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Genitori

Ritorno a Seoul
(Retour à Seoul)
di Davy Chou
Francia-Cambogia, 2022
Con: Ji-min Park (Freddie), Guka Han (Tena), Kwang-rok Oh (il padre), Kim Sun-Young (la zia)
Trailer del film

Federica (Freddie) Benoist è una giovane francese nata a Seoul e adottata da genitori europei. Un imprevisto in aeroporto – il volo Parigi/Tokyo cancellato – la conduce a Seoul. Della Corea non sa nulla e non conosce la lingua ma trova un’amica che la introduce alla società coreana e che nelle due settimane programmate di vacanza la aiuta a cercare i suoi genitori biologici. I quali si sono separati; il padre la incontra subito, la madre si rifiuta. L’estraneità della ragazza nei confronti del padre e della sua nuova famiglia è totale: si tratta di un uomo abbastanza meschino, alcolizzato e piangente. Ma c’è qualcosa che assorbe la ragazza in questo luogo. La ritroviamo infatti dopo cinque anni ben inserita a Seoul, in un equivoco ambiente di lavoro, e due anni dopo ancora alla ricerca della madre perduta.
Una storia banale di genitori e di figli raccontata rimanendo sempre al confine tra freddezza e disperazione, sul filo di un’ombra lontana ma originaria che si allarga all’intera esistenza a partire dal DNA, a partire dal corpomente che siamo e che vanamente un costruzionismo culturalista sciocco e tenace si ostina a negare.
I genitori da parte loro (tutti i genitori) costituiscono un’emblema dell’inevitabile finzione morale, del dispositivo che presenta degli ovvi impulsi biologici – la riproduzione animale, il perpetuarsi dei geni nel tempo – quali generose e altruistiche pratiche di accudimento e di affetto. Nel rapporto genitori/figli in molti casi l’affetto è evidente e reale ma si tratta dell’affetto dell’individuo nei confronti della propria sopravvivenza, del piacere di sentirsi chiamare «papà/mamma», dell’autorità esercitata su soggetti che dipendono (per un certo tempo) totalmente da noi.
Non c’è nulla di male in tutto questo. Ma, al di là dei sentimenti pur necessari e del loro linguaggio, è sempre bene chiamare gli eventi con il loro nome. Il nome del genitore che dice «Tu» è sempre «Io». Tanto è vero che quando, come nel caso narrato da questo film e ispirato a una vicenda reale, non esistono le condizioni affinché l’io del genitore squaderni la propria potenza, l’io del figlio viene abbandonato.
Ribadisco: una storia banale, ma raccontata con modalità, tagli, colori e primi piani che di tutto ciò che ho cercato di riassumere costituiscono una dimostrazione.

Smarriti

Memorie di un assassino
(Salinui chueokMemories of Murder)
di Bong Joon-ho
Con: Song Kang-ho (Il detective Park Doo-Man), Sang-kyung Kim (Il detective Seo Tae-Yoon), Roe-ha Kim (Il detective Cho Yong-koo)
Corea del Sud, 2003
Trailer del film

Dopo il meritato successo di Parasite -un film sulla lotta di classe in pieno XXI secolo- viene distribuito Memories of Murder (2003), meno maturo (com’è naturale) di Parasite ma dirompente nel dominio della lotta. In questo caso quella tra una compagnia di poliziotti della provincia coreana -persone qualsiasi, mediamente stupide, mediamente sadiche, «poveracci», come dice uno di loro– e un serial killer imprendibile, perverso e veramente malvagio, le cui vittime subiscono una morte iniqua, ragazze abbandonate alla gelida furia di questa entità. La quale diventa un catalizzatore di conflitti, di corruzione, di incubi che abitano endemici dentro il corpo sociale, riflessi dalla luce slavata e plumbea degli ambienti, dallo squallore profondo delle cose.
L’intensità della violenza è simile a quella di Seven (David Fincher, 1995) ma tutto il resto è agli antipodi di Hollywood: arcaico, disincantato, vero. Sorprendente, solitaria e inquietante la scena conclusiva: 17 anni dopo i fatti lo sguardo del detective Park Doo-Man guarda interrogante e smarrito una bambina.
Le memorie non sono quelle dell’assassino ma dell’intero suo mondo.

