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Castelbuono

Intanto partendo dalla zona etnea ci si arriva attraversando i magnifici, freschi, silenziosi boschi dei Monti Nebrodi. Dopo Cesarò (arroccata su uno sperone di roccia che al di là del Simeto guarda tutta la magnificenza dell’Etna) e prima di Sant’Agata di Militello c’è solo San Fratello (arroccato anch’esso tra i monti e il mare). Nel mezzo faggi, querce, lecci, roverelle e altri alberi, il respiro della Terra. Nel mezzo cavalli, piccoli maiali neri, mandrie di mucche, greggi di pecore e capre. Nel mezzo la nebbia anche ad agosto, la pioggia, la frescura.
Poi l’autostrada da Sant’Agata sino a Castelbuono. Dove le case e le strade sono circondate da montagne, alture, boschi che si vedono, intravedono e ammirano da ogni punto del paese. Dove l’intrico delle stradine medioevali scandisce un’armonia fatta di pietre, di scalinate e di una toponomastica nella quale una stradina a gradoni, ricolma di belle piante, è intitolata a «Giovanni III di Ventimiglia, I Principe di Castelbuono (1550-1619)».
Fu infatti la famiglia dei Ventimiglia, originaria della Liguria, a fortificare questo luogo con un Castello che al paese dà non soltanto il nome ma anche l’identità e la bellezza. L’esterno è di una semplicità che ben si coniuga alla potenza. L’interno è sede del Museo Civico, articolato nelle sezioni di archeologia medioevale, urbanistica (attualmente chiusa), arte sacra, arte moderna e contemporanea e l’assai bella Cappella Palatina, decorata in ogni angolo dagli stucchi di Giuseppe e Giacomo Serpotta.
A breve distanza dal Castello si trova la Matrice Vecchia, un vero e proprio museo d’arte sacra dentro il quale si rincorrono affreschi medioevali alle colonne, il fastoso Polittico rinascimentale dell’Altare Maggiore e una cripta interamente decorata da affreschi che narrano la Passione.
Tra le altre (tante) chiese, due sono di particolare rilievo: la prima è San Francesco d’Assisi, che ospita il mausoleo e le tombe dei Ventimiglia e un bel chiostro dove meditare; la seconda è dedicata alla Madonna dell’Itria, un edificio in non ottime condizioni e il cui ingresso è in parte occupato e nascosto dai tavolini di un bar ma che ha un altare dedicato alla Vergine Odigitria, una singolare madonna viaggiatrice.
Tutto a Castelbuono ruota sull’asse che collega il Castello a Piazza Margherita ed entrambi gli spazi alle altre strade che da qui si dipanano e che questi luoghi intersecano. Nelle vie del centro storico tutto è pulitissimo, nessuna cartaccia a terra, nessuna sporcizia. Una rarità per la Sicilia.
Gli abitanti di questo luogo sono particolarmente gentili. Che discendano dai contadini, dai campieri, dai mercanti, dagli artisti e forse anche dai signori, l’impressione è che sappiano di non essere lì per caso, di avere un’identità che affonda nel tempo. Condizione essenziale per essere abitatori di una città e non soltanto gli occupanti delle sue case, condizione essenziale per essere degli umani radicati in un territorio e non i sudditi dello sradicamento (Bodenlosigkeit) e della devastazione (Verwüstung), pericolo dal quale i Taccuini neri (Schwarze Hefte) di Heidegger mettono con saggezza in guardia.

 

Palermo 2024

Di tanto in tanto ho occasione di recarmi a Palermo, cosa che mi dà molta gioia. Si tratta infatti di una tra le più belle e contraddittorie città d’Europa, nella quale convivono fianco a fianco – praticamente strada accanto a strada – lo splendore di chiese, cattedrali, palazzi normanni e barocchi e la miseria di quartieri che sembrano essere stati appena bombardati. Uno di questi quartieri è stato da poco riqualificato. Si tratta della Marina, che ha al centro il Castello a mare; zona che per decenni è stata un insieme disordinato e sporco di macerie e che adesso scandisce tra la città e il mare uno spazio aperto, con specchi d’acqua, passeggiate, negozi. 

