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«Risorsa infinita, perpetua festa»

Emil M. Cioran
La tentazione di esistere
(La tentation d’exister, Gallimard 1956)
Trad. di Lauro Colasanti e Carlo Laurenti
Adelphi, 2022
Pagine 215

Segno di contraddizione, gioco di contraddizione, è la riflessione di Emil Cioran. A partire dal rimprovero mosso a chi abbandona la propria lingua d’origine – «Chi rinnega la propria lingua per adottarne un’altra, cambia d’identità, anzi di delusioni» (p. 57) – e l’averla appunto abbandonata. Proseguendo con un’articolata e ampia condanna dello scrivere scritta da chi ha fatto della scrittura la propria esistenza quotidiana. Per arrivare infine alla esatta denuncia rivolta alla filosofia moderna di aver instaurato «la superstizione dell’Io» (21) e imperniare poi l’intera propria meditazione su una soggettività angosciata, depressa, malinconica, triste; ammettendo, in riferimento agli individui e alle civiltà, di essere diventato «il fanatico di una carogna» (24).
E tuttavia la lucidità di Cioran va di slancio oltre le proprie debolezze e contraddizioni e coglie con sintetica efficacia alcuni dei momenti chiave del contemporaneo e della storia. 

Il tradimento di molti intellettuali, ad esempio, che preferiscono le catene dell’illusione alle «peregrinazioni della Conoscenza» (37), che scelgono il conforto di una sinecura al compito della libertà. Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, si fanno corifei di una filosofia della storia nata dal convergere della Provvidenza cristiana e del Progresso borghese con le vittorie coloniali dei conquistadores. Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, si fanno in ogni loro riga e parola difensori del messianismo statunitense, di un’America che «si erge di fronte al mondo come un nulla impetuoso, come una fatalità priva di sostanza […] un mostro di superficialità» (33). Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, abbandonano lo spirito critico e scettico che ha  caratterizzato la filosofia europea da Socrate in avanti per farsi portatori anch’essi, al modo dei preti, «di una verità semplice, di una risposta che li liberi dai propri interrogativi, di un vangelo, di una tomba» (38), come quella che ha trasformato la scienza in una prospettiva «minacciosa, fonte di spavento» (190) e – con la vicenda dell’epidemia Covid – in una pratica di violenza collettiva poiché «chi trema sogna di far tremare gli altri, chi vive nello spavento finisce nella ferocia» (173).

A fondamento di queste e altre tristezze sta anche per Cioran la fine del mondo pagano, così efficacemente richiamato: «Dove sono la nostra sensibilità innica, l’ebbrezza delle origini, l’alba dei nostri stupori? Gettiamoci ai piedi della Pizia, ritorniamo alle nostre antiche aspirazioni: filosofia dei momenti unici, sola filosofia» (154). La fine del paganesimo è stata causata e affrettata (è la stessa motivazione che ne dà Nietzsche) da una crisi interna di quel mondo che aveva perduto fiducia, ironia e sorriso – il sorriso dei κοῦροι – ma che fu comunque il cristianesimo a uccidere. Alla gioia e alla tragedia del mito greco il cristianesimo sostituì «una mitologia di schiavi» che, ad esempio nell’Apocalisse, si mostra come «vendetta, bile e avvenire malsano» (89) e nel latino cristiano trasforma la bella «lingua di Tacito» in una parlata «deformata, banalizzata, costretta a subire le farneticazioni sulla Trinità!» (118).
Radice del cristianesimo è naturalmente l’Antico Testamento, è Yahweh, un dio «attaccabrighe, rozzo, lunatico, verboso», che «poteva al massimo soddisfare le necessità di una tribù», un dio interpretato da Cioran in una chiave anche gnostica che ne fa «un usurpatore che subodorando il pericolo teme per il suo regno e terrorizza i suoi sudditi» (72). A diffondere il culto di questo demiurgo usurpatore fu Paolo di Tarso, la cui teologia è «un’orgia di antropomorfismo» (160).
Su Paolo, e sul suo prosecutore Lutero, Cioran riprende le analisi e anche il linguaggio di Nietzsche, descrivendo la patristica che da Paolo nacque come un mondo di nemici delle Muse, di «forsennati che ancora oggi ci ispirano un panico misto ad avversione. Il paganesimo li trattò con ironia, arma inoffensiva, troppo nobile per sottomettere un’orda restia alle sfumature. Il delicato che ragiona non può misurarsi con il beota che prega. Irrigidito nelle vette del disprezzo e del sorriso, soccomberà al primo assalto» (163). Per quanto riguarda Martin Lutero, «questo Rabelais dell’angoscia era più adatto di chiunque altro a rinvigorire un cristianesimo sempre più debilitato e slavato» (167).
A proposito del plesso ebraismo-cristianesimo, Cioran può contribuire a intendere più correttamente le pagine dei Taccuini neri di Heidegger dedicati al rapporto tra cultura ebraica e desertificazione. Si tratta infatti di un dato antropologico che ogni analisi priva di pregiudizi non può che confermare. Scrive infatti Cioran che non bisogna dimenticare che gli ebrei «furono cittadini del deserto, che lo custodiscono ancora in se stessi come loro spazio intimo, e lo perpetuano attraverso la storia» (73); e aggiunge una interessante osservazione etnologica sui ghetti disseminati in Europa, visitando i quali non si può «fare a meno di notare che la vegetazione ne era assente, che nulla vi fioriva, che tutto era secco e desolato: isolotto bizzarro, piccolo universo senza radici» (73). L’equiparazione tra ebraismo e desertificazione indica questo semplice dato storico, che soltanto malafede e pregiudizio possono trasformare in altro.

