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Medea, la maga

Teatro Greco – Siracusa
Medea
di Euripide
Traduzione di Massimo Fusillo
Scene di Marco Rossi
Costumi di Giovanna Buzzi
Con: Laura Marinoni (Medea), Alessandro Averone (Giasone), Debora Zuin (nutrice), Francesca Giochetti (prima corifea), Roberto Latini (Creonte), Luigi Tabita (Egeo)
Regia di Federico Tiezzi
Sino al 24 giugno 2023

È un male per gli umani l’amore. Questa verità antica e discussa viene enunciata da Medea, che non parla di sé soltanto ma degli effetti universali e spesso nefasti che un sentimento di possesso così esclusivo comporta e produce. Medea è una maga dei veleni e del linguaggio. Sa porsi a un livello dialettico assai alto nel confronto retorico con Giasone durante il quale i due sposi cercano di sovrastare l’uno le ragioni dell’altro con le proprie. E sono ragioni tutte razionali, ragioni tutte etiche. Anche questo fa la grandezza del filosofo/drammaturgo Euripide: aver reso inestricabile nei suoi testi la mescolanza tra il più raffinato ragionare e la più estrema violenza fisica, in una guerra dialettica e materica che soltanto nei Greci ha potuto giungere a unità.
Mentre i moderni hanno separato del tutto la razionalità diventata cartesiana e il sentimento diventato romantico, in Euripide si tratta di due aspetti della stessa struttura, di due modi d’essere che transitano senza posa l’uno nell’altro e che non costituiscono dunque – come vorrebbe Nietzsche – la fine della tragedia ma forse, al contrario, il suo più splendente e oggettivo inveramento.
«Selvaggia, totale, cieca e illuminata, feroce, sapiente delle passioni. […] Questo è Medea. Intrisa di un sentimento potente, la vendetta. Medea è tale passione fatta carne, intelligenza, azione. Fatta gioia» (Chronos. Scritti di storia della filosofia, p. 51).
Una gioia tanto sicura quanto inquieta, tanto incerta quanto alla fine solare mentre sul carro celeste che la porta verso Atene Medea rivolge all’annichilito Giasone, al quale ha ucciso i due figli con lui generati, parole di saggezza e di disprezzo:
«Alle tue parole potrei certo opporre lunghe repliche, se il padre Zeus non sapesse sia quello che avesti da me, sia quello che m’hai fatto tu. Non potevo permettere che tu, spregiato il letto mio, te la godessi allegramente, facendoti beffe di me, né che la tua sposa regale e Creonte, che a te la diede in moglie, mi cacciassero via da questa terra impunemente. Dopo questo dì pure, se vuoi, che sono una leonessa o la Scilla che sta lungo il Tirreno: in ogni caso t’ho colpito al cuore (τῆς σῆς γὰρ ὡς χρῆν καρδίας ἀνθηψάμην)» (v. 1360, trad. di Filippo Maria Pontani).
E al cuore da millenni vengono colpiti anche gli spettatori e i lettori di questa vicenda estrema, alla quale la traduzione di Massimo Fusillo offre un linguaggio immerso nella contemporaneità e ricco di riferimenti anche impliciti; Conrad ad esempio, che in Hearth of Darkness così descrive un’altra estrema forza umana e materica: «His stare […] was wide enough to embrace the whole universe, piercing enough to penetrate all the hearts that beat in the darkness. He had summed up -he had judged. “The horror!”»  (Dover Publications, New York 1990, p. 65) .
Non è casuale o frutto soltanto di scarsa educazione teatrale se in occasione di questa rappresentazione siracusana da un certo momento in poi gli spettatori, per lo più folle di studenti medi e liceali, abbiano cominciato ad applaudire quasi a ogni discorso dei personaggi. Era anche un tentativo (inconsapevole, ovviamente) di neutralizzare con la banalità e la familiarità dell’applauso l’orrore al quale stavano assistendo.

