definitiva, per lui «l’amore (così come l’odio, il timore e altre emozioni) è talmente forte che ci debilita» (79) e dunque andrebbe fin quando è possibile evitato.
Di Sartre, Heidegger, Arendt e Beauvoir si raccontano soprattutto eventi privati e lo si fa in modo del tutto valutativo; nel caso di Heidegger formulando veri e propri insulti. Cruz stigmatizza persino la tesi heideggeriana, del tutto sensata e anzi necessaria, secondo la quale «la gente deve dedicarsi a pensare, la vita privata non ha niente a che vedere con l’ambito pubblico» (168).
In effetti, se si fosse attenuto a tale criterio di correttezza, di educazione e di oggettività, Cruz non avrebbe potuto scrivere un libro che è per buona parte costituito da indagini sulla vita intima e privata delle persone, sfiorando e toccando in molti casi il pettegolezzo, come fa nella ricostruzione del legame tra Sartre e De Beauvoir, di quello tra Hannah Arendt e il primo marito Günther Anders, delle vicende personali di Michel Foucault. Persino la generosa accettazione da parte di Heidegger di un figlio che non era suo viene ascritta a colpa. Quando si dice la forza del pregiudizio.
Sostanzialmente sterili sono i capitoli su Platone e Agostino, che si limitano a riferire e a sintetizzare tesi e questioni del tutto note senza apportare nessun contributo ermeneutico di rilievo. Il capitolo su Spinoza, poi si conclude con una ‘riflessione’ che con Spinoza non c’entra nulla e che si occupa invece delle risposte date da una donna durante un programma televisivo a proposito dei propri amanti. Come si vede, un livello davvero basso.
L’ultimo capitolo costituisce una lode delle «nuove pratiche erotiche e affettive [le quali] non saranno all’insegna di un’identità monolitica e genitalizzata che accetta soltanto idee nette e fisse sull’identità sessuale, come eterosessualità, omosessualità e bisessualità» (211), non mancando il positivo riferimento al Manifesto contra-sessuale di Paul (Beatriz) Preciado (al quale ho accennato in un articolo su Aldous) e una lode della «discriminazione positiva» (146), segno emblematico del politicamente corretto diventato – come sempre – esclusione e censura.
All’inizio del libro l’autore afferma che «affrontare la questione dell’amore rappresenta un’impresa rischiosa» (5); nel suo caso rappresenta un’impresa fallita.

Arturo

Misericordia
di Emma Dante
Italia, 2023
Con: Simone Zambelli (Arturo), Simona Malato (Betta), Tiziana Cuticchio (Nuccia), Milena Catalano (Anna), Fabrizio Ferracane (Polifemo), Carmine Maringola (Enzo)
Trailer del film