Tornando alle questioni metafisiche, l’elemento più debole del pensiero e dell’esperienza di Cioran è la sua avversione contro il tempo. Avversione però anch’essa contraddittoria poiché se da un lato lo scrittore auspica una cura di eternità che disintossichi dal divenire, ammette «tuttavia che noi siamo tempo, che produciamo tempo» (25).
Tempo che è l’altro nome del morire e del nulla e dunque della sostanza di cui siamo fatti. La morte è insieme una «situazione limite» e un «dato immediato» (205). Il Nulla, che Cioran scrive appunto in maiuscolo, è la confortevole situazione del «non essere niente – risorsa infinita, perpetua festa» (197) che libera dalla tentazione di esistere.

Terre / Popoli / Confini

Australia. Storie dagli antipodi
Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Eugenio Viola
Artisti in mostra: Vernon Ah Kee, Tony Albert, Khadim Ali, Brook Andrew, Richard Bell, Daniel Boyd, Maria Fernanda Cardoso, Barbara Cleveland, Destiny Deacon, Hayden Fowler, Marco Fusinato, Agatha Gothe-Snape, Julie Gough, Fiona Hall, Dale Harding, Nicholas Mangan, Angelica Mesiti, Archie Moore, Callum Morton, Tom Nicholson (with Greg Lehman), Jill Orr, Mike Parr, Patricia Piccinini, Stuart Ringholt, Khaled Sabsabi, Yhonnie Scarce, Soda_Jerk, Dr Christian Thompson AO, James Tylor, Judy Watson, Jason Wing and Nyapanyapa Yunupingu.
Sino al 9 febbraio 2020

Nel 1770 il capitano inglese James Cook toccò le coste dell’Australia e ripetè il gesto del suo collega italiano Cristoforo Colombo, prendendo possesso in nome dei propri sovrani di una terra che era di altri ma che venne definita vuota, disabitata. Gli umani che la abitavano non contavano evidentemente nulla. La violenza contro i veri australiani –veri nel senso semplice ma fondamentale che abitavano quella terra da molto tempo prima che arrivassero gli occidentali– appare assai chiara nell’opera forse più politica di questa mostra: Salvado de Que? (2019) di Archie Moore. Si tratta di una grande bandiera verticale di colore blu, lo stesso colore della bandiera australiana, sopra la quale c’è scritto Salvado. Ai piedi della bandiera ci sono tracce di sangue. Il sangue dei popoli aborigeni che dal 1910 al 1970 videro molti dei propri figli sottratti ai genitori per essere educati al modo occidentale e nella fede cristiana. L’immagine qui sopra è invece di Khadim Ali (Untitled 2, dalla serie Fragmented Memories, 2017-2018) e costituisce un complesso tentativo di sintetizzare il passato e il presente dell’Australia, fatti anche di genocidi degli antichi abitatori.
Quando nessuno sarà più così buono e così filantropo da dedicarsi in questo modo alla salvezza degli altri  popoli, ad esempio con guerre democratiche e umanitarie, il rispetto e la libertà saranno meglio garantiti nelle vicende umane.
Quando nessuno sarà più così buono e così globalista da ignorare il fatto che Homo sapiens è un animale tanto nomade quanto fortemente territoriale, allora popoli e comunità eviteranno di farsi massacrare, sottomettere o sostituire come accadde agli accoglienti popoli centro americani con gli spagnoli, agli aborigeni australiani  con i britannici (i Native [2019] dell’immagine-parola di Tony Albert) e come può accadere all’Europa stoltamente ingenua del XXI secolo.
Ask us what we want, still (2019) di Jason Wing denuncia giustamente il furto di terra perpetrato da Cook, perché la terra, le proprietà, i confini, prima di essere delle astrazioni ideologiche costituiscono delle realtà antropiche. Chi non ne tiene conto è -appunto– o un ‘crook’, un criminale, o una vittima dei criminali. Per inciso, le attuali politiche sull’emigrazione della nazione australiana sono tra le più dure e severe al mondo: in pratica la quasi totalità di coloro che cercano di entrare illegalmente in Australia viene respinta e rimandata da dove è venuta. Per usare il linguaggio degli europei accoglienti, si tratta di un Paese dai tratti ‘fascisti’. E tuttavia i nostri bravi democratici non ne fanno parola. Forse perché quando è così lontano il ‘fascismo’ si scolora?
Insieme a quelle di Moore e Wing, il PAC ospita le opere di altri 30 artisti australiani contemporanei, dando la possibilità di conoscere la varietà e la ricchezza della cultura figurativa di quel Paese-Continente. Opere che si possono descrivere come un tentativo di tenere distinti ponendoli in dialogo tra loro concetti come paesaggio/artificio, autoctono/esterno, digitale/materico (ad esempio i power point di Agatha Gothe-Snape e gli scheletri costruiti con il vetro di Fiona Hall), corporeo/astratto (da una parte il corpo di Jill Orr che si mescola letteralmente e profondamente con la terra, gli alberi, gli elementi e dall’altra parte i segni arcaici di James Tylor).