Metafore comuniste

Parasite
di Bong Joon-ho
Con: Choi Woo-Sik (Ki-Woo), Park So-dam (Ki-Jung), Song Kang-ho (Ki-Taek), Sun-kyun Lee (Mr. Park),  Yeo-jeong Jo (Yeon-Kyo), Hyae Jin Chang (Chung-Sook)
Corea del Sud, 2019
Trailer del film

«È tutto così metaforico» dichiara più volte Ki-Woo, che insieme a madre, padre e sorella vive in un basso di Seul, in una condizione di miseria vanamente contrastata da lavori precari da parte di tutti i membri della famiglia. Un suo amico gli offre la possibilità di sostituirlo come insegnante di inglese di una ricca famiglia della città. Ki-Woo accetta e a poco a poco riesce a portare con sé la sorella (che diventa l’insegnante di educazione artistica), il padre (autista), la madre (governante). Tutti trascorrono adesso gran parte del loro tempo nella grande villa della famiglia ricca, un magnifico esempio di architettura contemporanea dall’alto della quale si domina Seul. Il progressivo innestarsi della famiglia miserabile dentro quella facoltosa è interrotto dal ritorno della vecchia governante, che sposta la vicenda nei sotterranei della casa, nella loro miseria, in altri inganni. E questo mentre un vero e proprio diluvio si abbatte sulla città, dopo il quale il sole, tornato a splendere nell’aria resa pura, illumina il dominio della lotta.
«È tutto così metaforico» in questo film profondamente politico, che mostra come e quanto siano mutate la società contemporanea e le sue espressioni culturali se ormai si può fare un cinema politico -che non annoi- quasi soltanto attraverso il grottesco, l’eccesso, il surreale, il traslato. Le trasparenti metafore dell’alto e del basso, dell’annegamento delle classi subalterne dentro le acque della loro miseria, della sterilità anche della violenza, fanno di Parasite un’opera umoristicamente rassegnata, la cui saggezza sta nell’evitare quasi del tutto il compiacimento sentimentale verso i miserabili e la condanna moralistica verso i ricchi, entrambi accomunati dal tentativo di possedere, sprecare, sopraffare.
Il film è costellato di elementi metaforici, appunto: dagli Indiani d’America ad antiche pietre apotropaiche, dall’acqua al buio, dalla pervasività dei telefoni cellulari alla forza del desiderio erotico, da Basquiat all’ordine geometrico che i corpi individuali e collettivi vorrebbero imporre al divenire. Vanamente. Tanto che il padre ‘povero’ afferma con chiarezza che «il miglior piano è non avere un piano, così non puoi fallire».
Un film molto più amaro di quanto non sembri, che mantiene un ritmo eccellente sino agli ultimi venti minuti, quando il susseguirsi di simboli, colpi di scena, finali e controfinali toglie progressivamente forza alla metafora.
«La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classe. […] I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono esser raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale finora esistente» (Marx-Engels, Manifesto del Partito comunista, a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Laterza 1981, pp. 54 e 124). Affermazioni alle quali nessuno più crede nelle opzioni politiche ma che rimangono pervasive nei fatti. Il loro nascondimento – o persino rifiuto – tramite il principio astratto e umanistico della non violenza è anch’esso uno strumento della lotta di classe che le borghesie finanziarie vanno combattendo con successo contro i «proletari di tutto il mondo». La lotta di classe, infatti, non è mai cessata e nel nostro tempo la sta vincendo il capitalismo neoliberista, vale a dire il parassita del corpo sociale.

Spranghe

Il prigioniero coreano
(Geumul)
di Kim Ki-Duk
Corea del Sud, 2016
Con: Ryoo Seung-Bum (Nam Chul-woo)
Trailer del film

Geumul è la rete con la quale il pescatore nordcoreano Nam Chul-woo cattura i pesci e dà sostentamento a moglie e figlia, gli unici beni della sua vita. La rete si impiglia nel motore e le correnti lo trascinano oltre il confine, verso la Corea del Sud. Portato a Seul, Nam cerca di tenere gli occhi chiusi per non vedere la corruzione della grande città capitalistica. Vede bene, invece, la ferocia e il disprezzo di chi lo interroga e vorrebbe trasformarlo a tutti i costi in una spia. Interrogatori e violenze analoghe, se non identiche, a quelle praticate nella Corea del Nord. Ciascuno è ostaggio dell’autorità ed è prigioniero soprattutto dei propri Affetti, Princìpi, Memorie e Nostalgie.
Valori e sentimenti che si dissolvono al fuoco implacabile delle rivelazioni che il divenire ci mostra quando fissiamo gli occhi dentro il disordine, dentro babilonia. Il prigioniero coreano è metafora dell’essere rinchiusi gli umani, i pesci e ogni vivente dentro le «vigorose spranghe del caos» (Pistis Sophia, II, 81, 19), dentro il crepuscolo della materia consapevole di esserci, durare, finire.
Il canto patriottico e folle del carnefice dentro la prigione e la bandiera che avvolge il prigioniero tra le acque proiettano nella sanguinosa farsa della storia l’inevitabile tragedia della vita.

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