Skip to content


L’inverno del nostro contento

Mosè Bianchi. La Milano scomparsa
GamManzoni – Milano
Sino al 26 giugno 2016

No, non è scomparsa la Milano dipinta con saggezza e affetto da Mosè Bianchi (1840-1904). Molti luoghi sono gli stessi; identica è soprattutto l’armonia e la nascosta forza di una città pensante. Disincantata, certo, ma piena di energia. Sfilano sulla tela questi luoghi e questa Stimmung.
Nel Tram del Carrobbio la luce sembra scatutire dal tram, mentre tutto intorno è pioggia e ombre. La Piazza del Verziere rappresenta una teoria di edifici grigi, riscattati dal bianco dei cavalli e dal rosso di una gonna. La Darsena di Porta Ticinese è uno spazio panoramico fatto di acque, carrozze, umani, alberi. Porta Ticinese d’inverno a Milano appare ancora esattamente così come il pittore la descrive. Nelle Colonne di San Lorenzo emergono due macchie di giallo e di rosso, corpi vivi dentro il tempo grigio. Non è indicato l’esatto luogo di un Giorno di pioggia a Milano ma mi è sembrato di aver intravisto un angolo del Cordusio. Il Carrobbio è un perfetto rettangolo di vita, un archetipo. Universale è anche Milano di notte, un quadro intessuto della potenza e dell’enigma della città, di tutte le città d’Europa. Soggetto ricorrente è Neve a Milano, un bianco che si confonde e fonde con il rosso dell’Occidente.
La mostra presenta anche opere di argomento non milanese: alcuni ritratti, episodi e momenti della vita di Chioggia (ancora una città), campagne e paesaggi. Coinvolgente Il lavoro della terra, nel quale trionfa un giugno di spighe, colline, architetture, luce.
La Milano di Mosè Bianchi è l’inverno del nostro contento, l’istante nel quale lo spazio si fa pensiero, memoria, sorriso.

 

Grecia / Europa

The Europe of Greece
Museo Archeologico di Thessaloníki
Sino al 19 aprile 2015

The Europe of GreeceUna piccola ma vivace mostra ospitata nel Museo Archeologico di Thessaloníki documenta dove e come i Greci siano arrivati, quanto numerose e ricche fossero e sono le poleis da loro fondate in tutta l’Europa, dalla Spagna al Mar Nero.
Emergono i nomi, la lingua, la religione, i miti.
Un’installazione consiste in un bosco nel quale alcuni alberi hanno nel tronco i nomi delle città fondatrici e nei rami quelli delle colonie. L’Europa è un’invenzione dei Greci. Per questo è, tutta intera, casa nostra.

Dentro il Castello

Luca Beltrami. Storia, arte e architettura a Milano
Castello Sforzesco – Milano
Sino al 29 giugno 2014

mostrabeltrami3Il Castello Sforzesco è un’icona di Milano. In ottime condizioni, con grandi cortili dove si svolgono numerose manifestazioni, con sale e sotterranei che ospitano mostre temporanee e dove soprattutto hanno sede le raccolte d’arte e archeologia tra le più preziose della capitale lombarda. Eppure alla fine dell’Ottocento mancò poco che venisse raso al suolo. Era stato, infatti, luogo di prigionia e di sofferenza per quanti si opponevano al dominio straniero sulla città. Era stato anche luogo di residenza per gli eserciti nemici. Dopo l’Unità la convergenza di questa pessima fama e delle mire speculative spingeva molti a volerne la distruzione. Per fortuna ci furono artisti, intellettuali e politici (sì, allora persino politici) che seppero guardare più lontano e che ne chiesero invece la salvezza e il restauro.
Il principale protagonista della salvaguardia e ricostruzione del Castello, e di molti altri luoghi della Milano borghese di fine Ottocento e inizi Novecento, fu Luca Beltrami (1854-1933). Architetto, incisore, storico dell’arte, Beltrami ha lasciato sulla sua città un segno che tuttora è quello dominante. Piazza della Scala, il Palazzo della Permanente, la Sinagoga, la sede del Corriere della Sera, costituiscono le sue principali realizzazioni. Aveva anche pensato a una diversa facciata del Duomo ma questo progetto non venne realizzato.
E poi il Castello, appunto. Qui Beltrami esprime al meglio il suo profondo rispetto per la stratificazione storica, la sua puntuale preparazione documentaria, l’equilibrio tra quanto fu da cancellare, ciò che andava preservato/trasformato e le parti nuove. Di aspetto quattrocentesco, la sagoma e il corpo del Castello familiarissimo ai milanesi sono in realtà ottocenteschi e si devono a questo architetto.
Castello_Sforzesco_MilanoÈ dunque un giusto omaggio quello che il Castello ora gli dedica. Si possono così consultare i progetti, vedere le immagini che testimoniano del prima e del poi dell’edificio, seguire l’avanzare dei lavori, godere del risultato non semplicemente guardando e leggendo ma standoci proprio dentro. L’ultima parte della mostra ha sede nella Sala del Tesoro prospiciente la Rocchetta -un austero e bellissimo cortile- e contiene le opere rinascimentali salvate e valorizzate da Beltrami.
Questa città che non si ferma mai, che trasforma continuamente se stessa e il proprio paesaggio urbano, ha trovato in Beltrami un architetto non soltanto competente e corretto ma anche davvero innamorato di Milano.