Tutto è nuovo e pulito ma trasmette una sensazione invincibile di artificiosità, lo spazio essendo stato riempito soprattutto di bar e ristoranti sin troppo alla moda. In ogni caso si tratta di un piccolo tratto di un fronte a mare assai più esteso, che richiederebbe non interventi cosmetici ma un vero ripensamento della città e del suo rapporto con il mare. Richiederebbe anche risorse finanziarie che i decisori politici nazionali preferiscono utilizzare in grande quantità per finanziare guerre e armi (nonostante la lettera e lo spirito dell’articolo 11 della Costituzione Repubblicana).
Altre strade di Palermo, che erano prestigiose e piacevoli, sono cadute nel degrado. In via Roma, l’arteria rettilinea che collega la Stazione centrale ai quartieri a ovest della città, un negozio su tre ha chiuso; saracinesche sprangate dappertutto; molti tra i negozi sopravvissuti sono drogherie venditutto, piene di ciarpame turistico. Sono locali gestiti per lo più da asiatici e da africani. Malinconia e sporcizia dappertutto.
Ma nelle stradine parallele e perpendicolari a via Roma pulsa ancora una città vera. In una piazzetta accanto a via Gagini un libraio accatasta tra il negozio e l’esterno 70.000 libri e riviste sugli argomenti più diversi. La qualità è bassa ma la passione del titolare e il fatto che si offrano e si acquistino libri di varie epoche regalano un sorriso.
Palermo è anche il manufatto edilizio incomprensibile che si vede qui sotto e che si trova nel Vicolo della neve all’alloro, una struttura che sembra nascere e finire nel nulla. E Palermo – come si vede nell’immagine di apertura – è anche un insieme armonioso di palme, rovine, castelli, mare e navi. Tutto insieme.

Qui sotto l’ingresso di Palazzo Steri, sede del Rettorato dell’Ateneo del quale sono stato di recente ospite per conversare su temporalità e metamorfosi con Salvatore Tedesco, Chiara Agnello, Rosaria Caldarone, Peppino Nicolaci e altri amici nella magnifica sede dell’Orto Botanico dell’Università. 

Una quantità innumerevole di specie vegetali e animali occupa gli ettari di questo luogo. Come viventi, la loro trasformazione è continua. Ma anche le pietre, i palazzi, i quartieri vivono una incessante metamorfosi. Perché, impalpabile e sfuggente, il tempo è motore della corruzione e della fine e anche per questo è l’adesso e l’ovunque, «il tempo sembra essere presente in ogni cosa, sulla terra e nel mare e nel cielo» (Aristotele, Phys., IV, 223a). Realtà e metamorfosi sono la medesima struttura, come le città mostrano agli occhi e alle gambe di chi dentro esse cammina.

Vicoli e capitali

Ci sono dei luoghi che rappresentano una sintesi, un’epitome, un simbolo, un’antologia.
Il complesso di chiese, chiostri e monastero di Sant’Anna dei Lombardi a Napoli è uno di questi luoghi. L’ho visitato in occasione della presentazione di Chronos alla Federico II. Vi sono arrivato attraversando i vicoli e le piazze (vivacissima Piazza Dante) dei Quartieri Spagnoli, vero cuore della città, antico e del tutto contemporaneo. Li abita un’umanità variegata, dal linguaggio e dai costumi immutati nei secoli; un’umanità creativa e teppista, che lascia le automobili negli angoli più impensati, compreso il centro delle strade; un’umanità rassegnata e vibrante.
Su una piccola altura preceduta da una fontana, Monteoliveto, sta una chiesa che è quanto rimane di un antico monastero dei monaci olivetani. La facciata è sobriamente rinascimentale, l’interno coniuga il Rinascimento con il proliferare del Barocco, con il suo tripudio di forme, colori, ornamenti, putti, folle, estasi.
Il tesoro di questo luogo è la Sagrestia affrescata da Giorgio Vasari nel 1544-1545. In basso le tarsie lignee di Giovanni da Verona, in alto una vera e propria cosmologia che raffigura le costellazioni, le virtù e gli archetipi della Religione, dell’Eternità e della Fede [immagine di apertura].
La Sagrestia è preceduta da una cappella con l’insieme di terracotta del Compianto del Cristo morto scolpito da Guido Mazzoni nel 1492. Le statue a grandezza naturale esprimono la forza del dolore umano, la disperazione dell’irreparabile, l’amore e il rimpianto per chi più non è, una vera e propria lacerazione dell’esserci.


