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Svizzera

Al centro dell’Europa. Lontano dal mare ma pronta a raggiungerlo verso il sud dell’Italia e verso il Nord della Francia/Germania. Disegnata da confini naturali sui quali ha costruito la propria identità, a conferma che i confini esistono, al di là di tutte le astrattezze no borders e analoghe spinte verso un’identità che tende a uccidere le differenze. Confini che per la Svizzera sono molto evidenti nel caso della catena alpina su tutto il versante meridionale e altrettanto netti tramite i molti laghi e le valli che essa condivide con i Paesi confinanti: Italia, Austria, Germania, Francia (e Lichtenstein).
Confini e identità/differenza già delineati in epoca romana, poi inglobati in gran parte nel Sacro Romano Impero e infine sempre più marcati a partire dai due momenti chiave che hanno generato la Svizzera: la pace di Noyon del 1516 con la quale questo territorio e le sue città dichiarano la propria neutralità rispetto alla guerre tra Stati e dinastie, fermando in questo modo la propria stessa espansione. Da allora la politica comune dei cantoni svizzeri venne stabilita da una Dieta che di solito prendeva (e prende) all’unanimità le sue decisioni. Subito dopo ebbe inizio la Riforma che nella Confederazione elvetica trovò ampio seguito sino a fare di Ginevra una teocrazia calvinista.
L’altra data fondamentale è quella del Congresso di Vienna, 1815, che stabilì la perpetua neutralità della Svizzera e in seguito al quale entrano definitivamente nella Confederazione il Vallese, Ginevra e Neuchâtel, delineando sostanzialmente gli attuali confini.
La neutralità sarà ribadita in due altre occasioni: la fondamentale pace di Vestfalia del 1648 e la Seconda guerra mondiale. Persino l’adesione all’ONU, che pure a Ginevra ha la sua sede europea, è assai recente, nel 2002, così come la nuova Costituzione del 1999 «amplia le garanzie per i profughi ma ne limita la durata di accoglienza» (Aa. Vv., Svizzera, Touring Club Italiano, 2019, p. 38), smentendo il luogo comune di una Svizzera che accoglie per principio indiscriminatamente, cosa che non è mai accaduta e mai potrà accadere, pena la dissoluzione del delicato equilibrio sul quale politica, società e religione elvetiche si reggono.
Anche per queste scelte politiche, per i suoi confini naturali, per l’etica calvinista, la Svizzera è oggi «tra i paesi più ricchi e più solidi del mondo, nonostante la conformazione del territorio, poco adatto all’agricoltura, e la mancanza di risorse minerarie. La sua prosperità deriva soprattutto dalle scelte politiche: la neutralità l’ha resa una nazione stabile e finanziariamente sicura» (Ivi, p. 31). E anche per questo è uno dei luoghi più lindi e più corrotti del pianeta.

Al centro dell’Europa, dunque, della quale la Svizzera è una sintesi. Anche per questo va centellinata, gustata come un vino di qualità con le sue città gotiche, rinascimentali, barocche, neoclassiche, contemporanee; con le sue montagne ovunque; con i suoi magnifici laghi.
In tempi diversi ho visitato prima la Svizzera italiana, con una Lugano adagiata sul suo lago e fatta di viuzze antiche; con Bellinzona e il suo castello a dominare valle, case, cielo.
Poi ho incontrato Nietzsche nel Cantone dei Grigioni a Sils-Maria, dove si trova la casa (ora museo) nella quale il filosofo trascorse le sue estati dal 1881 al 1888 e sulle rive del cui lago – di Silvaplana – concepì la filosofia di Zarathustra. Dei Grigioni è celebre Sankt Moritz. Dopo averla visitata anni fa in estate, e averla vista dunque nel pieno del suo verde, ho rivisto  lo scorso dicembre la linda (e costosissima) località mondana immersa in un bianco totale, con il suo piccolo lago ghiacciato e il suo paesaggio alpino interamente innevato.