 

Abitare

Marco Petrus. Atlas
Palazzo della Triennale – Milano
Sino al 2 giugno 2014

Quando è pensata, quando è geniale, l’architettura contemporanea rappresenta un mondo di strutture e di funzioni nel quale immergersi per sentire la potenza del costruire, se esso è frutto dell’abitare. Come nel Bauhaus, per esempio, con le sue linee essenziali, semplicissime, pervase di una razionalità mai fine a se stessa. L’architettura è la meraviglia dell’abitare umano consapevole di sé.
Nelle pitture esatte e scandite di Marco Petrus essa si fa ritmo, onda, musica. I colori sono accesi e intensi, un po’ come nella Pop Art. I cieli che si affacciano sulle e dentro le costruzioni sono turchesi e arancioni. Gli edifici, oggetto esclusivo e non antropico di queste opere, riproducono a volte architetture esistenti, altre invece le inventano. Berlino, Napoli, Helsinki e soprattutto Milano. Della città lombarda si riconoscono la Torre Velasca, il Garage Traversi-Rosso, il Grattacielo Pirelli, la torre del Parco Sempione, la Camera del Lavoro. Prospettive diagonali, proiezioni ortogonali, ombre e luci scintillanti, disegnano un mondo che prima che stare nello spazio abita nel corpomente umano. Come sempre.

 

Milano

Milano tra le due guerre
Alla scoperta della città dei Navigli attraverso le fotografie di Arnaldo Chierichetti

Palazzo Morando / Museo di Milano
Sino al 13 febbraio 2014


Chierichetti_Milano_tra_due_guerre
Non come Venezia ma simile alla città pervasa dalle acque. Così Milano è stata ed è apparsa per secoli, sino a quando una delle tante stolte decisioni d’epoca fascista interrò la cerchia dei Navigli. Poi arrivarono anche i bombardamenti anglo-americani a radere al suolo palazzi e quartieri. Ma durante questi attacchi alla città sembra che i milanesi dicessero: «Cossa gh’é de piang? Se ved propi che si mai staa a Pompei». Un’ironia che ha permesso ancora una volta a Milano di rinascere e a molti di ripetere le parole dedicatele da Stendhal: «Questa città divenne per me il più bel luogo della terra». Non pochi milanesi fanno fatica a capire come si possa amare così la loro città. Una risposta l’ha data Vittorio Sereni. Forse bisogna infatti venire dalla provincia lombarda -come questo poeta- o essere nati in un paesino, magari del Sud, per invitare a meditare su «cosa può essere –voi che fate / lamenti dal cuore delle città / sulle città senza cuore- / cosa può essere un uomo in un paese, / sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante / e dopo / dentro una polvere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai» (Gli strumenti umani, Einaudi 1980, p. 67). La città aiuta a redimersi da questo diventare nulla; lo fa anche attraversando «i corsi l’uno dopo l’altro desti / di Milano dentro tutto quel vento» (Ivi, p. 21).
Bellissima immagine che si fa figura nelle fotografie che Arnaldo Chierichetti dedicò alla città. Le acque di Milano, i suoi spazi, il vento, la luce riflessa dagli edifici e le nebbie attraversate dagli ultimi brumisti diventano vedute, tagli, documento. Diventano, quando l’oggetto delle fotografie sono i Navigli, «la quintessenza stessa del rimpianto».
Ma la potenza della struttura urbana inventata dagli umani circa dieci millenni fa -luogo finalmente di una conquistata identità rispetto alle instancabili differenze del nomadismo- permette anche a Milano, come alle altre città del mondo, di mutare incessantemente e tuttavia rimanere sempre quello spazio intimo e aperto, riservato e rutilante, grigio e fastoso, che anche queste immagini testimoniano.