Lo splendore della terra e del mare, della costa e del cielo tra Palermo e Trapani. Una antica torre d’avvistamento intorno alla quale vive una miserabile comunità di prostitute, di ruffiani, di commercianti in ferrivecchi, di bambini, di pastori e di pecore. Il contrasto tra la grandezza del paesaggio e la sporcizia delle catapecchie, delle quali Nuccia – una delle prostitute – dice «E la chiami casa, questa? Questo tugurio pieno di merda?» – è un contrasto che contribuisce a produrre lo straniamento e lo stridore che intessono il racconto. È un mondo altro ma è davvero un altro mondo? I nuclei del racconto, il basso continuo delle vite, l’evidenza del concreto, sono infatti elementi quali la prevaricazione, la violenza, il dominio, il gioco, la sporcizia, le passioni. E soprattutto i corpi e la follia. Il corpo folle di Arturo, un giovane che non parla, un handicappato cognitivo figlio di una prostituta uccisa a botte dal suo uomo, trovato neonato da una pecora nelle rocce vicino al mare, accudito allevato e cresciuto da due mature prostitute alle quali si aggiunge una nuova arrivata, una giovane ennesima vittima di Polifemo, il violento e volgare magnaccia con un occhio solo del quale Arturo ha terrore.
La dimensione materna matriarcale mistica di tutta l’opera teatrale e cinematografica di Emma Dante emerge qui con forza. Il morbo sacro, l’epilessia, di cui soffre Arturo, è davvero πιλαμβάνομαι, qualcosa che invade e conduce ai confini della morte. Corpi e follia costituiscono elementi centrali della poetica di questa autrice come emerge in Pupo di zucchero. La festa dei morti, ne Le sorelle Macaluso, nell’Eracle messo in scena a Siracusa, in Via Castellana Bandiera.
I corpi, soprattutto i corpi. I corpi strabordanti aggraziati pestati delle prostitute, il corpo nudo di Arturo, fremente di un dinamismo simile a quello dei quattordici corpi interamente svestiti che in Bestie di scena esprimevano senza mai parlare la loro densità, età, magrezza, pinguedine, bellezza, deformità.
Come ho letto in una bella recensione trovata in Rete: «Questi corpi pesanti e appesantiti ritrovano la loro lievità soltanto in acqua – un altro elemento simbolico del ventre materno – cui si contrappone il fragore e la pesantezza della pietra dove Arturo viene trovato, segnato già da un destino ingombrante; la pietra che precipita giù e tende verso il suo luogo naturale. La pietra che si schianta in mare, si fa polvere per ritornare leggera. Anche i corpi in mare ritrovano la loro lievità riuscendo a danzare con lo stesso garbo della ballerina del carillon che tranquillizza Arturo, con la sospensione che avvolge il niente dell’anteriorità».
Corpi fatti di nostalgia, di innocenza, dell’animalità che rimaniamo sempre ma che abbiamo stoltamente imparato a negare, corpi fatti di infanzia e di abbandono. L’infanzia e l’abbandono che pulsano nel romanzo di Elsa Morante L’isola di Arturo, del quale il nome stellare del protagonista è evidente richiamo. Romanzo paterno quello di Morante, che in Misericordia si capovolge nella pura maternità che intramava la versione teatrale dell’opera a Milano. Versione più riuscita rispetto al film, perché inevitabilmente più sobria, essenziale, distillata, sempre con Simone Zambelli inquietante e straordinario protagonista di un racconto che è teatro danza e musica perché è uno sguardo sull’abisso della condizione umana. Il degrado è una metafora, la miseria è un segno, gli oggetti sono movimento.
Misericordia è puro langage, oltre ogni specifica langue e nella declinazione peculiare della parole che ciascuno riesce a dire muovendo nello spazio il corpo in cui consiste, totale espressività che si conclude con la parola dalla quale per gli umani tutto scaturisce e che invocano quando muoiono: «Mamma».
Le tre puttane sono parche, moire, divinità che danno la vita e che precipitano ciascuno nella solitudine irrimediabile che è l’esserci. Pura epica mediterranea.
Ancora dalla recensione di prima: «Il legame con la donna che lo ha generato intesse il film, il cordone che assume forma di lana o di pasta unisce il figlio alla madre: il primo nome che si riesce a sillabare, l’ultimo che si invoca. Arturo parte. Nella valigia i ricordi. Addosso dei vestiti. Davanti a sé la promessa del futuro. Alle spalle la nostalgia della terra e del niente. Solo un parola dinnanzi a così tanta miseria: Misericordia».

[Ho visto il film all’Ariston di Catania, cinema che frequento da decenni e che è diventato infrequentabile. La direzione ha infatti deciso di trasformare anche il cinema in televisione. Non era facile ma vi è riuscita interrompendo il film a metà per proiettare due trailer di altri film e soprattutto dei patetici spot di pubblicità locale. Difficilmente andrò di nuovo in un cinema che ha così scarso rispetto dei suoi spettatori, ai quali non regala certo il biglietto d’ingresso ma a cui impone della pubblicità anche esteticamente squallida]

La seduzione

Ovidio: seduzione e felicità
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
3 ottobre 2023
pagine 1-5

Nell’Ars amatoria Ovidio ha tra i suoi obiettivi descrivere un’esperienza razionalizzata dell’amore, nella quale il sentimento è presente, certo, ma in funzione decisamente subordinata al gioco, al piacere, al desiderio e alla finzione. L’«erotodidassi» è un progetto esistenziale, politico e teoretico di controllo del sé che però non significhi affatto rinuncia ma condizione per una soddisfazione ancora più grande, per un piacere più consapevole, per una forma che eviti sempre dismisura e volgarità e si esplichi nel tessuto quotidiano delle relazioni come eleganza e rispetto reciproco.
Raffreddando con la razionalità la passione amorosa nel momento stesso in cui ne celebra i piaceri e la forza, Ovidio mostra in che misura siano fecondi l’atteggiamento e il lavoro filosofici nel cercare di rendere gli umani quanto più possibile saggi e liberi.