Sankt-Moritz. Museum Engiadinais

Ho anche visitato la Schiefer Turm, una torre pendente che è quanto rimane di una chiesa antica; la chiesa protestante del 1787, adibita in gran parte a sala da concerti; il Museum Engiadinais, una ricca dimora che racconta con il calore del legno di pino e l’onnipresenza delle stufe in ceramica i modi di vivere, nutrirsi, dormire delle comunità dell’Engadina.

Ginevra. Il lago con il Jet d’eau

Un Cantone e una città che della Svizzera rappresenta una sintesi è Ginevra/Genéve, che ho visitato negli ultimi giorni del 2023. Dal lago sul quale venne edificato il nucleo conquistato da Cesare, si alza dal 1891 il Jet d’eau, una potente torre d’acqua che raggiunge i 140 metri e che è visibile da tutta la città. Ginevra si estende in ampi boulevards che sulla rive gauche del Rodano diventano il nucleo medioevale nel quale (al numero 40 della Grand-Rue) il 28 giugno 1712 nacque Jean-Jacques Rousseau. Un tessuto di viuzze medioevali-settecentesche conduce da questa strada alla Cattedrale di St-Pierre.

Ginevra. Cattedrale di St.Pierre

L’antica chiesa gotico-cattolica divenne il tempio della città stato teocratica governata da Giovanni Calvino. L’edificio è da allora spoglio di qualunque immagine, icona, statua. E questo lascia trasparire la bellezza e armonia della sua architettura. Anche l’abside è vuota. Un tavolo ovale in cima alla navata principale ospita un leggio con una copia aperta della Bibbia. Lì accanto si trova la sedia sulla quale Calvino interpretava il testo sacro e consolidava la riforma luterana.

Ginevra. Cattedra di Calvino

Il cattolicesimo è sparito da Ginevra, sostituito anche oggi da numerosi ‘templi’ delle tante chiese protestanti, non solo calviniste, che ho trovato tutte rigorosamente chiuse, con avvisi relativi ai momenti di lettura biblica non più frequenti di una volta alla settimana, con i nomi e a volte le foto di sorridenti signore bionde, alcune vestite con paramenti sacri, che sono le parroche e le arcivescove delle diverse sette. Luoghi architettonicamente miseri e, appunto, sempre chiusi.
Se Nietzsche ebbe ragione ad accusare «il monaco fatale», Lutero, di aver fatto risorgere in Europa il cristianesimo che stava morendo nella potente, ricca, corrotta Roma dei papi, l’eterogenesi dei fini ha tuttavia condotto, certamente a Ginevra e ovunque nell’Europa protestante, al tramonto della fede cristiana. Nel loro fanatismo biblico, infatti, Lutero, Calvino e gli altri padri della Riforma (raffigurati in forme grandiose nel Monument de la Réformation – il cui motto è «Post tenebras Lux» – che costeggia la promenades des Bastions [immagine di apertura]) pensavano che affrancati dalle ‘distrazioni’ artistiche e dai sacramenti, i cristiani potessero rivolgere tutta la loro cura alla fede che lo Spirito Santo avrebbe soffiato nelle loro interiorità. Ma un simile ascetismo capace di fare a meno dei simboli, delle icone, dei santi, delle statue, delle immagini, può valere soltanto per i filosofi, per gli studiosi, per coloro che sono ricchi di una vita interiore. La più parte degli esseri umani, e dunque dei fedeli cristiani, ha bisogno invece di immagini alle quali rivolgersi, di statue della Madonna da invocare come le antiche divinità mediterranee, di icone da venerare e davanti alle quali piangere (come accade durante le grandi feste cattolico-pagane). Se privata di tutto questo, la fede cristiana muore. E infatti a Ginevra è morta.
Dal lato opposto rispetto al Monumento alla Riforma si trova la sede centrale dell’Università ginevrina. Ho visitato la Biblioteca, aperta anche durante le feste dalle 10 alle 22, a scaffali aperti, linda e accogliente.
Tornando al luogo/cattedrale, sotto il tempio si estende una zona archeologica molto vasta che documenta il progressivo formarsi della città, mentre sopra il tempio una vorticosa salita di centinaia di gradini conduce alle due torri, dalle quali si apre il magnifico panorama sull’intera Ginevra,tra i cui musei ho visitato naturalmente il Patek Philippe Museum, un luogo che conserva migliaia di orologi fabbricati dal Settecento a oggi, molti dei quali di un’impressionante bellezza . Qui ne mostro soltanto due, il primo raffigura il dio del tempo [a sinistra], il secondo è uno dei più complessi orologi fabbricati a mano, un vero e proprio osservatorio astronomico in miniatura [a destra].

