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Una dura bontà

Louis-Ferdinand Céline
La Chiesa
Commedia in cinque atti
(L’Église, 1933; Gallimard 1952)
Traduzione di Susanna Spero
Introduzione di Maurizio Gracceva
Irradiazioni, Roma 2002
Pagine 166

Inizia in Africa. Si sposta poi negli Stati Uniti d’America. Transita da Ginevra e si conclude alla periferia di Parigi, tra taverne, malati, ballerine. Sì, questa commedia composta tra il 1926 e il 1927 è un germe del Voyage au bout de la nuit. Non c’è la guerra, certo, ma vi appaiono le sue conseguenze diplomatiche. Il Dottor Bardamu lavora infatti per la Società delle Nazioni, costituita a Ginevra dopo la Prima guerra mondiale. Un organismo inventato per evitare nuove guerre e che portò dritto dritto alla Seconda. Un cadavere che Céline disseziona mostrandone i veri obiettivi: favorire ed estendere il dominio della menzogna e della corruzione. Sembra che si parli delle attuali Organizzazione delle Nazioni Unite -l’Onunullo di Pasquale D’Ascola, «l’organismo vivente più morto del pianeta»- e dell’Unione Europea, con i loro organismi pletorici e occhiuti, vanesi e autoritari, che discettano e decretano sulle più minute e inverosimili questioni. Tra le quali, «la fiducia nelle certificazioni di morte» (p. 97), «lo studio degli aquiloni in merito alla difesa dei semafori in caso di mobilitazione» (98), «la trasformazione e la sparizione impercettibile dei debiti» (103).
Bardamu è straniero a tutto questo. Bardamu è «un anarchico» (48). È straniero al colonialismo, vedendo bene come gli indigeni «se ne fottono della civiltà, preferirebbero essere lasciati in pace» (42). È straniero al parlare che nulla dice, poiché «chiunque può dire qualcosa, parlare è semplicemente umano. L’importante, eternamente valido e che infonde fiducia è quello che non si dice» (154-155). È straniero all’amore perché sa che «l’amore è paura della morte» (158). È straniero alla verità, perché «a questo mondo la verità è la morte, non è così? La vita è un’ebrezza, una menzogna. È una cosa delicata e indispensabile. Mentiamo ad ogni passo» (84). È straniero alla vita, a questa vita nata dal caos, intrisa di notte e di buio, fatta di spranghe, un’invisibile prigione: «Mica è una religione la vita, Janine, piccolina. Dovrebbe saperlo! È una galera! È inutile volerci vedere i muri di una chiesa…ci sono catene dappertutto…» (158).
Bardamu «è solo un individuo» (114). Così lo apostrofa e lo condanna il suo capo alla Società delle Nazioni. Acuto, intelligente e abile, Yudenzweck aggiunge che «non parliamo la stessa lingua. Lui parlava la lingua dell’individuo e io so parlare solo la lingua collettiva. […] La lingua degli individui è come un veleno» (115).
In questo «mondo boschiano di mostri» (26), come lo definisce Maurizio Gracceva nella sua introduzione, Bardamu è anche la filigrana del Dottor Semmelweis, vittima della propria bontà, del suo desiderio di salvare questo mondo o almeno di attenuarne la ferocia e il dolore. L’essenza di Bardamu è infatti racchiusa nel modo in cui Pistil lo descrive: «C’è del buono in lui, ma è una bontà dura» (149).
Una bontà profonda, che conosce, che sa, che non si illude, che agisce, che non si sottomette alle tenebre delle quali è intrisa la sostanza del mondo. Bardamu è uno gnostico.

Esotiche vecchiaie

The Best Exotic Marigold Hotel
di John Madden
Con: Judi Dench (Evelyn), Tom Wilkinson (Graham), Bill Nighy (Douglas), Penelope Wilton (Jean), Dev Patel (Sonny), Celia Imre (Madge), Ronald Pickup (Norman), Maggie Smith (Muriel), Diana Hardcastle (Carol), Tena Desae (Sunaina)
USA 2012
Trailer del film

 

