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Hollywood / Teologia

Ave, Cesare!
(Hail, Caesar!)
di Joel ed Ethan Coen
USA, 2016
Con: Josh Brolin (Eddie Mannix), George Clooney (Bard Whitlock), Ralph Finnnies (Laurence Laurentz), Alden Ehrenreich (Hobie Doyle), Tilda Swinton (Thora Thacker / Thessaly Thacker), Channing Tatum (Burt Gurney), Scarlett Johnson (DeeAnna Moran)
Trailer del film

Si comincia con un sacramento. Eddie Mannix confessa al sacerdote di aver fumato due o anche tre sigarette e di averlo nascosto alla moglie. Si continua con gli orologi che segnano gli impegni molteplici di Mannix negli Studios hollywoodiani che dirige. Controlla infatti che attori e attrici non finiscano sulle riviste gossip, che le riprese di vari film vadano a buon fine, che un film dedicato a Gesù sia accettabile per i rappresentanti di tutte le chiese cristiane e anche per un rabbino. L’attore che in Ave, Cesare! interpreta un comandante romano viene però rapito da un gruppo di sceneggiatori comunisti, i quali chiedono un riscatto che servirà per finanziare la patria del socialismo e dell’uomo nuovo: Mosca. Bard Whitlock, il rapito, si trova dunque a discutere di materialismo storico e  dialettico con un professore di nome Marcuse, nella villa di un attore il cui cane si chiama Engels. Liberato anche con il contributo del peggior attore di Hollywood -un tizio specializzato in film western e incapace di pronunciare anche una sola battuta-, Whitlock sembra quasi convertito al comunismo. Mannix però lo schiaffeggia e lo fa tornare sul set, dove un lungo dialogo con Gesù sotto la croce si interrompe perché l’attore non ricorda l’ultima parola. Intanto, Mannix trova il tempo di tornare ogni giorno dal confessore.
Tutto questo sembra sconclusionato? Sì, in parte lo è ma il film dei Coen ha il coraggio e il merito di coniugare una vera e propria storia dei generi hollywoodiani -compreso il western e il musical- con un serrato dibattito cristologico-trinitario e con le tesi fondamentali del marxismo. Le chiese, religiose o politiche che siano, ne escono in tutta la loro serietà e in tutta la loro insensatezza.
Hail, Caesar! è grottesco e teologico, umoristico e metafisico, musicale e politico. Coloratissima e barocca la fotografia, divertita la recitazione, da antologia del comico il dialogo fra il regista Laurence Laurentz e l’attore (?) Hobie Doyle.

La misura della libertà

La scelta di Barbara
(Barbara)
di Christian Petzold
Con: Nina Hoss (Barbara), Ronald Zehrfeld (André), Jasna Fritzi Bauer (Stella), Rainer Bock (Klaus Schütz),
Germania 2012
Trailer del film

Germania Est. Anni Ottanta. Barbara è una pediatra che ha chiesto di espatriare. Per questo viene punita relegandola da Berlino in un piccolo centro della provincia sassone. Qui è sottoposta a continue perquisizioni -a casa e sul corpo- da parte di piatti burocrati della polizia politica. Mentre progetta con il proprio compagno la fuga verso la Danimarca, non si fida naturalmente del suo collega e primario André nonostante la gentilezza che questi mostra nei suoi confronti. La sincerità del sentimento che André prova verso di lei e l’incontro con Stella, una ragazza in fuga da un campo di lavoro, indurranno tuttavia Barbara a compiere la sua scelta, in ogni caso dolorosa.
Il film è intriso di una grande sobrietà. I sentimenti personali, le azioni del potere, le piccole e grandi delazioni, la passione degli amanti, la disperazione dei giovani, sono raccontati con rispetto, attenzione, misura. L’incontro tra la consueta e feroce miopia del potere e la profondità della visione interiore che ogni uomo libero conserva, produce un effetto che è insieme intenso, malinconico e straniante. Negli sguardi della protagonista, nei suoi occhi, nei silenzi, nei gesti, è come se la Storia arrivasse a toccare il fondo lirico che la intride, come se la misura degli atteggiamenti diventasse il criterio stesso con il quale comprendere gli eventi.

