Skip to content


La libertà e i suoi nemici

In nome dell’epidemia da Sars2, dell’ossessione sanitaria e securitaria, delle lusinghe e delle minacce che le autorità rivolgono al corpo collettivo, «vegetare sta diventando lʼimperativo categorico del Terzo millennio» (Marco Tarchi, Diorama Letterario, n. 358, novembre-dicembre 2020, p. 2). Vegetare non soltanto nel senso di trascinare stancamente il proprio tempo da un ‘seminario online’ (webinar) all’altro, da un ‘abbraccio a distanza’ all’altro, da una sessione di digital labour all’altra, ma anche nel seguire il flusso di una suscettibilità generale per la quale alcune parole non possono essere pronunciate ed è obbligatorio, invece, indignarsi per i fatti sui quali si indignano la stampa, la televisione, i Social Network.
Come in quell’Oceania realizzata che era il sistema sovietico, si delineano due livelli e luoghi diversi del discorso: il linguaggio pubblico che segue i dogmi del Politically Correct (pena come minimo l’ostracismo) e quello privato nel quale a pochi amici di fiducia si parla a partire da ciò che davvero si pensa. Autocensura, insomma, vale a dire uno dei segni più evidenti della mancanza di libertà, come ben sapeva Rosa Luxemburg, per la quale una vera autonomia è sempre «die Freiheit der Andersdenkendend», libertà di pensare in un altro modo rispetto a quello della maggioranza. A schiacciare questa libertà sta provvedendo «una società opaca ed inesorabile, che sottopone tutti ad un controllo totale della propria esistenza. […] Al posto del Grande Fratello del romanzo di Orwell, 1984, sembra esserci, anche e soprattuto nella mentalità, un impersonale termitaio, in cui la singola termite non ubbidisce  a un capo supremo, ma fa quello che deve e non può, né sa né vuole fare altro» (Claudio Magris, Corriere della Sera, 4.8.2020).
Un termitaio paradossale, fatto di individui atomizzati, distanziati, soli, «a un metro di distanza dalla vita» come ha scritto D. Un termitaio nel quale l’identità è dissolta nella differenza individualistica e le differenze sono dissolte in un’identità universale -l’Umanità– che non è mai esistita perché ogni essere umano viene al mondo da due ben precisi genitori, in uno specifico luogo, in un tempo dato, in un contesto culturale/antropico che ha i suoi paesaggi, lingua, vicende, modi di vivere, credenze, simboli. Le «Weapons of Mass Migration», ‘armi di migrazione di massa’ delle quali parla la politologa Kelly Greenhill sono rivolte alla deflagrazione dell’identità/differenza in un indistinto termitaio, appunto
In questo termitaio possono entrare in conflitto l’idea e le pratiche della presunta sacralità della persona da un lato e i diritti di ogni individuo a ottenere ciò che desidera dall’altro; tanto da creare un cortocircuito come quello ricordato da Michel Onfray nel suo Teoria della dittatura, a proposito della «donna del Nebraska», la quale «a sessantuno anni ha messo al mondo una bambina concepita con lo sperma del proprio figlio e l’ovulo della sorella della moglie di quest’ultimo» (Archimede Callaioli, DL, cit., p. 29). Per chi crede che la generazione di un essere umano abbia lo stesso significato biologico e ontologico della generazione di una rana, di un gabbiano, di un gattino, tutto questo può anche costituire una banale conferma del fatto che i viventi vengono concepiti dall’unione di sperma maschile e ovulo femminile e non hanno alcun particolare pregio. Ma per gli altri? Per chi, appunto, crede che l’umano abbia un valore e un significato del tutto diversi? È o no un diritto diventare genitori (se proprio lo si vuole a tutti i costi) anche attingendo a pratiche come quelle esemplate dalla donna del Nebraska? Naief Yehya ha mostrato che per quanto possano all’inizio apparire bioeticamente inaccettabili, pratiche come quella descritta vengono poi lentamente ma inesorabilmente accolte, soprattutto se hanno il sostegno di potenti centri di ricerca, mediante «un’accettazione graduale ma convinta» (Homo cyborg. Il corpo umano tra realtà e fantascienza, elèuthera 2004, pp. 104 e sgg.).
Un termitaio che non tollera l’emergere di intelligenze profonde e non omologate. Quando esse si affermano universalmente, si scatena un impressionante apparato di diffamazione. È il caso di Martin Heidegger, ogni parola del quale – pubblica o privata, metafisica o rettorale – viene dissezionata al microscopio della malignità.
Diversamente invece ci si comporta con altri. Due soli esempi.
Günter Grass (1927-2015) definì Heidegger «cagnaccio presocratico nazista», salvo poi confessare di aver militato nelle «Waffen-SS, come volontario e non coscritto […] ‘Il motivo fu – racconta lo scrittore – comune per quelli della mia generazione, un modo per girare l’angolo e voltare le spalle ai genitori’» (Günter Grass, voce Wikipedia). E quindi questo integerrimo accusatore non soltanto di Heidegger ma di numerosi altri scrittori tedeschi, giustifica la sua adesione alle SS come un modo per ribellarsi ai genitori :-)). Grass è stato difeso dai suoi amici con la motivazione per la quale «il suo passato non avrebbe dovuto compromettere il giudizio sulle sue opere» (Ibidem), motivazione che si tende a non far valere quando l’accusato è Heidegger.
L’altro esempio riguarda Concetto Marchesi (1878-1957), eccellente latinista, maestro di scienza classica, intellettuale organico al PCI di Togliatti, il quale però non soltanto giurò fedeltà al fascismo ma divenne anche, sotto il regime mussoliniano, Accademico dei Lincei, Accademico d’Italia, Rettore dell’Università di Padova. In quest’ultima veste il 9 novembre 1943 tenne un «Discorso di Rettorato» rispetto al quale quello di Heidegger impallidisce, tanto il discorso di Marchesi è intriso di patriottismo e cesarismo (Michele Del Vecchio, DL, cit., pp. 39-40). Discorso che infatti venne applaudito e accolto con entusiasmo dai gerarchi fascisti. Ma a guerra finita Marchesi divenne un intransigente censore dei suoi colleghi e quasi nessuno gli rimproverò nulla.
Questo è il coacervo di contraddizioni, di conformismo e soprattutto di profonda miseria che accomuna molti degli accusatori di Heidegger. Ai quali va però riconosciuto il merito di confermarci nell’onore di  conoscere, leggere e studiare questo filosofo.