«Delocalizzare la vecchiaia» è il programma con il quale un giovane indiano di Jaipur intende rivitalizzare un albergo ormai decadente. Nel mondo occidentale gli anziani non contano più nulla, qui invece potranno diventare i protagonisti assoluti. Per attirare i primi clienti Sonny ritocca un po’ le immagini dell’hotel. A cadere nel benevolo inganno è un variegato gruppo di inglesi: un giudice in pensione, una coppia in crisi, due signore sole, un attempato casanova, una governante licenziata dopo aver speso l‘intera vita al servizio di una famiglia britannica. Nonostante l’iniziale sorpresa nel trovarsi in un luogo ben diverso rispetto a quello pubblicizzato su internet, queste persone si fanno quasi tutte avvolgere e travolgere “dal fascino dell’India”, luogo dove ciascuno cerca se stesso, vecchi ricordi, nuova vita.
Il rischio che un film del genere potesse cadere nell’esotismo di maniera era altissimo e non è stato evitato. Una cultura assai complessa come quella indiana e indù viene ridotta alle solite cartoline e a luoghi comunissimi. Si respira, inoltre, una greve atmosfera british nei rapporti tra gli ex colonizzatori e gli ex colonizzati. La bravura degli interpreti -tutti caratterizzati da una misura veramente anglosassone- e alcune riuscite battute nei dialoghi non riscattano l’evidente forzatura di tutta l’operazione, confermata dal lieto fine.

Per un regista e per degli sceneggiatori europei è forse semplicemente impossibile capire l’India e restituirne con un minimo di correttezza l’antropologia. Tra i dipendenti del Marigold Hotel c’è, ad esempio, una ragazza che appartiene ai “paria”, vale a dire agli infimi fuori casta. Bene, come si fa a rendere il significato e la peculiarità del sistema indiano delle caste da un punto di vista occidentale? Gli “intoccabili”, infatti, sono sì molto spesso ma non necessariamente dei “poveri”. Anzi, numerosi paria sono piuttosto ricchi. Ed è a volte il modo in cui hanno raggiunto tale ricchezza che conferma il fatto che si tratta di intoccabili. Un appartenente alla casta dei bramini può essere, invece, poverissimo ma viene giudicato un individuo superiore. Le caste esistono anche in Occidente e sono quasi altrettanto rigide. Solo che da noi il criterio di appartenenza all’una o all’altra è dato dal possesso del danaro e dall’esercizio del potere politico. (Una notazione personale: nel conversare attribuisco a volte ad alcuni uomini politici nazionali e a degli amministratori locali che conosco la qualifica di “miserabili e intoccabili”, pur essendo costoro ricchissimi tanto che al loro confronto sono un vero poveraccio. Mi ispiro, per l’appunto, al sistema indiano delle caste).

Identità e differenza

Ora che con estrema lentezza ma anche con inevitabile parabola il più volgare politico italiano dell’età moderna va dissolvendosi, non bisogna dimenticare che parte dei suoi crimini sono stati e continuano a essere le guerre coloniali in Afghanistan, in Iraq e in Libia. La tragedia dentro la tragedia è che tali crimini sono stati e continuano a essere perpetrati con la complicità convinta del Partito Democratico e del centrosinistra in genere. E  persino con il sostegno di settori della sinistra radicale, come quella che parla in Micromega e nel Manifesto.

Il fardello dell’uomo bianco si espresse una volta sotto il sole trascendente del cristianesimo, poi nella freddezza dello scientismo positivista (del quale l’imperialismo sovietico è stato una potente variante), ora trionfa tramite la menzognera formula della “democrazia” e dei “diritti umani”. Ma si tratta sempre della stessa ossessiva volontà di uniformare il molteplice all’uno, si tratta della stessa mortale presunzione di rappresentare il valore e la verità unica del mondo. Io sono orgoglioso di essere europeo ma lo sono perché l’Europa è stata ed è la terra del tramonto della verità e non il luogo di un’identità dogmatica, che essa sia religiosa, scientifica o politica. Perché la pace sta nelle differenze.

 

Cuore di tenebra

di Joseph Conrad
(Hearth of Darkness, 1902)
Trad. di Alberto Rossi
Einaudi, Torino 1989
Pagine XLVI-127

 