Il vulcano della storia

Maxim Kantor. Vulcano
Fondazione Stelline – Milano
A cura di Alexandr Borovsky e Cristina Barbano
Sino al 6 gennaio 2013

Siamo seduti sul vulcano della Natura e su quello della storia. Pronti a inghiottirci entrambi in qualunque istante. Conoscerli è il lavoro della cultura. La razionalità dovrebbe indurci a rispettare sempre la Natura come la madre dalla quale traiamo respiro, vita e senso. Essa non è benevola né matrigna (è questo l’errore antropomorfico del grande Giacomo); per certi versi essa neppure è. Ciò che chiamiamo Natura non è struttura ma è un’immagine del divenire innocente e immenso della materia, nella quale abbiamo il peso di un granello di sabbia su una spiaggia tropicale.
La stessa razionalità dovrebbe indurci a non piegarci mai all’apologia della storia, se essa si presenta come apologia del potere. Neppure la storia in realtà esiste, se con essa si intende un processo teleologico, una provvidenza immanentistica. Schopenhauer, Tolstoj, Popper hanno mostrato in modi diversi come si tratti soltanto di un coacervo feroce di eventi ai quali si attribuisce a posteriori un senso.
Sono gli artisti -almeno qualche volta- a mostrare la miseria del potere e della storia. Maxim Kantor (1957) è tra questi. Le sue grandi tele si muovono tra il riferimento all’iconismo russo e la chiara continuità con l’espressionismo europeo, con la declinazione grottesca degli spazi, delle figure, delle situazioni. I ritratti di  Tolstoj, Marx, Lenin hanno l’ingenuità della tradizione popolare. Sarcastici e implacabili, invece, sono i dipinti dedicati alla Torre di Babele (2005, chiaramente ispirato al grande modello di Bruegel); alla Società aperta (2002), descritta come società della miseria e della fame; alla Folla solitaria (2011-2012), un’ammucchiata di solitudini; e soprattutto allo Stato (1991), un potente vortice di dolore, di erotismo e di prevaricazione.

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Woland

Il Maestro e Margherita
(Master i Margarita, 1940)
di Michail Bulgakov
Trad. di Vera Dridso
Einaudi, Torino 1996
Pagine 448
(Edizione Biblioteca di Repubblica)

Woland prende casa a Mosca negli anni Venti con il suo sèguito, composto dal fedele Korov’ev-Fagotto, dall’enorme gatto nero Behemoth, da Azazello, dalla strega Hella sempre nuda e da Abadonna, la nuda morte. Gli occhi di Woland sono la sua identità, perché «la lingua può nascondere la verità, ma gli occhi mai» (p. 188). E gli occhi di questo viaggiatore, consulente, mago, ipnotizzatore, artista, sono «una scintilla dorata, che avrebbe penetrato fin nell’intimo qualsiasi anima, il sinistro vuoto e nero, una specie di stretta cruna angolare, un orifizio nel pozzo senza fondo di tutte le tenebre e di tutte le ombre» (287).
Woland e i suoi assistenti organizzano uno straordinario spettacolo al Teatro di Varietà della capitale russa. In quella serata indimenticabile essi dimostrano di conoscere più di chiunque altro l’umanità, i suoi desideri, le passioni, l’ingenuità e la meschina avidità. Dopo quella serata lui e i suoi compagni causano incendi, prodigi, follie di ogni genere. Perché Woland è –come recita l’epigrafe dal Faust di Goethe- «una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene»; infatti, «che cosa farebbe il tuo bene, se non esistesse il male? E come apparirebbe la terra, se ne sparissero le ombre? Le ombre provengono dagli uomini e dalle cose» (406).
Per il suo annuale ballo di gala, questa entità chiede di fare da padrona di casa a Margherita Nikolaevna, una donna bellissima e intelligente, che accetta l’invito solo perché ha compreso che in questo modo potrà di nuovo riavere l’uomo che ama con un trasporto totale e che l’invidia e la malvagità hanno ridotto a vivere in una casa di cura per malati di mente. Il Maestro che Margherita adora ha scritto una storia di Ponzio Pilato che non è piaciuta al potere comunista, che ha indotto l’Autore a tentare di bruciare il proprio manoscritto ma «nulla spariva, l’onnipotente Woland era davvero onnipotente» (337), tanto da restituire a Margherita il suo Maestro e al Maestro quella sua opera che è il vero, enigmatico, denso nucleo di questo romanzo di Bulgakov.