L’insieme dei luoghi, delle cappelle, delle opere di Monteoliveto conferma il dato antropologico della inseparabilità di mito, bellezza e tragedia che intrama tutte le forme religiose autentiche, di qualunque luogo e civiltà. Il cattolicesimo rappresenta uno degli esempi più compiuti di questo plesso di significati e di vita, una ricchezza che deve alla sua continuità con la civiltà del paganesimo mediterraneo. Osservata da questa prospettiva, la Riforma luterano-calvinista non è neppure una religione ma è un’ideologia politico-moralistica. Persino l’Islam, nonostante il divieto di raffigurare forme umane e animali, ha trovato la strada di espressioni artistiche che non descrivono persone ma costruiscono geometrie di grande eleganza. Nulla di tutto questo nell’ebraismo, che è figurativamente miserrimo e con il quale il cristianesimo riformato volle porsi in continuità nonostante l’accesso antisemitismo di Martin Lutero.
Ancora una volta e a ogni viaggio Napoli si conferma una città dalla scoperta infinita, città potente, viva e dai connotati antropologici che ne fanno la vera capitale d’Italia. 

D’Annunzio / Pescara

Museo Casa Natale di Gabriele D’Annunzio
Pescara

In occasione del III Convegno della SIFiT ho visitato Pescara, una città insolita per il territorio italiano. Nata dall’unione di due piccoli borghi sulle sponde del fiume omonimo, Pescara esiste solo dal 1927. Un luogo giovanissimo, quindi, senza storia, senza stratificazione, ma che esercita un fascino dato dall’ampiezza delle strade, dalla loro ariosità, dalla luce del mare e del cielo che si riflettono l’uno nell’altro. Mare che tocca la città, arrivando la sabbia dell’Adriatico proprio dentro l’Esplanade che separa e unisce il Viale della Riviera con il Lungomare Matteotti. Un luogo pianeggiante e piacevolissimo da percorrere.
Poco lontana dal fiume c’è la casa natale di Gabriele D’Annunzio, oggi restaurata e diventata un Museo che raccoglie e conserva i mobili posseduti dalla famiglia, documenti di varia natura, manoscritti del poeta, fotografie, immagini, abiti, quadri. E che trasmette soprattutto l’atmosfera elegante e raccolta di una dimora altoborghese della seconda metà dell’Ottocento, atmosfera testimoniata anche dai soffitti affrescati, dal bel cortile interno con un pozzo, dalla struttura insieme moderna e medioevale del palazzetto.
Ho visitato questo spazio in compagnia dell’amico professore Pio Colonnello, con il quale condivido l’apprezzamento e l’interesse per la poesia di D’Annunzio, che nei suoi migliori esiti ed espressioni è musica, pura musica verbale, nella quale a contare non è il significato ma il significante.
Non sarà dunque illegittimo attribuire il significante della strofa conclusiva di Stabat Nuda Aestas non soltanto alla donna intravista e posseduta su una spiaggia ma alla città intera di Pescara, elegante e sinuosa accanto al mare:

Tra i leandri la vidi che si volse.
Come in bronzea mèsse nel falasco
entrò, che richiudeasi strepitoso.
Più lungi, verso il lido, tra la paglia
marina il piede le si torse in fallo.
Distesa cadde tra le sabbie e l’acque.
Il ponente schiumò nei sui capegli.
Immensa apparve, immensa nudità.

Una città/donna che somiglia a Letizia de Felici, la Mèlitta di D’Annunzio la cui foto si trova nel Museo e che meritò dal poeta questa luminosa dedica: «a Mèli – nella notte dorata dalla sua nudità e dall’alabastro come da due lampade segrete».