Sullo sfondo, la coppia fondamentale costituita da natura/cultura, la cui esemplificazione più interessante sono i video e le fotografie di Maria Fernanda Cardoso –On the Origins of Art I-II (2016)-che documentano alcuni momenti della vita di un piccolo ragno australiano, Maratus (qui sopra). L’esistenza di questo animale è ragione sufficiente per mettere in discussione una delle tante convinzioni antropocentriche, quella che anche Karl Marx espresse nella sua nota affermazione secondo la quale «il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera» (Il Capitale, libro I, sezione III, primo capitolo ‘Processo lavorativo e processo di valorizzazione’). E invece le immagini di Cardoso mostrano il maschio di questo insetto corteggiare la femmina mediante danze, suoni, colori. Un cromatismo denso ed espressionistico, per il quale si potrebbe capovolgere l’affermazione marxiana e dire che c’è nella testa del ragno un’idea ricca e complessa che lo induce a produrre movimenti e a generare forme in vista di uno scopo che gli è chiaro prima che si metta in azione.
È pensata e agita l’armonia delle forme della quale è capace un qualunque maschio Maratus, la cui femmina deve evidentemente essere a sua volta capace di valutazione critica, potendo accettare o respingere le offerte erotico-artistiche del suo corteggiatore. Forse l’errore sta nella scala assiologica, nell’ossessione umana di costruire gerarchie di valori dove ci sono delle semplici differenze. Quelle per le quali la body art che gli aborigeni d’Australia hanno coltivato per millenni non è peggiore o migliore, ad esempio, dell’arte barocca. Sono entrambe delle coinvolgenti manifestazioni della natura poietica di Homo sapiens, del suo incessante costruire mondi intorno e dentro di sé. Anche Patricia Piccinini costruisce opere -come Kindred (parenti, affini, 2018)– nelle quali risaltano gli elementi di continuità tra la specie umana e gli altri primati, in questo caso gli orangutan.
Questo e molto altro, soprattutto i numerosi video di vari artisti, è detto ed espresso in forme e modalità che confermano come tutta l’arte contemporanea sia arte concettuale.

Sfruttamento / Discriminazione

«Quando al negro capita di guardare il Bianco con ferocia, il Bianco gli dice: ‘Fratello, non c’è differenza fra noi’. Eppure il negro sa che vi è una differenza»
(Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, ETS, 2015)

Più che opportuno, un approccio critico all’idea e all’ideologia dei diritti umani è proprio necessario in un’epoca che sembra vedere in essi una nuova religione. È questa la prospettiva del numero 2/2018 del «Giornale critico di storia delle idee. Rivista internazionale di filosofia / Critical Journal of Ideas. International Review of Philosophy», che ha come titolo Dell’uomo e dei diritti / On Human and Rights (Mimesis, 2019; vi è è stato pubblicato anche un mio contributo dal titolo Oltre l’umanismo, oltre l’umanitarismo).
L’obiettivo metodologico, scrivono i due curatori del volume, «era quello di fornire una mappatura sul dibattito intorno ai diritti umani con il fine di portarne in superficie le contraddizioni, le paradossalità e le antinomie, per far deflagrare ed esplodere l’immagine della loro presunta neutralità e naturalità. […] Compito della storia critica delle idee è infatti quello di porre in discussione e ripensare i ‘diritti dell’uomo’ al di là tanto della loro presunta naturalezza, nella forma dell’evidenza della loro definizione, quanto della presunta neutralità della loro applicazione» (Gianpaolo Cherchi e Antonio Moretti, Nota editoriale, pp. 7-8).
L’origine borghese di questi diritti li caratterizza ab ovo non soltanto come puramente formali e quindi  adattabili a qualsiasi autorità, istituzione e scopo -emblematica una formula quale «guerra umanitaria»– ma soprattutto come falsamente universali. Dietro e dentro la loro formulazione abita infatti (come è ovvio) una certa e determinata idea di umano, quella dell’Occidente cristiano, che è una delle molte possibili ma che si presenta e si impone come l’unica pensabile.
La relatività, il particolarismo, la cangiabilità, la funzionalità a determinati obiettivi della teoria dei diritti umani sono mostrate in modo evidente e plastico dal plesso semantico terrorismo/terrorista. Nel suo saggio -uno dei più interessanti del volume– dal titolo Artefatti, ostensione e realtà istituzionale. Le ‘Unità anti-terrore’ nella guerra siriana, Davide Grasso analizza le ragioni per le quali individui, gruppi e istituzioni vengono definiti e si definiscono anche reciprocamente ‘terroristi’ e pertanto la grave debolezza epistemologica di questa caratterizzazione, che acquista senso soltanto in una prospettiva di propaganda politica: 