 

Ignoranza e altri crimini

Mente & cervello 100 – aprile 2013

Il terremoto che il 6 aprile del 2009 colpì l’antica e splendida città dell’Aquila fu forse -nonostante i 308 morti e i 1600 feriti- il minore dei mali che da allora si sono riversati su quella terra. La catastrofe foriera di angoscia, di perdita dell’identità storica, di gravi sindromi tra i quali la depressione, è arrivata dopo ed è stata portata non dalla Terra e dalla sua energia ma dai potenti e dalla loro ignorante avidità.
È quanto emerge con chiarezza da un’inchiesta di Mente & cervello dal titolo «Il terremoto dell’anima». Si accenna alla corruzione profonda che guidò le scelte del governo Berlusconi e della Protezione civile in mano ai suoi complici. Al di là della stessa corruzione fu -ed è- una profonda ignoranza antropologica e filosofica a ispirare i delitti di costoro. Ignoranza del fatto che «una città, e tanto più una città italiana, con una storia millenaria, non è solo un luogo dove le persone abitano. È un luogo dove le persone vivono» (M. Cattaneo, p. 3). E invece le fredde e artificiali New Town sono «non luoghi, spazi replicati a cui non si riesce a dare significato» (R. Salvadorini, 32). Soltanto un’ideologia politicotelevisiva come quella di Berlusconi poteva scambiare il gelo di una scenografia pubblicitaria -la New Town appunto- con il calore dei luoghi dove si stratifica la vita. La decisione di non ricostruire subito il centro dell’Aquila deportando invece i suoi abitanti in tali non luoghi è uno dei più gravi crimini dei governi berlusconiani. Ma non è bastato neppure questo: la menzogna televisiva -sempre guidata dallo stesso soggetto- si è accanita a produrre quello che lo psicoterapeuta Massimo Giuliani ha definito il trauma mediatico, vale a dire «la negazione degli eventi e della sofferenza. A partire dalla frase di Berlusconi che invitava a prendere le tendopoli come una “vacanza in campeggio”. Un invito a non credere alle proprie percezioni. […] Quando in certe trasmissioni si sentiva dire che gli aquilani stavano bene, molti vivevano l’ingiustizia di vedere negato il proprio disagio concreto; così quello che è successo all’Aquila ha fatto sentire molte persone violentate nella propria sofferenza. […] Perché non c’è niente di peggio che raccontare bugie sul dolore delle persone». E quindi è adesso necessaria la «ricostruzione dei luoghi, dello spazio e di una “saldatura” del tempo» (Id., 33).