Cuore di tenebra

di Joseph Conrad
(Hearth of Darkness, 1902)
Trad. di Alberto Rossi
Einaudi, Torino 1989
Pagine XLVI-127

 

Mentre si avanza, una progressiva assenza. Nel procedere dello spaziotempo vengono meno gli eventi, le parole, la luce. L’immenso fiume dal non detto nome introduce alla nebbia fittissima del senso, al buio della comunicazione. È anche questo il segreto di Hearth of Darkness: un’identità di forma e contenuto che nulla lascia fuori di sé ma che nel compiersi sospende la parola
Il comandante Marlow dà inizio, mentre sul Tamigi scende la tenebra notturna, al racconto del suo viaggio nel cuore dell’Africa, alla ricerca dell’avorio e di Mister Kurtz. La narrazione si avvicina in modo progressivo, lento, indiretto al suo obiettivo, esattamente come il procedere del battello per centinaia di miglia sulle acque. Quando, infine, si arriva è al di là del bene e del male che si è giunti. Lungo tutto il viaggio l’aria, il tempo, i giorni scorrono lenti fra luce e tenebre nella massiccia e lontana densità di una foresta impenetrabile, viva e respirante, sacra. Un pellegrinaggio nell’incubo, come se tutto ciò che il Guernica di Picasso racchiude nell’istante atemporale della pittura fosse dilatato nel tempo lungo della narrazione. Che cos’è lo Hearth of Darkness a cui ci si approssima senza mai coglierlo?
È la conquista del mondo. Il demone e il destino dell’Europa. Ai popoli dell’Africa la schiavitù «era giunta addosso come un incomprensibile mistero proveniente di là dal mare» (pag. 23). Lo Hearth of Darkness è quindi quel «lezzo di rapacità imbecille», diffuso da funzionari tanto grotteschi quanto feroci e che «circolava per ogni dove a zaffate, come il fetore d’un qualche cadavere» (35). Ma il predare e sottomettere, la schiavitù e il massacro delle genti africane preesistono agli europei, ebbero inizio già al tempo dell’espansione araba. Hearth of Darkness è qualcos’altro. È l’infinita solitudine dell’uomo, il silenzio e l’oblio che avvolgono ogni anima e ogni vita: «il silenzio di quella terra penetrava dritto in fondo al cuore, col suo mistero, la sua vastità, la realtà stupefacente della sua vita recondita» (40). Una effettiva, e quindi totale, comunicazione fra gli umani è di fatto impossibile. La verità, il significato, la penetrante essenza di un attimo qualunque della vita, non si può trasmettere ad alcuno: «Si vive come si sogna: perfettamente soli» (42). Il silenzio senza traccia delle primordiali età dell’uomo è destinato a richiudersi su qualunque creazione, orma, documento, memoria come l’oceano sul capo di chi annega. Il viaggio verso la tenebra è quindi l’inoltrarsi «nella notte di età che scomparvero lasciando appena qualche traccia, e nessuna memoria» (56).

Ma c’è di più, assai di più, al di là del rimpianto per la propria caducità. Hearth of Darkness è l’orrore dell’umano, l’umano come orrore. È questa la mortale sapienza alla quale infine Kurtz arriva. Il male dentro di sé, il male in ognuno che desidera, la tenebra della specie più luminosa, il dionisiaco dell’apollineo. La straordinaria eloquenza di Kurtz, i suoi pensieri reconditi, i sentimenti e le sconfinate sue passioni sono sempre e soltanto allusi e mai vengono detti. A esprimere la tenebra c’è solo qualche brandello di disincantata sapienza: la bizzarria della vita e il dominio su di essa del dolore, la ferocia della storia, l’incerta e terribile conoscenza di se stessi, la messe di inestinguibili rimpianti. Solo nell’ultima prova della sua misteriosa eloquenza Kurtz esprime qualcosa di semplice, qualcosa di definitivo. Il suo «sguardo fisso […] era vasto abbastanza da abbracciare tutto l’universo, abbastanza acuto per penetrare in tutti i cuori che battono nella tenebra. Egli aveva tirato le somme -e aveva giudicato, “Quale orrore!”» (112) («his stare […] was wide enough to embrace the whole universe, piercing enough to penetrate all the hearts that beat in the darkness. He had summed up -he had judged. “The horror!”»).
Quest’ultimo grido si riverbera sùbito sul quotidiano, a scanso di ogni esotismo: «Mi ritrovai di nuovo in quella città sepolcrale, irritato alla vista di gente che correva per le strade a rubarsi a vicenda qualche poco di denaro, a divorare quella sua infame cucina, a ingoiare la sua birra impossibile, a sognar i suoi sogni insignificanti e balordi» (113). Un’altra condanna gnostica si è abbattuta sull’umano e ha creato un racconto a volte forse ripetitivo, che continuamente insiste su quella parola Darkness, ma che -cosa davvero unica- dà la sensazione di sfiorare l’eterno: «Risalire lungo quel fiume era come viaggiare all’indietro nel tempo verso i più remoti primordi del mondo, quando la vegetazione tumultuava sulla terra, ed alberi immensi stavano come imperatori» (52).

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