L’alone semantico del termine ‘terrorismo’ è estremamente oscuro tanto nel linguaggio giuridico che nel linguaggio ordinario. […] Il termine terrorismo è quindi da considerarsi, nei fatti, uno strumento concettuale utilizzato da attori differenti per squalificare questa o quella manifestazione di potere, che si origini contro le istituzioni o da parte di istituzioni considerate illegittime. Questo spiega in gran parte la difficoltà giuridica, e ancor più metafisica, di definire il terrorismo. […] Una qualifica attribuita dagli stati, da almeno un secolo, alle organizzazioni armate che promuovono o difendono istituzioni alternative a quelle esistenti (136-137).

I diritti umani sono, anche e specialmente, un dispositivo del tutto impolitico e per questo molto pericoloso. Hannah Arendt, filosofa di acuta intelligenza sulle cose umane, nelle Origins of Totalitarianism ha sostenuto che «i Diritti dell’Uomo sono i diritti di coloro che sono solo esseri umani, che non hanno altra proprietà rimasta loro se non quella di essere umani. In altre parole, sono i diritti di chi non ha diritti, la mera parodia del diritto» (Jacques Rancière, Who is the Subject of the Rights of Man?, p. 27).
Una parodia del diritto che fa da fondamento alla sostituzione dell’elemento politico con quello morale e psicologico. Sostituzione che giustifica ogni struttura oppressiva. Un esempio tratto da un ambito apparentemente lontano ma spero chiaro è il concetto francescano di povertà. Esso favorisce la rassegnazione alla diseguaglianza economica perché giustifica la condizione di povertà, addirittura esaltandola come veicolo di santità, e permette a chi non è povero di mostrarsi solidale e umanitario dando parte della propria ricchezza a chi sta peggio. A condizione che questo scambio volontaristico e personale non intacchi le strutture economiche e sociali che generano povertà e ricchezza: «i poveri li avrete sempre con voi; e quando volete, potete far loro del bene», come disse il Rabbi galileo (Mc., 14,7, trad. Nuova Diodati).
Significativo sino a risultare fondamentale è anche lo slittamento semantico che ha in pratica cancellato dalla saggistica e dal discorso pubblico la parola sfruttamento sostituita dal termine discriminazione. «Sfruttamento» si riferisce infatti a una struttura socioeconomica, «discriminazione» a un atteggiamento psicologico-giuridico. La prima parola implica la necessità di un cambiamento oggettivo, per la seconda è sufficiente una modifica formale dei rapporti di potere.
La «recensione critica» che Andrea Caroselli e Miguel Mellino hanno dedicato al libro di Didier Fassin Ragione umanitaria. Una storia morale del tempo presente (Gallimard 2010; trad. it. DeriveApprodi 2018) si intitola La trappola umanitaria: l’umano come cifra dell’accumulazione neoliberale. Ne riporto alcuni brani che non hanno bisogno di commento.