«Che cosa può il corpo»

Riprendo qui una mia riflessione che è stata pubblicata qualche giorno fa nella sezione corpi e libertà del sito che una comunità di studiosi ha creato allo scopo di elaborare e raccogliere materiali e analisi libere dal soffocante conformismo, dall’ignoranza, dalla strumentalizzazione dominanti.
Il titolo che ho scelto per questa segnalazione fa riferimento a un brano dell’Ethica di Spinoza: «Verum ego jam ostendi, ipsos nescire, quid Corpus possit, quidve ex sola ipsius naturæ contemplatione possit deduci»
(‘Ma io ho già mostrato che essi non sanno che cosa può il corpo, o che cosa si può dedurre dalla sola considerazione della sua natura’; Parte III, prop. 2, scolio, in Tutte le opere, trad. di G. Durante rivista da A. Sangiacomo, Bompiani 2011, p. 1322)

Segnalo anche due tra gli ormai numerosi articoli del sito corpi e politica:
-i rigorosi, documentati e vivaci Appunti sulla teledidattica di Monica Centanni, nei quali la questione dell’apprendimento è giustamente legata alla centralità del tempo; da qui «il primo nostro impegno in questo periodo è prendere in mano il filo del tempo. Infatti un agente ansiogeno che rende ancor più difficile la condizione che stiamo vivendo è la sensazione di essere in balia di cabale numerologiche che stanno scarnificando le nostre vite, usurando le nostre giornate»;
-l’intervento di Peppe Nanni a proposito di una ambigua, pericolosa e significativa circolare del Ministro degli Interni: Il diavolo sta nel dettaglio. “Focolai di estremismo”: la lingua biforcuta del Ministero degli Interni.
Questo il mio testo:
===========
Il virus passerà. Non passerà la paranoia del potere
In corpi e politica (11.4.2020)

Sappiamo tutti e molto bene che la questione non è soltanto di tipo sanitario ma anche di natura sociale, politica, culturale. Quello che sta accadendo è molto pericoloso perché si sta ridisegnando lo statuto dei corpi, di che cosa – spinozianamente – sia un corpo, che cosa può fare, che cosa non può fare, che cosa deve fare.