Matera

Un luogo abitato sin dal Paleolitico, per la sua posizione strategica e agevolmente difendibile; per la roccia calcarenite della quale è fatto, facilmente scavabile e lavorabile; per le terre che lo circondano. Un luogo dalla storia complessa e tragica, ricco nei secoli XVI e XVII e poi progressivamente immiserito sino alle condizioni davvero impensabili descritte da Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli  e da Rocco Scotellaro, il quale espresse la forza di questa terra e dei suoi abitanti nei versi di Sempre nuova è l’alba: «che all’ilare tempo della sera / s’acquieti il nostro vento disperato. / Spuntano ai pali ancora / le teste dei briganti, e la caverna – / l’oasi verde della triste speranza – lindo conserva un guanciale di pietra…».
Parole che descrivono e cantano l’identità di Matera e in generale della Lucania, identità che in questa città si raggruma. Di grotte, di palazzi, di chiese rupestri sono fatti i Sassi, i due quartieri ripidi e bianchi collegati dalle strade, dalle scale e dalle abitazioni della Civita. Sotto a queste strutture urbane, in una gola  precipite e scoscesa, scorrono le acque della gravina, un ampio torrente che non forniva di acqua la città ma che raccoglieva le sue deiezioni e che continua nella notte a riempire di suoni il silenzio delle strade.

Nel Sasso Barisano si trovano la chiesa romanica di San Giovanni, perpendicolare rispetto all’ingresso e alla piazza, ricca di affreschi ben conservati; la chiesa di San Pietro Barisano, la più grande fra le chiese rupestri, in gran parte spogliata dei suoi colori e con l’inquietante «Sepolcrario» dove scolavano i cadaveri degli ecclesiastici, in modo che la carne corruttibile evaporasse per lasciare la perennità delle ossa; l’imponente Sant’Agostino e il suo convento, costruiti a precipizio sulla gravina.
Dal Sasso Caveoso pende sulla gravina la chiesa di San Pietro, dalla quale partono le scale e i sentieri che vanno verso altre chiese rupestri (sono decine e decine in tutta la città); particolarmente ben tenuta tra di esse è S. Lucia alle Malve, dietro la quale si estende il Convicinio di Sant’Antonio con le sue cripte monacali. Al centro visivo e geometrico del Sasso sta il Monte Errone, sotto e dentro il quale si trovano i complessi della Madonna De Idris e S. Giovanni in Monterrone; di fronte a essi l’altro Sasso e la Civita appaiono riempiti di una identità che da ogni punto di Matera rende uniforme il paesaggio urbano e di una differenza che in ogni punto cambia diagonali, luce e prospettive.
Nella Civita gli spazi/chiese scavate nella roccia della Madonna delle Virtù e di San Nicola dei Greci, ambienti complessi su più piani, che affondano nella terra e si alzano in balconi naturali e luminosi; il Convento di S.Lucia che sembra pendere sul baratro del torrente.
Nel Piano emergono una chiesa – S. Francesco – romanica all’esterno e barocca nel suo interno e la Piazza del Sedile, dalla quale parte la strada che porta al più grande edificio religioso di Matera, il Duomo romanico con il suo campanile visibile da qualsiasi punto della città, con il grande rosone che sembra in movimento, con il colore bianco di dolcezza che i lunghi restauri hanno restituito allo sguardo che prima era opaco, scuro. Tornando a San Francesco, si scende verso l’elegante via Ridola, che ospita le chiese di S. Chiara e del Purgatorio e finalmente, un luogo non cristiano, il Museo Archeologico Nazionale intitolato a Domenico Ridola, che intuì, raccolse e conservò i tesori pagani di queste terre: magnifici vasi di ogni dimensione che raccontano i miti greci; una sezione permanente dedicata alla Collezione Rizzon, a Tiresia e ai poemi omerici (Tiresia, il mito tra le tue mani), ricostruzioni di insediamenti preistorici e reperti tra i più antichi che gli umani in questi luoghi abbiano inventato per vivere, coprirsi, nutrirsi, camminare. 