Le molteplici ‘emergenze’ degli ultimi anni mostrano come il discorso umanitario, che trasforma l’appello a una medesima condizione umana nella sostanza stessa della politica, necessiti non solo di mostrare la presenza di soggetti sofferenti, mobilitando un immaginario caritatevole, ma, ancor più significativamente, di spostare l’attenzione dalla struttura a un soggetto, costruito in termini morali, nel quale sarebbe possibile riconoscerci perché garantiti da una presunta unità del genere umano. Un’economia dello sguardo, dunque, nella quale all’analisi delle cause si sostituisce una cura degli effetti (242-243).
[…]
Il dispiegamento della logica umanitaria, difatti, non fa che spogliare gli eventi di qualsiasi specificità di ordine storico-politico-economico e, nella ripetizione senza differenze di eventi drammatici, riafferma continuamente sia lo stato di emergenza da cui è legittimata, sia i rapporti di disuguaglianza entro cui si iscrive (243).
[…]
Ed è qui che risiede l’essenza  e la forza (ideologica) della ‘ragione umanitaria’ come nuovo dispositivo egemonico di governo: nella sostituzione del vecchio lessico della politica organizzato attorno a espressioni come lotta, sfruttamento, dominio, diritti, giustizia, con una nuova grammatica discorsiva in cui a prendere il sopravvento sono nozioni di tipo morale come compassione, sofferenza, solidarietà (243).
[…]
Tuttavia, se è chiaro che ci troviamo permeati da un ordine del discorso politico dominato dall’empatia e dai sentimenti morali, è ormai altrettanto chiaro, a nostro avviso, come, per quanto riguarda le migrazioni, ‘il governo umanitario’ sia indissociabile dalla mercificazione progressiva del sistema dell’accoglienza, ovvero dai processi neoliberali di valorizzazione economica e di messa al lavoro di quegli stessi soggetti descritti attraverso la figura del ‘bisognos* d’aiuto’. Descrivere i dispositivi di governo umanitario senza metterne in evidenza né gli aspetti di rendita e di profitto, né la loro centralità nella produzione ’istituzionale’ di una forza lavoro precarizzata e semi-servile, equivale a de-politicizzare quella stessa critica alla de-politicizzazione che è la tesi forte dell’autore (244-245).
[…]
Per quanto la lotta per cercare di salvare vite umane sia assolutamente importante, ci sembra necessario che essa si rifletta all’interno di un’analisi che tenga conto della complessità del presente. Un’accettazione acritica del paradigma umanitario rischia infatti non solo di non rivelarsi all’altezza della sfida, ma di produrre effetti politici perversi (247)
.

Analisi come queste segnano la differenza tra una prospettiva economico/politica -e quindi strutturale ed emancipatrice dallo sfruttamento– e una prospettiva soltanto morale e sentimentale, limitata alla discriminazione formale e quindi reazionaria.

Guerre etniche

Sons of Denmark
(Danmarks sønner)
di Ulaa Salim
Con: Zaki Youssef (Ali), Mohammed Ismail Mohammed (Zakaria), Rasmus Bjerg (Martin Nordahl), Imad Abul-Foul (Hassan)
Danimarca, 2019
Trailer del film

A Copenhagen un attentato di matrice islamica miete decine di vittime. La piccola nazione danese si radicalizza nella violenza delle organizzazioni islamiste da una parte e dei movimenti ultraxenofobi dall’altra. Martin Nordahl guida un partito che ha come programma l’espulsione di tutti coloro che non sono cittadini danesi o che hanno ottenuto la cittadinanza come rifugiati. Diventa quindi l’obiettivo primario di una cellula islamista. Soltanto la presenza di un infiltrato (arabo) all’interno del gruppo islamista fa fallire l’attentato alla sua vita. Le organizzazioni xenofobe diventano sempre più violente e si riconoscono apertamente nel programma di Nordahl, il cui partito vince le elezioni a larga maggioranza. Qualcuno dovrà fermarlo.
La vicenda è ambientata da qui a qualche anno, nel 2025, e descrive il futuro prossimo e probabile dell’Europa: una condizione di endemica guerra civile tra etnie. È da irresponsabili (oltre che da ignoranti) pensare e agire come se gli esseri umani fossero soltanto individui irrelati tra loro, senza radici, senza legami, senza costumi, lingue e tradizioni condivise, senza identità. E invece Homo sapiens si è sempre organizzato, e sempre lo farà in quanto specie biologicamente sociale, in gruppi caratterizzati da differenze più o meno marcate, che nessun irenismo volontaristico può cancellare.
Non tener conto di questa struttura antropologica sta comportando lo sviluppo di sentimenti e idee di esclusione e rifiuto, come contrappeso a politiche di accoglienza universale. Gli elementi ospitati si sentono esclusi e non intendono, giustamente, rinunciare alle loro tradizioni, costumi, valori, in ogni campo della vita collettiva –familiare, alimentare, religioso, linguistico, sessuale. Gli elementi autoctoni si sentono esclusi dai propri spazi, minacciati nel reddito, nella sicurezza, nell’identità. L’insieme di queste tensioni fa sì che le società multirazziali diventino delle società multirazziste, come l’evidente fallimento del melting pot statunitense e il fallimento in atto di quello francese vanno ampiamente dimostrando.
Sons of Denmark racconta analoghe dinamiche che toccano la ormai non più tranquilla società danese e in generale scandinava. A Stoccolma, ad esempio, un intero quartiere, Rinkeby, è precluso agli svedesi di etnia bianca e anche questo ha indotto il più che accogliente parlamento di quella nazione a rivedere le proprie politiche sui migranti.
Grave e significativo è che le cause fondamentali dei flussi migratori –l’imperialismo statunitense che scatena guerre nell’Africa del Nord e nel Vicino Oriente, destabilizzando senza posa quei territori; le guerre israeliane contro gli arabi– producano conseguenze che non toccano né gli USA né Israele ma l’Europa, l’anello debole del colonialismo occidentale.
Nonostante tutto questo, l’intellighenzia e i decisori politici del nostro continente non sembrano rendersi conto di che cosa va preparandosi e continuano a difendere e a imporre pratiche di accoglienza universale. Le quali condurranno a un conflitto interetnico le cui conseguenze sono abbastanza facilmente prevedibili. Una comunità (e l’Europa, per quanto plurale sia al proprio interno, è una comunità rispetto a culture diverse dalla sua) la quale non si accorge per tempo dei pericoli di dissoluzione che la sovrastano è infatti destinata a spegnersi ed è giusto che si spenga. Anche per questo sono contento di non avere dei figli.
La fabula di questo film è dunque una lezione di sociologia dei fenomeni di conflitto e di assimilazione, che Ulaa Salim –regista di origini irachene nato in Danimarca– ben conosce.