Il procuratore della Giudea sa bene che l’accusato che gli hanno posto davanti in quella mattina del giorno quattordici del mese di Nisan, quel «filosofo che aveva escogitato una cosa così incredibilmente assurda come la bontà universale degli uomini» (360), quell’ingenuo delinquente Jeshu-ha-Notzri, è innocente. Ma, per tante ragioni, non spinge la propria azione sino a salvarlo. Perché Pilato odia quell’orrenda fogna di fanatici che è Jerushalajim, perché è stanco di tutto, perché il Sinedrio tiene davvero alla morte di quello straccione, perché –soprattutto- è un poco vile. Ma quella condanna, di cui pure dichiara di lavarsi le mani, quella morte sul monte dietro la città, quella prova che «ogni potere è violenza sull’uomo», come Jeshua dichiara (35), non abbandoneranno più la sua vita e i suoi pensieri. L’Hanozri e il procuratore staranno sempre insieme -«se parleranno di me, parleranno subito anche di te!» (361) e questa immortalità, questa gloria senza tramonto, questa continua rimemorazione del suo nome nelle chiese di tutto il mondo, saranno parte della condanna di Pilato.

Ma proprio Margherita e il suo Maestro daranno a Pilato la pace, liberandolo dal suo destino di sogni e di incubi, di immobilità e di memoria, di aridi e sempre uguali pleniluni…«così parlava Margherita…e la memoria del Maestro, l’inquieta e martoriata memoria del Maestro cominciò a spegnersi. Qualcuno lo lasciava libero, come poco prima egli aveva lasciato libero l’eroe da lui creato. Questo eroe era scomparso, era scomparso irrevocabilmente, perdonato nella notte fra il sabato e la domenica, il figlio del re astrologo, il crudele quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato» (432-433), il vero protagonista di questo inquietante, ironico, struggente e magnifico romanzo.

Corea (del Nord)

Quando il presidente di questa disgraziata repubblica (istituzione) era Francesco Cossiga, la Repubblica (giornale) lo attaccava (giustamente) tutti i giorni, a partire dal suo direttore-fondatore Eugenio Scalfari; e lo attaccava pure Giorgio Napolitano, chiedendone addirittura l’impeachment. Ora che il presidente è il suddetto Napolitano, la Repubblica e lui stesso rispondono con sdegno alle richieste di chiarimenti in merito ai fatti gravissimi che emergono dalle telefonate di Nicola Mancino. In pratica sembra che Napolitano stia facendo pressioni affinché venga insabbiata l’inchiesta sulle trattative tra il potere politico e il potere mafioso, il cui rifiuto costò la vita a Paolo Borsellino e alla sua scorta. Tutti coloro che sono dotati di un minimo di senno e di onestà capiscono bene che l’intromissione di un Presidente della Repubblica in inchieste di tale gravità è qualcosa di inaudito. Ma l’informazione italiana -oltre che, ovviamente, la politica- è priva sia di senno sia di onestà ed è invece tutta dedita a mistificare, sopire, troncare, falsificare, accusare, pur di difendere «il Totem sul Colle», «il nostro Caro Leader, nonché Conducator e Piccolo Padre».
Dietro il Napolitano presidente riemerge il Napolitano comunista. Ma non quello della lotta di classe e della giustizia bensì quello del culto della personalità. Quello stalinista e coreano insomma, quello che nel 1956 sostenne l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Armata Rossa. E la “libera stampa” italiana assume, giustamente, i toni della vecchia Pravda.

Le masse viziate

La ribellione delle masse
di José Ortega y Gasset
(La rebelión de las masas, 1930)
Trad. di Salvatore Battaglia
Il Mulino, 1984
Pagine 211

Il pensiero di Ortega y Gasset (1883-1955) oscilla tra due poli complementari: la fenomenologia dell’esistenza quotidiana e lo scavo nel profondo delle strutture storico-culturali. Con questi strumenti ermeneutici Ortega elabora analisi originali e suggestive sulle radici in cui gli eventi affondano e riesce ad anticipare gli sviluppi successivi di tendenze culturali e movimenti sociali.
Un risultato di tale metodo è la descrizione lucida ed essenziale dell’improvvisa comparsa dell’uomo-massa, il quale è un nuovo tipo antropologico privo di ciò che caratterizza da sempre le minoranze che hanno guidato lo sviluppo culturale e sociale dell’Europa: intelligenza innata e coltivata, ordine esistenziale, progetto sul futuro. L’uomo-massa, invece, vive nella e della uniformità più assoluta, è avverso a ogni slancio, idea, forma d’azione che non sia quella di una conformistica volgarità elevata a valore. Per il filosofo spagnolo bisogna partire dal fatto evidente che «la società umana “è” aristocratica sempre, voglia o non voglia, per la sua stessa essenza. […]  Ben inteso che parlo della società e non dello Stato» (p. 40). Aristocrazia intesa come vita coraggiosa che sopporta con fermezza il dramma dell’esistenza, posta sempre a oltrepassare se stessa -come voleva anche Nietzsche-, sostenuta dalla coscienza delle radici culturali e dalla loro incarnazione nel presente, volta a edificare la possibilità di sviluppi futuri. Questo è per Ortega l’uomo civile nei cui confronti l’uomo-massa, generato da un abnorme e velocissimo accrescimento demografico, «è un primitivo, un Naturmensch emerso in mezzo ad un mondo civilizzato» (100).