La notizia che ho letto ieri sera su Televideo è tanto consequenziale quanto pericolosa: «Google e Apple collaborano per un progetto di tracciamento del contagio del Coronavirus che può aiutare i governi. Lo annunciano insieme i due colossi. A maggio renderanno disponibili strumenti per gli sviluppatori che stanno progettando le App per le istituzioni mondiali e che consentiranno il dialogo e “l’interoperabilità tra i dispositivi Android e iOS”. E “nei prossimi mesi” sarà disponibile una piattaforma di “contact tracing” basata sul Bluetooth dando “massima importanza a privacy, trasparenza e consenso” degli utenti».

Non sarà temporaneo, non sarà mirato. È uno dei più pericolosi cavalli di troia che il virus offre al controllo generale. Aveva ragione La Boétie: gli umani sono pronti alla «servitù volontaria». Molti che conosco lo stanno confermando. È su questo soprattutto che vorrei riflettere insieme a voi. ‘Molti’ non significa i disinformati, gli indifferenti, i conformisti. ‘Molti’ significa persone, amici, familiari, colleghi che sino a questa circostanza ritenevo critici verso l’esistente e che invece mi accorgo con relativo stupore che sono immersi dentro un paradigma di obbedienza e acriticità che mi sembra nascere fondamentalmente da due ragioni:
– il panico per i rischi alla propria salute;
– il fatto che guardano la televisione.

Forse è una vecchia, ma ogni volta confermata, convinzione. Da vent’anni circa non possiedo un televisore, quando ho occasione di vederne acceso uno mi annoio anche per pochi minuti e rimango sbalordito dal livello di volgarità e di menzogna del mezzo televisivo, livello del quale credo possa accorgersi soltanto chi non guarda per mesi la televisione (evitando così il processo di mitridatizzazione). Sappiamo tutti, invece, che questo è lo strumento principe e spesso esclusivo dell’informazione per milioni di persone, per quelle persone che girano video dai loro balconi, chiamano vigili e polizia, urlano a chi cammina per le strade.

La visionarietà di Guy Debord viene ai miei occhi sempre confermata. Ciò che appare in televisione non solo esiste più di ciò che non appare ma è anche il bene per definizione, ciò che viene detto in televisione non solo è più verosimile ma diventa vero. Il monopolio dell’apparire è il monopolio dell’essere e del valore: «Le spectacle est le mauvaise rêve de la société moderne enchaîné, qui n’exprime finalement que son désir de dormir» [Lo spettacolo è il brutto sogno della moderna società di schiavi, che esprime solo il suo desiderio di dormire]  (La Société du Spectacle, Gallimard 1992, § 21, pp. 24-25). I clienti dello spettacolo televisivo desiderano assopirsi da questo incubo sino a che la stessa televisione non li risvegli; oppure ne vengono esaltati nel loro desiderio di (auto)controllo sino a che la televisione continua ad aizzarli.

Un mio allievo mi ha riferito quanto accade in un paesino della provincia di Catania:
«Tre episodi mi hanno particolarmente disgustato:
1) i miei concittadini si sono organizzati in gruppi Facebook e chat Whatsapp in cui si segnalavano nominativi e foto di presunti contagiati, così da poterli evitare e denunciare in caso di eventuali infrazioni (il tutto con un avvocato che diceva loro ‘tranquilli non è reato di diffamazione, si può fare perché si è giustificati dal pericolo imminente per gli altri e per la salute pubblica!’);
2) il Comune che blocca o elimina qualunque commento critico al proprio operato e coordina polizia municipale e carabinieri in ronde e posti di blocco continui in giro per il paese, anziché approvvigionare beni necessari e organizzare raccolte/distribuzioni dei beni stessi o sollecitare la Regione a potenziare il presidio ospedaliero locale (abbiamo una struttura disponibile a essere facilmente trasformata in un piccola terapia intensiva – ci sono pure gli allacci per l’ossigeno in tutte le stanze! – ma che viene utilizzata solo come Pronto Soccorso ormai da dieci anni);
3) mia madre e mio nonno fermati, sgridati come fossero avanzi di galera e minacciati dai carabinieri di multe e pesanti provvedimenti (inutile spiegare alle guardie che le norme previste dai decreti ‘Io resto a casa’ garantiscono il diritto a poter prendersi cura dei genitori anziani non-autosufficienti, quindi a uno e uno solo dei figli di andare giornalmente presso il loro domicilio per poter prestare assistenza)».