Cile, bianco sangue

Blanco en Blanco
di Théo Court
Con: Alfredo Castro (Pedro, il fotografo), Lars Rudolph, Danny Huston (L’amico), Lola Rubio, Esther Vega
Spagna, Cile, Francia, Germania, 2019
Trailer del film

Agli inizi del Novecento parte del Cile era ancora terra di conquista di proprietari terrieri simili a quelli che agli inizi del XXI secolo vanno distruggendo l’Amazzonia, allo scopo soprattutto di creare pascoli e rifornire di carne le mense statunitensi ed europee.
Porter è uno di questi ricchi proprietari, le sue terre sono molto a Sud. Pedro è un fotografo che viene incaricato di immortalare il matrimonio di Porter e Sara, la sua giovane sposa. Sara è in realtà poco più che una bambina e Pedro ne viene affascinato. Porter non si presenta nella propria tenuta, il matrimonio viene rinviato, Pedro è coinvolto dagli sgherri di Porter nella strage delle popolazioni che abitano la Terra del Fuoco, i Selknam, che da questa conquista vennero sterminati sino a estinguersi. È uno dei tanti genocidi che sono accaduti e vengono dimenticati, concentrati come siamo a ricordarne incessantemente uno solo.
La prima parte del film narra l’arrivo di Pedro, il suo lavoro sul corpo e sull’immagine della sposa, il gelo che soffia tra le case e sulla terra. La seconda parte descrive il cedimento del fotografo/artista alla violenza perpetrata da coloni che non rispettano nulla, che massacrano e si fanno poi immortalare in queste loro imprese. Pedro organizza le foto della caccia grossa contro altri umani con la stessa meticolosità con la quale ha fotografato la sposa bambina. Due stupri, uno storico e l’altro allegorico, dai quali è nato il Cile moderno, come le altre nazioni frutto dei conquistadores, dei mercanti, dei missionari cristiani. Il luogotenente di Porter, infatti, sostiene che il primo edificio da costruire in un nuovo villaggio deve essere la chiesa.
I ritmi sono analoghi a quelli delle fotografie che emergono a poco a poco dalla camera oscura di Pedro; le inquadrature somigliano a dei dipinti solitari e lontani; non ci sono infatti primi piani in questo film ma immagini che rinviano agli spazi sconfinati e a una altrettanto grande solitudine. La fragilità di Pedro di fronte alla violenza degli umani, all’indifferenza del vento, al bianco della neve, disegna la disperazione della storia.