La ribellione delle masse, e cioè la loro presa diretta del potere, ha una valenza doppia e divergente: essa può «costituire un transito a una nuova e singolare organizzazione della Umanità; però può anche diventare una catastrofe nel destino degli uomini» (97). Una consapevolezza, questa, della complessità dei fenomeni sociali che evita a Ortega di rimanere in un ambito puramente reattivo e conservatore. Non è infatti la modernità in quanto tale a costituire il pericolo ma la modernità totalitaria che si andava affermando (il libro è del 1930) nei più tipici movimenti di uomini-massa, il fascismo e il bolscevismo, i quali vengono definiti come «due pseudo-aurore; non portano il mattino di domani, ma quello di un giorno antico, già sorto più di una volta; sono primitivismo» (116).
Rispetto a essi, il filosofo prende risolutamente e con troppa fiducia le parti del liberalismo, auspicando una rivitalizzazione di ciò che definisce come «il più nobile appello che abbia risuonato nel mondo» (96). Le motivazioni di un giudizio tanto elogiativo sono significative di una posizione che rimane comunque assai lontana dal culto della soggettività finanziaria e sprezzante verso l’interesse comune, alla quale fanno riferimento molti sedicenti liberali contemporanei. Infatti per Ortega «il liberalismo è il principio di diritto pubblico secondo il quale il potere pubblico, nonostante che sia onnipotente, limita se stesso e procura, anche se a proprie spese, di lasciar posto nello Stato ch’esso dirige perché vi possano vivere coloro che non pensano né sentono come lui, cioè come i più forti, come la maggioranza» (Ivi). Si vede bene come l’individuo che qui viene difeso non sia il caimano della finanza e della politica ma colui che non segue i dettami della moltitudine soltanto perché è la moltitudine a dettarli. Colui che cerca di pensare e di essere da sé, insomma, e non come la potenza della struttura sociale vorrebbe che pensasse e che fosse. Ne consegue un’esplicita e severa critica alle pretese dello Stato etico di porsi come fonte di ogni principio e possibilità umana: «Lo “statismo” è la forma superiore che assumono la violenza e l’azione diretta costituite a norma. Attraverso e per mezzo dello Stato, macchina anonima, le masse agiscono da se stesse» (144).
Questa difesa dell’individuo dal potere della massa viene articolata nell’analisi di fenomeni anche diversi tra di loro ma accomunati da miopia intellettuale, interesse puramente economico, rozzezza esistenziale: la scienza ridotta a iperspecialismo e dominio della tecnologia; la politica intesa come prevaricazione della violenza volgare e della più smaccata menzogna; l’affermarsi di una psicologia collettiva da bambini viziati, da «signorino soddisfatto» (119).

Ma in che cosa consiste, davvero, la ribellione delle masse? Non è stato sempre anche il numero a contare nei fatti e sui destini dei popoli? Qual è il significato di questa critica a ciò che molto più semplicemente si può chiamare “democrazia”? Le risposte di Ortega sono pacate e plausibili. Non si tratta prima di tutto di optare per l’una o l’altra forma di governo ma di limitare quanto più è possibile il potere. E il potere più grande e pericoloso è per lui oggi -nel 1930 ma l’analisi può in parte valere per il presente- quello delle masse eterodirette da individui tracotanti per fini autoritari travestiti da progresso. Il concetto orteghiano di massa non è in primo luogo sociologico o storico ma esistenziale: «anche per una sola persona possiamo sapere se è massa o no. Massa è tutto ciò che non valuta se stesso -né in bene né in male- mediante ragioni speciali, ma che si sente “come tutto il mondo”, e tuttavia non se ne angustia, anzi si sente a suo agio nel riconoscersi identico agli altri» (34). Anche da qui prenderà avvio il grande libro che Elias Canetti dedica alle masse (Massa e potere, 1960), del tutto diverso rispetto a quello di Ortega ma consonante almeno in questo, nel riconoscimento della uniformità come elemento fondante della massa, che disprezza d’istinto la differenza a favore di una passiva identità.
L’affermazione più radicale ma anche più realistica che il libro formula è forse questa: «Il fatto caratteristico del momento è che l’anima volgare, riconoscendosi volgare, ha l’audacia di affermare il diritto alla volgarità e la impone dovunque» (37). Credo che qui Ortega y Gasset abbia visto il nostro presente.

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