Quella che ci può sembrare una metamorfosi del corpo collettivo è probabilmente soltanto una conferma. Perché è una metamorfosi non limitata a un periodo di emergenza ma destinata a permanere poiché in società complesse come le nostre tutti i provvedimenti di controllo una volta decretati rimangono. Un esempio che abbiamo tutti presente: quanti anni sono passati dall’11.9.2001? 19 anni. Ma il provvedimento di controllo occhiuto, grottesco e inutile (per tante ragioni) al metal detector degli aeroporti non è stato abolito. C’era anche prima, certo, ma assai più blando. Un provvedimento di emergenza per combattere il «terrorismo» è rimasto a diffondere un sottile ma costante sentimento di terrore.

Il virus passerà ma non passeranno le pratiche, le abitudini, le leggi, i controlli universali – tramite cellulari e droni – che il virus sta favorendo. E non passerà l’orgia di autorità che il potente di turno, piccolo (sindaco) o grande (ministro) che sia sfoggia nel decretare ogni giorno qualche divieto. La paranoia del potente, così ben descritta da Elias Canetti, si dispiega in modo mirabile davanti ai nostri occhi.

E questo senza complotti, segreti, volontà occulte ed elitarie. Questa è da sempre la pratica del potere, che società tecnologiche favoriscono però in modo esponenziale. È il momento e l’occasione alla quale da sempre aspiravano. Porsi sopra la legge, diventare essi stessi la legge. Sentirsi nelle mani la vita e la morte di milioni di sudditi. Decretare ogni giorno nuovi divieti, pene, sanzioni, delazioni, cellulari spia, droni, a partire da Conte e i suoi ministri giù giù fino a scatenati incatenatori come i De Luca messinese e campano, come l’impresario di pompe funebri Fontana, come il musumecinonabbassiamolaguardia di Palermo. Tutti a imporre mascherine che non ci sono o, se ci sono, senza sapere se risultino davvero utili o invece dannose. Per i governatori analfabeti -e i loro sostenitori nell’informazione- esiste solo LA mascherina. Ma sono essi, questi paranoici canettiani, una maschera penosa della vita, la caricatura dell’autorità, il dominio dell’ignoranza. Carne televisiva. Lo racconteranno ai loro nipoti: «ci fu un tempo in cui la mia parola era legge per milioni di persone».
============

Aggiungo infine la breve cronaca di una mia passeggiata di ieri:
Nella solitudine della luce ho attraversato Catania mai così splendida, così silenziosa, così oltre la storia che pure è stata. Lasciate le mura del Teatro Romano e dell’Odeon sono arrivato attraverso vicoli al Castello Ursino, alla sua imponente armonia, al suo grigio ferito e guarito dai raggi di un Sole ancora amico. Altri vicoli hanno aperto i miei passi verso la pescheria –ho pensato: ‘almeno i pesci vengono lasciati un poco in pace in questi giorni’–, dalla quale sono arrivato dietro piazza Università, proseguendo verso le strade perpendicolari a via Crociferi. Da lì a piazza Dante, dove ho visto tre studentesse senza ‘mascherina’ passeggiare infrangendo ogni prescritta distanza. Una forma di vita umana nel grande camposanto al quale abbiamo ridotto non la città ma i nostri corpi. Il giardino di via Biblioteca sembrava chiuso ma è stato sufficiente spingere i cancelli per ritrovarmi in una strada che da molti anni percorro tranquillamente tutti i giorni e che ho gustato respirando terra e luce. Ho percorso questa città, e i suoi luoghi di antico amore, in compagnia della musica che ho selezionato negli anni come un botanico crea i fiori più lucenti del suo prato. Io non resto a casa, no.

Zombi

 

manifesto_23-12-2016

Quella umanità condannata a una perenne non vita virtuale
il manifesto
23 dicembre 2016
pag. 11
Pdf dell’articolo

Gli zombi sono il modello al quale il Capitale vorrebbe ridurre ogni proletario e -alla fine- l’intera umanità; gli zombi sono i sempre connessi a facebook, i teledipendenti, tutti i soggetti che si muovono verso la non vita virtuale; gli zombi sono tristi metafore dell’omologazione e del conformismo.