 

 

 

 

 

 

Ho poi visitato il Musée d’Art et d’Histoire che ospita opere dal Paleolitico al Novecento. La sezione più interessante è quella archeologica con opere provenienti dall’antico Egitto, dalla Grecia cicladica e classica, dall’epoca romana. Qui sotto tre teste di divinità: Ade, Serapide e Asclepio .
Il Musée d’Etnographie è stato rinnovato nel 2014 e da allora la sua sede è un edificio che ha la forma di una capanna di vetro e cemento aperta alla luce. Al suo interno si trovano alcune testimonianze di cultura materiale veramente uniche, provenienti da tutti i Continenti e che nel loro splendore estetico e simbolico confermano ancora una volta come le società umane e i loro membri abbiano bisogno di toccare il sacro per cercare di dare un significato cosmico alle loro vite, un significato che le affranchi da ciò che Hegel chiamava  il  «travaglio del negativo» e la «furia del dissolvimento».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Saggezza antropologica che ancora una volta il protestantesimo ignora, facendo di Ginevra una città calvinista, antropologicamente fredda, elegante e distante.

Il treno che mi ha riportato a Milano alla stazione di confine di Brig/Brigue/Briga (subito prima della galleria del Sempione) si è riempito di centinaia di persone raccolte in tribù familiari che sono salite senza aver prenotato il posto e con bagagli da trasferta definitiva. Né prima né dopo questa fermata ho visto un solo controllore chiedere passaporto o carta d’identità (la Svizzera formalmente non appartiene all’Unione Europea) e neppure il biglietto. Nessun controllo di alcun genere in un treno (svizzero!) ridotto a un vagone merci. Contrariamente a quanto la propaganda globalista e universalista dei telegiornali (italiani ma non solo) va raccontando in modo ossessivo e fasullo, basta viaggiare un poco per capire come sia sufficiente arrivare in qualunque modo sul territorio europeo per transitare senza particolari difficoltà in tutto il Continente. L’Europa è diventata terra di nessuno anche perché è diventata una colonia culturale e politica. Le sue città, compresa Ginevra, conservano ancora le testimonianze della storia d’Europa, mentre la sua popolazione va diventando inesorabilmente asiatica, sudamericana, africana (anche a Ginevra).
Una civiltà che non sa e non vuole più difendersi merita di dissolversi. La storia d’Europa è tuttavia intrisa di pensiero e colma di bellezza, come anche la Svizzera ancora testimonia.

Ginevra. Notturno da un ponte sul Rodano

[Le foto sono state scattate da me; cliccando su ciascuna di esse l’immagine si aprirà nella sua dimensione originale]

Terre / Popoli / Confini

Australia. Storie dagli antipodi
Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Eugenio Viola
Artisti in mostra: Vernon Ah Kee, Tony Albert, Khadim Ali, Brook Andrew, Richard Bell, Daniel Boyd, Maria Fernanda Cardoso, Barbara Cleveland, Destiny Deacon, Hayden Fowler, Marco Fusinato, Agatha Gothe-Snape, Julie Gough, Fiona Hall, Dale Harding, Nicholas Mangan, Angelica Mesiti, Archie Moore, Callum Morton, Tom Nicholson (with Greg Lehman), Jill Orr, Mike Parr, Patricia Piccinini, Stuart Ringholt, Khaled Sabsabi, Yhonnie Scarce, Soda_Jerk, Dr Christian Thompson AO, James Tylor, Judy Watson, Jason Wing and Nyapanyapa Yunupingu.
Sino al 9 febbraio 2020