A quanti -siano essi fisici o metafisici- si ostinano a negare l’esistenza e la pervasività del tempo risponde la realtà stessa dei loro cervelli, i cui neuroni hanno bisogno di un continuo dinamismo spaziotemporale anche soltanto per continuare a percepire suoni, colori, immagini, odori, sapori.  Quegli odori e quei sapori dei quali «il neuroscienziato Proust» (così lo definisce Jonah Lehrer nel titolo di un suo libro) era perfettamente consapevole. Un articolo di Daniela Ovadia riassume la fisicità del tempo proustiano, la potenza della memoria corporea sulla quale è edificata l’intera Recherche, la scoperta che i ricordi sono continuamente riscritti dalla condizione presente in vista degli obiettivi futuri, la consapevolezza che il tempo è anche tutto questo poiché a essere corporea è la vita.
«Per diventare stabili, i ricordi devono creare nuove sinapsi e ogni rievocazione ne modifica la struttura biologica, consolidando i legami tra alcuni neuroni e rimuovendone altri. Ecco perché ciò che ricordiamo è fallace e contiene sempre una quantità più o meno grande di “invenzione”, una situazione che Proust, terrorizzato dall’idea di perdere tracce di sé, aveva già magistralmente descritto nella sua opera» (45).
Il corpomente intriso di memorie e di attese, il corpomente fatto di tempo, è sempre stato il vero obiettivo anche di coloro che dicono di dedicarsi all’“anima”. Il Museo laboratorio della mente, allestito a Roma nell’ex manicomio di Santa Maria della Pietà, mostra ancora una volta come ogni potere sia un biopotere. Nei suoi spazi si fa evidente «come l’istituzione prenda possesso del corpo, l’ultima cosa che davvero apparteneva al paziente e lo distingueva dagli altri» (G. Sabato, 85-86).
È quanto testimoniano anche il celebre esperimento che Stanley Milgram condusse nel 1963 -a partire dal caso Eichmann- e che trasformò dei semplici volontari in aguzzini di altre persone soltanto perché qualcuno in camice bianco ordinava loro di trasmettere delle scariche elettriche “in nome della scienza”. (D. Ovadia, 66 e sgg.).
Lo testimonia la persistenza di una pratica come la vivisezione, ormai tenuta in piedi soltanto per ragioni finanziarie e non scientifiche, tanto che persino Steven Hyman, già direttore del National Institut of Mental Health (NIMH) e ora docente ad Harward, sostiene che «i ricercatori e le autorità dovranno trovare il coraggio di saltare la sperimentazione animale, che rischia di essere fuorviante» (intervista di G. Sabato, 39). Che si tratti di una pratica tanto feroce quanto insensata è dimostrato da un “esperimento” di questo genere: «Come modello della depressione si prendono topi appesi per la coda o messi in un recipiente d’acqua e si misura quanto tempo impiegano a smettere di dimenarsi, segno che ormai sono “disperati”. Ovviamente il test non riproduce le tante manifestazioni e meccanismi biologici della depressione. Ma l’imipramina, uno dei primi antidepressivi, prolunga il tempo per cui i topi lottano, e questa capacità di “contrastare la disperazione” è presa a segno dell’efficacia. […] Questi studi non hanno aggiunto nulla alla comprensione della patologia depressiva. In questo caso del resto neanche la biologia del fenomeno è rispecchiata: i test nei roditori individuano composti che agiscono dopo un’unica somministrazione, mentre l’umore dei depressi migliora solo dopo settimane d’uso» (36).
Ci sono tanti modi di essere ignoranti ma gli effetti sono sempre criminali. Su questo Socrate aveva ragione.

Spazio / Colore

Emilio Tadini 1985-1997. I profughi, i filosofi, la città, la notte
Fondazione Marconi – Milano
Sino al 31 ottobre 2012

Palazzi e intere città, animali, oggetti pullulanti nello spazio, un mare turchese scuro e densissimo (Oltremare, 1990), umani di ogni storia, di ogni età, condizione, aspetto. Tutto questo si interseca su piani temporali differenti ma sulla tela contemporanei, uniti dalla sapienza del colore e della forma. La stessa sapienza della grande pittura italiana dal Rinascimento alla Metafisica, il cui richiamo si fa evidente nella splendida serie delle Città italiane. Una pittura geometrica e onirica, pulita e monumentale. Nella quale l’essenza comica e triste, clownesca e tragica, degli umani si fa figura in continua lotta con lo spazio, in un moto costante, circolare e sprofondato.
La densità cromatica e plastica dell’arte di Emilio Tadini (1927-2002) descrive un mondo pieno sino alla bulimia (emblematico il Pasto del grande metafisico, 1989) ma anche ascetico nei silenzi, colorato come un’infanzia e simbolico come il pensiero. 

 

Vai alla barra degli strumenti