Il popolo

Soggetti e partiti progressisti -definirli di sinistra non è possibile se l’espressione vuole avere ancora un senso- sono mobilitati a difendere il colpo di stato tentato in Venezuela da Guaidó, un fantoccio di estrema destra sostenuto dagli Stati Uniti d’America del presidente Trump. Sono mobilitati a difendere Macron, un pericoloso esponente della finanza ultraliberista e nemica dei lavoratori, oltre che un campione del colonialismo. Sono mobilitati a difendere l’insensatezza tecnico-commerciale e la catastrofe ambientale (anche a causa della presenza di amianto nelle montagne alpine) del TAV. E tutto questo in nome di una categoria psichica che è sempre pericoloso applicare alla dimensione politica, l’odio. L’odio istintivo, irriflesso, pavloviano ma anche interessato nei confronti del Movimento 5 Stelle. Non dico nei confronti dell’attuale governo italiano ma proprio del Movimento 5 Stelle, che ha i suoi enormi limiti ma che è l’unica forza politica potenzialmente e ancora in grado di opporsi alla devastazione attuata dalla finanza, dal globalismo liberista, dai processi da tempo in atto di ritorno alla schiavitù di masse, ceti, popoli; schiavitù della quale il fenomeno migratorio è una delle massime espressioni contemporanee.
In questo modo i progressisti costituiscono i migliori alleati delle destre di tutto il pianeta. Una tragedia, una farsa, una hegeliana eterogenesi dei fini. Per quelli che sanno usare i congiuntivi e conoscono la storia, aggiungo che si tratta anche di una manifestazione della List der Vernunft.
Chi ha convissuto e collaborato con un piccolo borghese volgare e ignorante come Silvio Berlusconi ora alza il sopracciglio di fronte ai congiuntivi di Luigi Di Maio. Chi ha affidato i propri destini a un soggetto altrettanto ignorante e volgare come Matteo Renzi, non perdona citazioni e riferimenti errati alla storia. Come se giornalisti e blogger facebookiani fossero coltissimi  e grandi lettori…
Non si perdona il popolo che finalmente torna ad avere una rappresentanza politica, come accade in Francia con i Gilets jaunes. Quel popolo ignorante e vitale dal quale provengo. I miei nonni brontesi, paterno –Biagio– e materno -Illuminato- erano contadini analfabeti. Il primo emigrò in Argentina, dove dei malviventi gli sottrassero ciò che con grande fatica aveva risparmiato, lasciandolo miserabile com’era arrivato. Le mie nonne, materna -Rosa- e paterna -Giuseppa- scrivevano e leggevano a stento ma erano di una intelligenza, intuizione e ironia straordinarie. Il nipote di queste quattro persone è ora professore ordinario di Filosofia teoretica, ha scritto undici libri di filosofia e due di poesia, ha pubblicato sinora 472 titoli tra libri, saggi, articoli (e ha anche redatto 2059 testi in questo sito). Un simile salto sociale in appena due generazioni è stato reso possibile dalla presenza di forze socialiste e popolari nell’Europa della seconda metà del Novecento, dal Welfare State che venne messo in atto dall’Occidente anche per evitare rivolte e rivoluzioni  che si ispirassero all’Unione Sovietica. Fu questo uno dei vantaggi del bipolarismo rispetto al pericoloso unilateralismo contemporaneo. Se fossi stato oggi un giovane laureato in filosofia, con il retroterra familiare dal quale provengo avrei incontrato enormi difficoltà in un contesto ultraliberista che privilegia le rendite finanziarie a danno dei servizi collettivi e della mobilità di ceto. Un contesto del quale strutture politiche come Forza Italia e il Partito Democratico sono pienamente complici, forze che hanno totalmente abdicato ai diritti sociali collettivi anche in nome dei diritti civili individuali. E questo a partire dalla dissoluzione del Partito Comunista Italiano voluta dal suo ultimo segretario, Achille Occhetto, del quale non ho dimenticato una definizione data allora da un docente universitario iscritto al Partito: “un cretino”. Un cretino che però usava correttamente i congiuntivi e sapeva che la democrazia francese non è millenaria ma, più modestamente, secolare.
Condivido molte posizioni dell’anarchismo e difendo il populismo anche per ciò che devo ai miei avi contadini, al popolo ancora analfabeta che abita il quartiere catanese dove vivo (un mio vicino di appartamento è un pescatore che non sa leggere e scrivere) e le cui strade percorro sentendomi socialmente a casa. Il cancro di Catania, dell’Italia e dell’Europa non è il popolo incolto ma la borghesia corrotta. Sono orgoglioso di essere germinato dalla plebe siciliana e di questo popolo sarò parte sinché campo.

«Per favore non aiutateci più!»

Mi è stato segnalato da Dario Sammartino questo articolo di Massimo Fini, uscito su il Fatto Quotidiano. Lo riporto per intero, con una postilla. Le evidenziazioni sono mie.

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Aiutiamo l’Africa andandocene via

«Il debito è la nuova forma di colonialismo. I vecchi colonizzatori si sono trasformati in tecnici dell’aiuto umanitario, ma sarebbe meglio chiamarli tecnici dell’assassinio. Sono stati loro a proporci i canali di finanziamento, i finanziatori, dicendoci che erano le cose giuste da fare per far decollare lo sviluppo del nostro Paese, la crescita del nostro popolo e il suo benessere…Hanno fatto in modo che l’Africa, il suo sviluppo e la sua crescita obbediscano a delle norme, a degli interessi che le sono totalmente estranee. Hanno fatto in modo che ciascuno di noi sia, oggi e domani, uno schiavo finanziario».