Nel 1770 il capitano inglese James Cook toccò le coste dell’Australia e ripetè il gesto del suo collega italiano Cristoforo Colombo, prendendo possesso in nome dei propri sovrani di una terra che era di altri ma che venne definita vuota, disabitata. Gli umani che la abitavano non contavano evidentemente nulla. La violenza contro i veri australiani –veri nel senso semplice ma fondamentale che abitavano quella terra da molto tempo prima che arrivassero gli occidentali– appare assai chiara nell’opera forse più politica di questa mostra: Salvado de Que? (2019) di Archie Moore. Si tratta di una grande bandiera verticale di colore blu, lo stesso colore della bandiera australiana, sopra la quale c’è scritto Salvado. Ai piedi della bandiera ci sono tracce di sangue. Il sangue dei popoli aborigeni che dal 1910 al 1970 videro molti dei propri figli sottratti ai genitori per essere educati al modo occidentale e nella fede cristiana. L’immagine qui sopra è invece di Khadim Ali (Untitled 2, dalla serie Fragmented Memories, 2017-2018) e costituisce un complesso tentativo di sintetizzare il passato e il presente dell’Australia, fatti anche di genocidi degli antichi abitatori.
Quando nessuno sarà più così buono e così filantropo da dedicarsi in questo modo alla salvezza degli altri  popoli, ad esempio con guerre democratiche e umanitarie, il rispetto e la libertà saranno meglio garantiti nelle vicende umane.
Quando nessuno sarà più così buono e così globalista da ignorare il fatto che Homo sapiens è un animale tanto nomade quanto fortemente territoriale, allora popoli e comunità eviteranno di farsi massacrare, sottomettere o sostituire come accadde agli accoglienti popoli centro americani con gli spagnoli, agli aborigeni australiani  con i britannici (i Native [2019] dell’immagine-parola di Tony Albert) e come può accadere all’Europa stoltamente ingenua del XXI secolo.
Ask us what we want, still (2019) di Jason Wing denuncia giustamente il furto di terra perpetrato da Cook, perché la terra, le proprietà, i confini, prima di essere delle astrazioni ideologiche costituiscono delle realtà antropiche. Chi non ne tiene conto è -appunto– o un ‘crook’, un criminale, o una vittima dei criminali. Per inciso, le attuali politiche sull’emigrazione della nazione australiana sono tra le più dure e severe al mondo: in pratica la quasi totalità di coloro che cercano di entrare illegalmente in Australia viene respinta e rimandata da dove è venuta. Per usare il linguaggio degli europei accoglienti, si tratta di un Paese dai tratti ‘fascisti’. E tuttavia i nostri bravi democratici non ne fanno parola. Forse perché quando è così lontano il ‘fascismo’ si scolora?
Insieme a quelle di Moore e Wing, il PAC ospita le opere di altri 30 artisti australiani contemporanei, dando la possibilità di conoscere la varietà e la ricchezza della cultura figurativa di quel Paese-Continente. Opere che si possono descrivere come un tentativo di tenere distinti ponendoli in dialogo tra loro concetti come paesaggio/artificio, autoctono/esterno, digitale/materico (ad esempio i power point di Agatha Gothe-Snape e gli scheletri costruiti con il vetro di Fiona Hall), corporeo/astratto (da una parte il corpo di Jill Orr che si mescola letteralmente e profondamente con la terra, gli alberi, gli elementi e dall’altra parte i segni arcaici di James Tylor).

