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Catania sì bella e perduta

Catania 1870-1939. Cultura Memoria Tutela
ex Quartiere militare borbonico già Manifattura tabacchi – Catania
A cura di Irene Donatella Aprile
Sino al 25 marzo 2012

Per quasi un secolo molte operaie hanno buttato sangue e polmoni in questo luogo, trasformato nella manifattura dei tabacchi. Prima era stato il Quartiere militare edificato allo scopo di controllare la città dopo i moti del 1820-21. Adesso è diventata la sede del futuro (quanto?) Museo Archeologico regionale. Intanto, dietro l’imponente facciata neoclassica ospita una mostra documentaria di ineguale livello nelle sue sei sezioni ma certamente di grande interesse.
Paesaggio urbano mostra i progetti e le modifiche che tra fine Ottocento e primi Novecento privarono (e tuttora privano) Catania del suo mare. Da un lato, infatti, venne ampliato il porto ma dall’altro fu costruito proprio sulla costa il lungo viadotto ferroviario (i cosiddetti “Archi della marina”) che fa da ostacolo a un contatto diretto della città con il mare, tanto più dopo il successivo interramento degli archi stessi, sotto i quali all’inizio passava ancora l’acqua.
La sezione Archeologia espone una selezione, in verità piuttosto ridotta, di vasi, rilievi, statue conservate nel museo civico.
Quello dedicato all’Arte è lo spazio più ampio ed eclettico: pupi siciliani, dipinti di pittori non soltanto locali operanti nel periodo, gli eleganti arredi e quadri della Camera di commercio, collezioni private.
Una sezione specifica è dedicata alle Case della memoria, le case museo di Giovanni Verga, di Mario Rapisardi, di Alessandro Abate, l’interessantissima Casa del mutilato, con il suo intreccio di déco e di razionalismo modernista.
Editoria mostra la vivacità culturale che mai (per fortuna) è venuta meno in Sicilia. Un semplice e lungo elenco dei nomi degli scrittori più noti conferma come quest’Isola sia ancora un luogo di bellezza e di pensiero. L’editoria scolastica e i periodici documentano soprattutto la progressiva e totale subordinazione della scuola al fascismo. I libri di testo e i giornali per bambini e ragazzi sono tutti volti alla lode del Duce, alla ripetizione ossessiva delle sue formule, alla monumentalizzazione imperiale della storia italiana. È comunque molto intrigante osservare le copertine di questi libri e riviste: Il Balilla, Il Corriere dei piccoli, Emporium, La cucina italiana, La lettura, Le vie d’Italia (del Touring Club).
La sezione fondamentale per capire il senso della mostra è Architettura. Pur composto soltanto da progetti e da fotografie, è uno spazio che fa comprendere quanto sia bella ed elegante questa città. Catania pullula di ville neoclassiche, liberty, déco. Concentrate in particolare in viale Regina Margherita, sopravvivono anche in via Etnea, Tomaselli, Leucatia, Umberto, in viale Rapisardi, in corso Italia e in altri quartieri. Lo scempio urbanistico e il disordine architettonico degli anni Sessanta e Settanta hanno rubato alla città la sua armonia ma non sono stati capaci di fare tabula rasa di alcuni degli edifici più belli eretti in Sicilia nei decenni 1870-1940. Alcune di queste costruzioni sono in stato di profondo degrado -clamoroso il caso di Villa Manganelli-, altre sono invece state restaurate o non hanno mai perduto la loro forza: il cinema Odeon, il Palazzo della Borsa, Villa Pancari, caratterizzata da un armonioso liberty privo degli eccessi decorativi; è opera dell’architetto Paolo Lanzerotti, che fu molto attivo nella sua città e la cui vita (1875-1944) coincise con l’arco temporale documentato dalla mostra. 
Mostra che consiglio di visitare in quest’ultima settimana di apertura, nonostante i suoi proibitivi orari “catanesi” (9-13 tutti i giorni, con due sole aperture pomeridiane martedì e giovedì dalle 9 alle 18).
È bella Catania, nonostante lo stupro subìto da parte dei palazzinari, degli ignoranti, degli amministratori corrottissimi e incapaci che da decenni la governano senza pause con l’attiva complicità dei professionisti, dell’Università, del popolo. Tutti soggetti che sembrano contenti che lo spazio urbano nel quale si svolge la loro vita continui a essere violentato. Ma sotto il suo cielo azzurro e splendido la città mostra ancora, a chi sappia guardare, tutta la sua eleganza.