Mentre si avanza, una progressiva assenza. Nel procedere dello spaziotempo vengono meno gli eventi, le parole, la luce. L’immenso fiume dal non detto nome introduce alla nebbia fittissima del senso, al buio della comunicazione. È anche questo il segreto di Hearth of Darkness: un’identità di forma e contenuto che nulla lascia fuori di sé ma che nel compiersi sospende la parola
Il comandante Marlow dà inizio, mentre sul Tamigi scende la tenebra notturna, al racconto del suo viaggio nel cuore dell’Africa, alla ricerca dell’avorio e di Mister Kurtz. La narrazione si avvicina in modo progressivo, lento, indiretto al suo obiettivo, esattamente come il procedere del battello per centinaia di miglia sulle acque. Quando, infine, si arriva è al di là del bene e del male che si è giunti. Lungo tutto il viaggio l’aria, il tempo, i giorni scorrono lenti fra luce e tenebre nella massiccia e lontana densità di una foresta impenetrabile, viva e respirante, sacra. Un pellegrinaggio nell’incubo, come se tutto ciò che il Guernica di Picasso racchiude nell’istante atemporale della pittura fosse dilatato nel tempo lungo della narrazione. Che cos’è lo Hearth of Darkness a cui ci si approssima senza mai coglierlo?
È la conquista del mondo. Il demone e il destino dell’Europa. Ai popoli dell’Africa la schiavitù «era giunta addosso come un incomprensibile mistero proveniente di là dal mare» (pag. 23). Lo Hearth of Darkness è quindi quel «lezzo di rapacità imbecille», diffuso da funzionari tanto grotteschi quanto feroci e che «circolava per ogni dove a zaffate, come il fetore d’un qualche cadavere» (35). Ma il predare e sottomettere, la schiavitù e il massacro delle genti africane preesistono agli europei, ebbero inizio già al tempo dell’espansione araba. Hearth of Darkness è qualcos’altro. È l’infinita solitudine dell’uomo, il silenzio e l’oblio che avvolgono ogni anima e ogni vita: «il silenzio di quella terra penetrava dritto in fondo al cuore, col suo mistero, la sua vastità, la realtà stupefacente della sua vita recondita» (40). Una effettiva, e quindi totale, comunicazione fra gli umani è di fatto impossibile. La verità, il significato, la penetrante essenza di un attimo qualunque della vita, non si può trasmettere ad alcuno: «Si vive come si sogna: perfettamente soli» (42). Il silenzio senza traccia delle primordiali età dell’uomo è destinato a richiudersi su qualunque creazione, orma, documento, memoria come l’oceano sul capo di chi annega. Il viaggio verso la tenebra è quindi l’inoltrarsi «nella notte di età che scomparvero lasciando appena qualche traccia, e nessuna memoria» (56).

Ma c’è di più, assai di più, al di là del rimpianto per la propria caducità. Hearth of Darkness è l’orrore dell’umano, l’umano come orrore. È questa la mortale sapienza alla quale infine Kurtz arriva. Il male dentro di sé, il male in ognuno che desidera, la tenebra della specie più luminosa, il dionisiaco dell’apollineo. La straordinaria eloquenza di Kurtz, i suoi pensieri reconditi, i sentimenti e le sconfinate sue passioni sono sempre e soltanto allusi e mai vengono detti. A esprimere la tenebra c’è solo qualche brandello di disincantata sapienza: la bizzarria della vita e il dominio su di essa del dolore, la ferocia della storia, l’incerta e terribile conoscenza di se stessi, la messe di inestinguibili rimpianti. Solo nell’ultima prova della sua misteriosa eloquenza Kurtz esprime qualcosa di semplice, qualcosa di definitivo. Il suo «sguardo fisso […] era vasto abbastanza da abbracciare tutto l’universo, abbastanza acuto per penetrare in tutti i cuori che battono nella tenebra. Egli aveva tirato le somme -e aveva giudicato, “Quale orrore!”» (112) («his stare […] was wide enough to embrace the whole universe, piercing enough to penetrate all the hearts that beat in the darkness. He had summed up -he had judged. “The horror!”»).
Quest’ultimo grido si riverbera sùbito sul quotidiano, a scanso di ogni esotismo: «Mi ritrovai di nuovo in quella città sepolcrale, irritato alla vista di gente che correva per le strade a rubarsi a vicenda qualche poco di denaro, a divorare quella sua infame cucina, a ingoiare la sua birra impossibile, a sognar i suoi sogni insignificanti e balordi» (113). Un’altra condanna gnostica si è abbattuta sull’umano e ha creato un racconto a volte forse ripetitivo, che continuamente insiste su quella parola Darkness, ma che -cosa davvero unica- dà la sensazione di sfiorare l’eterno: «Risalire lungo quel fiume era come viaggiare all’indietro nel tempo verso i più remoti primordi del mondo, quando la vegetazione tumultuava sulla terra, ed alberi immensi stavano come imperatori» (52).

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