[Foto di Anne Nygård su Unsplash]

Sulla coscienza

Una coscienza antropodecentrica
in ATQUE. Materiali tra filosofia e psicoterapia
numero 30-31, n.s, 2023
Mente, cervello, ambiente: questioni
pagine 105-120

Abstract
Among the most fruitful results of a philosophy of the mind open to the contribution of the biological sciences there is also the bringing back of the human being and his awareness of being there to the wide world of animal sensitivity. Ancient dualisms and new reductionisms are thus overcome in a perspective that can be defined as zooanthropology/etoanthropology, capable of reading every species, every function and every conscience of the world as an expression of an anthropodecentric richness that safeguards the identity of life and the difference of his expressions.

Tra i risultati più fecondi di una filosofia della mente aperta al contributo delle scienze biologiche c’è la riconduzione anche dell’umano e della sua coscienza d’esserci all’ampio mondo della sensibilità animale. Antichi dualismi e nuovi riduzionismi vengono in questo modo oltrepassati in una prospettiva che può essere definita zooantropologia/ etoantropologia, capace di leggere ogni specie, ogni funzione e ogni coscienza del mondo come espressione di una ricchezza antropodecentrica che salvaguarda l’identità della vita e la differenza delle sue espressioni 


Indice
-Coscienza e ontologia
-Al di là del primato della coscienza
-Filosofia della mente
-Zooantropologia
-Antropodecentrismo
-Identità e Differenza
-Coscienza e corpomente animale

Riconoscerci in tutto e per tutto come gli animali che siamo significa accettare la carnalità dei nostri bisogni senza la pretesa di dominarli con uno sguardo soltanto razionale. L’ontologia relazionale diventa così forma ed espressione dello sguardo filosofico, da sempre sapiente del limite, e ci aiuta a oltrepassare il teatro cartesiano nel quale soggetto e oggetto recitano stancamente la loro parte, mentre tutto intorno il mondo continua a essere ciò che è sempre stato: un intero che accoglie distinzioni epistemologiche, affinché una sua parte possa comprenderlo meglio, ma non conosce separazioni ontologiche, data l’oggettiva e feconda continuità delle sue strutture.
Il principio di base per una comprensione del mondo animale, umano compreso, è quello della Differenza, della diversità specie-specifica che non significa minorità o carenza ma semplicemente una diversa dotazione adatta a differenti contesti ambientali e funzionali.
La negazione dell’animalità umana si fonda e insieme si esplica nella negazione dell’identità e della differenza. Negazione della differenza poiché lo specismo non riconosce la varietà non gerarchica della vita. Negazione dell’identità che accomuna l’intera animalità in quanto vita attiva della materia. Una negazione che sta alla base della presunzione umana di costituire qualcosa di speciale nell’essere. L’umano è unico, certamente, come unica è la forma di esistenza di ogni altro vivente.
Specismo è anche esser convinti – come sono molte filosofie della storia e opzioni politiche ‘progressiste’ – che una natura umana non esista e che Homo sapiens sia un’entità del tutto storica, volontaristica e autopoietica. E tuttavia attribuire una ‘natura’ a ogni altro vivente e negarla al vivente umano è il culmine teorico di ogni concezione specista della ζωή.
Se percepire ciò che si sta vivendo mentre lo si sta vivendo è ciò che definiamo coscienza, essa è comune a tutta l’animalità e non soltanto all’umano, è comune in forme differenti, complesse, molteplici e mirabili. 

Un’ermeneutica della finitudine

Stefano Piazzese
Ermeneutica della finitudine
La filosofia di Alberto Giovanni Biuso
in Dialoghi Mediterranei
n. 60, marzo-aprile 2023
pagine 583-590

Indice
-Ermeneutica filosofica
-Essere è tempo
-La verità
-La differenza
-Corpo e storia
-Finitudine
-Teologia e semantica

«In Biuso l’ermeneutica è un tentativo umano di comprendere il mondo e la vita a partire dalla dimensione temporale, al di fuori della quale nessun ente può apparire – ad parere, esser manifesto, ergersi allo sguardo altrui, presentificarsi, farsi vedere –, e dove Gegenstand e Bedeutung, dato e significato, diventano i costrutti fenomenologici e teoretici che hanno luogo nella condizione trascendentale di tutto ciò che appare, ovvero il tempo».
Ringrazio Stefano Piazzese per questo percorso dentro i miei libri a partire dal dispositivo ermeneutico. I titoli con i quali l’autore ha scandito il testo credo che descrivano con efficacia alcuni degli elementi più costanti del mio tentativo di pensiero.