Sullo sfondo, la coppia fondamentale costituita da natura/cultura, la cui esemplificazione più interessante sono i video e le fotografie di Maria Fernanda Cardoso –On the Origins of Art I-II (2016)-che documentano alcuni momenti della vita di un piccolo ragno australiano, Maratus (qui sopra). L’esistenza di questo animale è ragione sufficiente per mettere in discussione una delle tante convinzioni antropocentriche, quella che anche Karl Marx espresse nella sua nota affermazione secondo la quale «il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera» (Il Capitale, libro I, sezione III, primo capitolo ‘Processo lavorativo e processo di valorizzazione’). E invece le immagini di Cardoso mostrano il maschio di questo insetto corteggiare la femmina mediante danze, suoni, colori. Un cromatismo denso ed espressionistico, per il quale si potrebbe capovolgere l’affermazione marxiana e dire che c’è nella testa del ragno un’idea ricca e complessa che lo induce a produrre movimenti e a generare forme in vista di uno scopo che gli è chiaro prima che si metta in azione.
È pensata e agita l’armonia delle forme della quale è capace un qualunque maschio Maratus, la cui femmina deve evidentemente essere a sua volta capace di valutazione critica, potendo accettare o respingere le offerte erotico-artistiche del suo corteggiatore. Forse l’errore sta nella scala assiologica, nell’ossessione umana di costruire gerarchie di valori dove ci sono delle semplici differenze. Quelle per le quali la body art che gli aborigeni d’Australia hanno coltivato per millenni non è peggiore o migliore, ad esempio, dell’arte barocca. Sono entrambe delle coinvolgenti manifestazioni della natura poietica di Homo sapiens, del suo incessante costruire mondi intorno e dentro di sé. Anche Patricia Piccinini costruisce opere -come Kindred (parenti, affini, 2018)– nelle quali risaltano gli elementi di continuità tra la specie umana e gli altri primati, in questo caso gli orangutan.
Questo e molto altro, soprattutto i numerosi video di vari artisti, è detto ed espresso in forme e modalità che confermano come tutta l’arte contemporanea sia arte concettuale.

Λευκωσια

Smuggling Hendrix
(titolo italiano: Torna a casa, Jimi!)
di Marios Piperides
Cipro, 2018
Con: Adam Bousdoukos (Yiannis), Fatih Al (Hasan), Özgür Karadeniz (Tuberk), Vicky Papadopoulou (Kika)
Trailer del film

Quanto avevo scritto qualche anno fa, di ritorno da un viaggio a Cipro, è confermato da questo film scombiccherato e vivace, il cui protagonista è Jimi (omaggio a Hendrix), un cane che sfugge al suo padrone e valica il confine che separa la Nicosia (Λευκωσία) greco-cipriota dalla Nicosia turco-cipriota. Yiannis attraversa il confine e si riprende il cagnolino ma ragioni sanitarie -sempre in nome dell’Unione Europea, della quale la Cipro greca fa parte e quella turca no- e varie insensatezze burocratiche impediscono di far rientrare Jimi a casa. Yiannis e la sua ex fidanzata se le inventano tutte pur di riavere il loro compagno, con l’aiuto più o meno interessato di un turco che occupa ora la casa dove Yiannis era nato e di un ieratico trafficante di droga. Le difficoltà si moltiplicano e diventano l’occasione di transitare per la zona cuscinetto di Nicosia, una terra di nessuno inquietante e a suo modo fascinosa, che separa le due comunità che convivono in questo spazio luminoso e antico. L’immagine che si vede qui sopra fu scattata da me e credo sia significativa di come la guerra entri proprio nella vita quotidiana degli umani, nelle loro case, alla lettera.
Di Λευκωσία nel film si ascoltano i suoni, si vede l’orizzonte, si subisce il disordine, si sente la vita. Quella vita mediterranea che altrove possono soltanto cercare di imitare e che è la vera ricchezza e l’identità delle genti del Sud Europa, tutte eredi -più o meno fedeli- dei Greci.

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