Questo discorso fu tenuto nel 1987 da Thomas Sankara all’ ‘assemblea dei Paesi non allineati’, OUA. Fu assassinato due mesi dopo.
Debbo la conoscenza di questo straordinario discorso, ampiamente dimenticato, a un mio giovane amico, Matteo Carta, che lo aveva ripreso da un servizio di Silvestro Montanaro per il programma di Rai3 “C’era una volta” andato in onda alle undici di sera il 18 gennaio 2013. E questa fu anche l’ultima puntata di quel programma.
Thomas Sankara arrivò al potere con un colpo di Stato che rovesciò la pseudo e corrottissima democrazia. Nei quattro anni del suo governo fece parecchie cose positive per il Burkina: si impegnò molto per eliminare la povertà attraverso il taglio degli sprechi statali e la soppressione dei privilegi delle classi agiate, finanziò un ampio sistema di riforme sociali incentrato sulla costruzione di scuole, ospedali e case per la popolazione estremamente povera, fece un’importante lotta alla desertificazione con il piantamento di milioni di alberi nel Sahel, cercò di svincolare il Paese dalle importazioni forzate. Inoltre si rifiutò di pagare i debiti coloniali. Ma non fu questo rifiuto a perderlo, Francia e Inghilterra sapevano benissimo che quei debiti non potevano essere pagati. A perderlo fu il contenuto sociale della sua opera che i Paesi occidentali non potevano tollerare. Tanto è vero che nel controcolpo di Stato che portò all’assassinio di Sankara, all’età di 38 anni come il Che, furono coinvolti oltre a Francia e Inghilterra anche gli Stati Uniti che ‘coloniali’ in senso stretto non erano stati. Sankara doveva quindi morire. Non approfittò mai del suo potere. Alla sua morte gli unici beni in suo possesso erano un piccolo conto in banca di circa 150 dollari, una chitarra e la casa in cui era cresciuto.
Questo discorso di Sankara è più importante di quello che Gheddafi avrebbe tenuto all’Onu nel settembre del 2009 e che gli sarebbe costato a sua volta la pelle. Gheddafi, in un linguaggio assolutamente laico, come laico era quello di Sankara, si limitò, in buona sostanza, a denunciare le sperequazioni istituzionali e legislative fra i paesi del Primo e del cosiddetto ‘Terzo Mondo’ (questa immonda e razzista definizione ha un’origine abbastanza recente, fu coniata dall’economista Alfred Sauvy nel 1952 – Poca terra nel 2000). Sankara, a differenza di Gheddafi, centra l’autentico nocciolo della questione: le devastazioni economiche, sociali, ambientali provocate dall’introduzione in Africa Nera, spesso con il pretesto di aiutarla, del nostro modello di sviluppo. Ecco perché bisogna stare molto attenti quando, con parole pietistiche, si parla di “aiuti all’Africa”. Non per nulla parecchi anni fa durante un summit del G7 i sette Paesi più poveri del mondo, con alla testa l’africano Benin (Sankara era già stato ucciso) organizzarono un controsummit al grido di “Per favore non aiutateci più!” (mi pareva una notizia ma si guadagnò solo un trafiletto su Repubblica). Per questo tutti i discorsi che girano intorno al “aiutiamoli a casa loro”, che non appartengono solo a Salvini, sono pelosi. Noi questi Paesi con la nostra presenza, anche qualora, raramente, sia in buonafede, non li aiutiamo affatto. Li aiutiamo a strangolarsi meglio, a nostro uso e consumo.

Il solo modo per aiutare l’Africa Nera è che noi ci togliamo dai piedi. E dai piedi devono levarsi anche quelle onlus come l’Africa Milele per cui lavora, o lavorava, Silvia Romano, attualmente prigioniera nelle boscaglie del Kenya, formate da pericolosi ‘dilettanti allo sbaraglio’. Pericolosi perché -e almeno questo dovrebbe far rizzare le orecchie al nostro governo- sono facili obbiettivi di ogni sorta di banditi o di islamisti radicali a cui poi lo Stato italiano, per ottenerne la liberazione, deve pagare cospicui riscatti. È stato il caso, vergognoso, delle “due Simone” e dell’inviata dilettante del Manifesto Giuliana Sgrena la cui liberazione costò, oltre al denaro che abbiamo sborsato, la vita a Nicola Calipari. In quest’ultimo caso il soldato americano Lozano, del tutto legittimamente perché avevamo fatto le cose di soppiatto senza avvertire la filiera militare statunitense, a un check-point sparò alla macchina che si avvicinava e uccise uno dei nostri migliori agenti segreti.

Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2018
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Il colonialismo è una realtà camaleontica. È transitato dai missionari con la buona novella agli scienziati e ingegneri con le trivelle, dal nazionalismo terzomondista agli aiuti finanziari. Sempre in nome della civiltà, dell’umanità e del progresso. Anche per questo studio e amo filosofie incivili, antiumanistiche e barbariche come quelle di Schopenhauer, di Spinoza, di Heidegger, di Nietzsche, il quale raccomandava di guardarsi dai «Gutmüthigen Mitleidigen» (Frammenti postumi 1884, 25[296]), dai buoni e compassionevoli, come da persone pericolose. Aveva naturalmente ragione.
L’intero frammento è molto interessante perché Nietzsche auspica un «nuovo illuminismo» che si opponga «come Machiavelli» all’ipocrisia delle chiese, dei politici, dei preti, dei buoni, dei civilizzati. Ecco il testo: «Die neue Aufklärung.  / Gegen die Kirchen und Priester / gegen die Staatsmänner / gegen die Gutmüthigen Mitleidigen / gegen die Gebildeten und den Luxus / in summa gegen die Tartüfferie. / gleich Macchiavell». Il colonialismo occidentalista è in ogni sua forma una delle massime espressioni della «Tartüfferie».

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