 

 

Conformismo

A Giordano Bruno, 17 febbraio 1600

Uno dei padri dell’anarchismo, Pierre-Joseph Proudhon, riteneva che quanti parlano di umanità nascondano in realtà un inganno. Carl Schmitt riprese tale affermazione scrivendo che «Wer Menschheit sagt, will betrügen» poiché «l’umanità è uno strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche ed è, nella sua forma etico-umanitaria, un veicolo specifico dell’imperialismo economico» (Le categorie del “politico”, Il Mulino, 1998, p. 139).
Nel XXI secolo umanità è diventato anche e soprattutto uno strumento del conformismo più pervasivo e più cupo. Chi non condivide l’ideologia liberale dei ‘diritti umani’ è additato al disprezzo. Poiché tale ideologia si manifesta ed esprime in forme numerose e diverse, essa induce a una omologazione interiore che è la condizione fondante ogni dittatura del pensiero e della prassi.
Essa si manifesta nei veri e propri insulti rivolti al populismo, vale a dire a una posizione politica legittima come molte altre. Nei suoi confronti si agitano spettri, si minacciano guerre civili, si terrorizza il corpo sociale. Ha quindi ragione Marco Tarchi a rilevare che «non c’è ormai più alcuna ragione di dubitarne: oggi sono i nemici del populismo i veri imprenditori della paura, i censori del pensiero, gli istigatori del linciaggio morale degli avversari. Battersi per sconfiggere i loro progetti, quali che siano le riserve critiche che si possono legittimamente nutrire nei confronti di questi nuovi bersagli dell’intolleranza ideologica è oggi la migliore prova dell’amore per la libertà intellettuale che sia possibile offrire» (Diorama Letterario,  327, settembre-ottobre 2015, p. 3; le successive citazioni sono tratte dallo stesso numero di DL).
Il conformismo si esprime soprattutto come dittatura del politicamente corretto, produttrice di tabù, di penose mode linguistiche, dell’illusione che basti imporre delle formule verbali per mutare la realtà. «Il politicamente corretto è l’erede diretto dell’Inquisizione, che si prefiggeva di lottare contro l’eresia individuando i cattivi pensieri. L’ideologia dominante è anch’essa un’ortodossia, che considera eretici tutti i modi di pensare dissidenti. E poiché non ha più gli strumenti per confutare i pensieri che la infastidiscono, cerca di delegittimarli -dichiarandoli non falsi ma cattivi» (Alain de Benoist, p. 5). Si giunge a chiedere la galera non per dei ladri, degli assassini, dei corrotti, dei truffatori ma per coloro che non condividono le idee dominanti in alcuni ambiti della vita collettiva ritenuti di fatto sacri e incontestabili, anche se hanno a che fare semplicemente con gli eventi storici, con le scelte sessuali, con le opzioni etiche. «Lo scopo è molto semplice e non ha [ad esempio] niente a che vedere con il volere difendere i diritti individuali di omosessuali, transessuali e altri: si tratta di un passo avanti verso l’omologazione assoluta e irreversibile del pensiero unico e allineato, in cui pochi decidono come debbano pensare tutti, pena la galera» (E. Zarelli, p. 33).
Il politically correct è tra le meno percepite ma tra le più profonde forme di colonizzazione dell’immaginario collettivo provenienti dagli Stati Uniti d’America, Paese nel quale la violenza fisica dilaga ma in cui non vengono tollerate parole che siano di disturbo a un rispetto ipocrita e formale. Sino al grottesco di voler emendare e modificare le favole nelle quali i lupi appaiono cattivi (è anche da convinto animalista che respingo simili idiozie). Gli USA sono un Paese che ciancia di diritti, di eguaglianza, di democrazia e dove le diseguaglianze economiche sono fortissime, dove la politica estera è semplicemente feroce. Il gorgo siriano che ha dato origine all’Isis è in questo senso emblematico. «La barbarie islamista di Daesh ci minaccia, mentre il regime di Bashar al-Assad non ci ha mai minacciati. Contro la prima, bisogna quindi sostenere il secondo»; «Per quale ragione ci stiamo accanendo nel rifiutare un qualunque tipo di collaborazione con la Siria e l’Iran, che combattono l’Isis con le armi in pugno, e continuiamo nel frattempo a fare la corte alle dittature petrolifere del Golfo, che sostengono direttamente o indirettamente i jihadisti?» (de Benoist, 6 e 11).
Contro l’eguaglianza degli zombi, contro la giustizia del più forte, contro la sconfinata ipocrisia del potere e delle sue forme politicamente corrette, va ricordato che «non è la prossimità a rendere popolari; sono l’altezza e la grandezza» (Id., 4). Parole che certamente stridono con lo spirito del tempo. Ma parole vere.

Vai alla barra degli strumenti