Città non umane

Fausta Squatriti
Ascolta il tuo cuore, città
Milano / Assab One
Sino al 2 dicembre 2011

Che cosa più della città è segno evidente della nostra specie? Spazi geometrici, costruzioni verticali, luoghi ben delimitati e differenti. Pietre, legno, cemento, ferro mescolati nell’aria e nella luce. Elementi naturali e artificiali intrecciati tra di loro. Una città è questo. E una città è anche gli umani che la abitano nel tempo. Fausta Squatriti ha ascoltato non il cuore, la volontà, i desideri, le passioni e la morte dei corpimente che le città costruiscono e ospitano ma la materia, la pura materia. Che essa sia organica o inorganica, plasmata dalla storia o accartocciata dai climi, ancora agente o immobilizzata nel guasto, è la materia che vince nelle opere di quest’artista. Materia che si esprime e canta in insiemi composti da fotografie, pastelli, cornici dentro le quali si è per sempre raggrumata una qualche struttura che una volta fu viva o attiva o funzionale e che adesso è soltanto la sua forma.

Si rimane in silenzio di fronte a simile coraggio. Al coraggio di cancellare dalle città gli umani e lasciare che esse diventino la vittoria del tempo. «Principio degli esseri è l’apeiron, la polvere della terra e del tempo, il suo flusso infinito…» afferma Anassimandro (DK, B1). Di questa polvere sono coperte le opere di Squatriti.
«Mais, quand d’un passé ancien rien ne subsiste, après la morte des êtres, après la destruction des choses, seules, plus frêles mais plus vivaces, plus immatérielles, plus persistantes, plus fidèles, l’odeur et la saveur restent encore longtemps…»  (À la recherche du temps perdu, Gallimard 1999, p. 46). Di tale odore a volte acre e altre neutro, di questo sapore di immobilità sono intessute le opere di Squatriti.
«Tutto vince e ritoglie il Tempo avaro / chiamasi Fama, et è morir secondo, / né più che contra ‘l primo è alcun riparo. / Così ’l Tempo triunfa i nomi e ‘l mondo» (Petrarca, Trionfo del tempo, vv. 142-145). Di tanto trionfo le opere di Squatriti sono fatte.

C’è un’opera, una scultura, che sembra distaccarsi da tutto questo. Disco rosso (1964) è una pura rossa semisfera al cui centro un vuoto genera lame, fulmini, coltelli. Strutture rivolte verso il cuore della sfera e verso lo spazio a essa esterno. Vibrano. Sono esse forse l’epifania del tempo, l’immagine più levigata e insieme più ferente dell’energia che il tempo è, il cui flusso produce le città una volta vive, ora vive ancora soltanto di se stesse. È il loro cuore, rosso come questa sfera, che l’artista ha saputo ascoltare.

 

 

Il fotografo, le città

Istanbul 05 010
Milano – Fondazione Stelline
Sino al 12 dicembre 2010

Lo spazio, gli spazi. Lo spazio come oggetto e soggetto, contenitore e contenuto, rappresentazione e sostanza. Gli spazi delle città che Gabriele Basilico sa cogliere nella loro natura fisica, di organismo che una volta nato cresce come un corpo vivo. E come un corpo, una città può essere ferita, invecchiare, rigenerarsi, morire.
Istanbul appare in tutta la sua confusa concrezione di legno, cemento, ponti, mare, luci, parabole satellitari. Un formicaio di case che nulla concede all’esotico, alla cartolina, alla storia. Per Basilico, la fotografia documenta e ricrea sempre e solo il presente. Protagonisti assoluti sono dunque e appunto gli spazi urbani, dei quali gli umani sembrano soltanto un epifenomeno.
Lo stesso sguardo il fotografo rivolge alle altre città che visita, come ben documenta il lungo e appassionante filmato che accompagna la mostra. Città soprattutto di mare, coi loro porti infiniti. La costa bretone sembra ampliarsi nel cielo cupo di tempesta; Genova è la potenza delle sue strutture portuali che fanno corona all’immobilità verticale della Lanterna; Beirut appena uscita dalla guerra sembra da lontano una delle tante città mediterranee, coi loro quartieri sventrati dalla pace e non dalle bombe; San Francisco è il conflitto/continuità tra i quartieri industriali dismessi e i tracotanti grattacieli della finanza.
Ma anche una città senza porto, Mosca, è colta nelle sue costanti e nelle trasformazioni, una città decisamente verticale, dove l’ossessione del potere si fa architettura. E l’architetto/fotografo torna poi sempre alla sua città, Milano, della quale lo interessano i quartieri meno alla moda, meno curati ma ricchi di una stratificazione produttiva e antropologica che l’immagine ufficiale cerca di nascondere o addirittura negare.

Per Basilico, infatti, la fotografia ha in sé una dimensione sociale essenziale e fondante. Che in lui diventa consapevolezza della non neutralità dello sguardo. Afferma infatti, in un brano della lunga intervista che intesse il film, che «posso fotografare le periferie accentuando il tono drammatico e gli scuri, ma posso invece avere uno sguardo più rispettoso della natura anche solidale di questi spazi». Ha ragione, non esistono luoghi ma solo interpretazioni. Basilico attraversa dunque le città col suo cavalletto sul quale una raffinata macchina analogica si ferma a cogliere, fedele, non soltanto ciò che si riflette nel diaframma ma soprattutto quanto l’occhio dell’artista aveva già colto e costruito.

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