Il corpo nello spazio

Carlo Traini. Il corpo nello spazio
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXIX – numero 80 – marzo 2023
pagine 62-67

‘Fèrmati dunque, sei così bello!’ sembra dire Carlo Traini al corpo umano. Corpo non sempre bello, anzi a volte sgraziato, obeso, anziano. Più spesso, certo, è un corpo giovane, muscoloso, desiderabile, forte. In ogni caso il fotografo lo osserva a lungo e con cura e poi lo ferma nell’istante in cui il corpo parla senza bisogno di proferire parola. A esprimersi è infatti il dinamismo dei corpi, il loro muoversi rapido nello spazio, il loro capovolgersi in verticale scattanti o in attesa di un pallone che arriva dal cielo, nelle capriole dentro le onde del mare, scrutando l’orizzonte nella luce, persino in un abbraccio sulla sdraio che sembra disegnare un ibrido, un androgino dalla testa di maschio e dal flessuoso e attraente corpo di femmina.
Un gesto d’intelligenza del fotografo è aver tradotto tutto questo in un limpido bianco e nero che ha depurato i corpi dall’eccesso di luce dell’estate, mantenendo in questo modo l’εἶδος, la loro essenza.

Il corpo, la guerra

Mito e guerra in James Hillman
in Dialoghi Mediterranei
n. 59, gennaio-febbraio 2023
pagine 46-52

Indice
-Il mito
-La salute
-L’angoscia
-La guerra
-Pan

Il significato, la funzione, le strutture del mito affondano nella vita quotidiana degli umani, nelle loro speranze più intime, nelle angosce più fonde, nei pensieri del corpo. E dato che il corpo esiste sino a che siamo vivi, il mito è consustanziale all’esserci, diventa un archetipo la cui fecondità è perenne. Il mito greco è il luogo in cui l’immaginale costruisce la propria tela di significati, dove la caverna è sempre aperta, dove dell’orrore si dà conto.
Opposta alla salute ma sua costante compagna è l’angoscia, la quale non costituisce una semplice tonalità emotiva o uno stato temporaneo di alterazione. L’angoscia è ciò che intesse la vita degli umani poiché essa è l’espressione psicologica della Necessità e del Tempo. Mito, angoscia, salute si coniugano in due figure ambivalenti e ambigue, opposte ma penetranti l’una nell’altra: il Senex e il Puer.
Queste dinamiche contribuiscono a meglio comprendere e a spiegare un fatto, una catastrofe, una potenza antica dentro la quale l’umano abita e si perde: la guerra. Il tentativo di Hillman è consistito anche nel coniugare guerra, mito e psiche; di penetrare dentro la guerra, la sua disumanità così umana, il suo fascino costante e sinistro, il suo dominio nella storia. Pensare la guerra per capirla e quindi in qualche modo fronteggiarla. Una vera scienza della guerra non può limitarsi alla storia, alla sociologia, alla psicologia, alla tattica e alla strategia, non può limitarsi all’apparente razionalità delle sue cause, delle forme e degli scopi ma deve cogliere la natura inumana del massacro, le forze profonde che spingono l’essere vivente e razionale a intraprendere la distruzione di ogni cosa e di se stesso.
Una via d’uscita dalla catastrofe è per Hillman il mito politeistico, con le sue figure. In particolare Pan, il quale tiene ancora unita l’identità molteplice del politeismo mentre l’imporsi dei tre grandi monoteismi ha impoverito il mondo della sua strepitosa e costitutiva varietà, ha fatto vincere la coscienza egoica di un soggetto monocorde e senza (apparenti) contraddizioni. Ma il riemergere inevitabile della differenza produce schizofrenie, isterismi, paranoie ben più gravi di quelle che pure il corpo panico di per sé possiede, delle quali è fatto.
La natura più fonda di Pan è costituita dall’al di là dell’Eros, poiché il panico – il terrore della fuga e del polemos – precede l’Eros in ogni sua forma: greca, cristiana, romantica. Con estrema chiarezza, Hillman mormora che «la lotta tra Eros e Pan, e la vittoria di Eros, continuano ad umiliare Pan ogni volta che diciamo che lo stupro è inferiore al rapporto, la masturbazione inferiore alla copula, l’amore migliore della paura, il capro più brutto della lepre» (Saggio su Pan).
E poiché il corpo è l’intrascendibile – nonostante ogni sforzo di negazione attuato dalle religioni ascetiche e dai progetti di un’Intelligenza Artificiale disincarnata –, alla fine esso vince. Sempre.

Vai alla barra degli strumenti