Alla fine della strada, in basso, sta l’antico Palazzo vescovile Lanfranchi, solenne e ampio, nelle cui sale è ospitato il grande dipinto di Carlo Levi Lucania ’61, un poema per immagini forse anche un poco retorico ma che con le sue centinaia di figure umane esprime con singolare efficacia la durezza della vita contadina in queste terre, la sua rassegnazione, il progressivo elemento di riscatto.
Di Levi, nei piani superiori, il Palazzo ospita numerose tele donate dall’artista: dagli inizi ispirati al realismo magico sino alle tendenze astrattiste degli anni Sessanta del Novecento; dipinti di pittori lucani, tra i quali è particolarmente intrigante l’opera del materano Luigi Guerrichio;  l’ampia raccolta del collezionista privato Camillo D’Errico, una antologia di storia dell’arte napoletana tra Sei e Settecento; numerosi oggetti d’arte sacra che affondano sino all’Alto Medioevo.
Dalla parte opposta della via si trova la Piazza Vittorio Veneto, con la Fontana Ferdinandea e soprattutto il «Palombaro Lungo», un’enorme cisterna che raccoglieva milioni di metri cubi d’acqua alla quale i materani attingevano per ogni loro esigenza di lavoro, di pulizia e di nutrimento. Oggi è visitabile con delle scale che tutta la attraversano e che danno plasticamente il senso della capacità che l’animale umano ha di trasformare ogni spazio, struttura e pietra in strumento di sopravvivenza nella storia.
Davvero unico è poi il MUSMA, il Museo della Scultura Contemporanea. Si trova nel cinquecentesco Palazzo Pomarici e si ramifica su due piani, tre cortili e sette ipogei, grotte che per secoli hanno ospitato conventi, stalle, magazzini, cantine e che ora alternano bronzi, pietre, ferri, ceramiche, marmi in quella che è forse l’espressione artistica più pura del presente, la scultura appunto, nella quale la materia è capace di diventare qualsiasi cosa, assumere le forme più diverse, comunicare la vibrazione nello spaziotempo che sempre la materia densa rappresenta.

Dietro il Duomo si trova anche la Casa Noha, donata dalle famiglie Fodale e La Torre al Fondo Ambiente Italiano (FAI), nelle cui stanze è possibile seguire un coinvolgente video che racconta la vicenda di Matera dalla preistoria al presente. Presente che è fatto anche dell’ospitalità dei suoi abitanti, rinnovati nei nomi ma in continuità con l’identità antropologica materana. Abitanti che hanno fatto della loro storia e della bellezza anche una fonte di reddito. La città è colma di viaggiatori e di turisti, i locali sono pieni, la prenotazione di una cena di fatto obbligatoria. Clamorosa smentita della stolta opinione di un commercialista di Sondrio, tale Tremonti, che da ministro delle finanze affermò che “con la cultura non si mangia”. Con la cultura a Matera si banchetta.
Tra questi abitanti ci sono Guido, proprietario del B&B «Madonna degli Angeli» le cui stanze si aprono sul magnifico paesaggio rupestre del torrente, e Pietro, gestore del ristorante «Dedalo», non soltanto una gioia per il gusto ma anche per il tatto e per la vista, con le pietre del suo ipogeo trasformate in sculture che rappresentano, tra gli altri, Demetra, Andromeda e soprattutto Dioniso. 

È questo uno dei segreti di Matera. Nessuno dei luoghi di culto cristiani è dedicato al Dio, alle sue tre persone, ma tutti sono rivolti ai santi e alla Grande Madre, della quale la Maria della Bruna conservata nella Cattedrale è simbolo chiarissimo e pacato. Si tratta dunque di una religiosità politeistica, l’elemento che fa del cattolicesimo la forma più teologicamente ricca ed esteticamente magnifica tra le tante della religione cristiana. Dietro la maschera dei santi e di Maria, nelle pietre di questo luogo abitano ancora gli dèi.
La visita di una città permette di solito di viaggiare lungo i secoli. Matera permette di farlo nei millenni.

Ripetizione

Nostalgia
di Mario Martone
Italia, 2022
Con: Pierfrancesco Favino (Felice Lasca), Francesco Di Leva (Don Luigi Rega), Tommaso Ragno (Oreste Spasiano), Aurora Quattrocchi (la madre), Nello Mascia (Domenico)
Trailer del film

Sarà mai possibile parlare di Napoli, descrivere la sua vita, i vicoli, le architetture, la città sotterranea, la lingua, le chiese, le strade…senza che vi domini la delinquenza e la camorra? Napoli è anche delinquenza e camorra ma è soprattutto ‘l’ultima vera città d’Europa’ come afferma uno scrittore del quale non ricordo il nome. Al romanzo di un autore napoletano, Ermanno Rea, si ispira questo film, che racconta di un uomo che ha lasciato Napoli a quindici anni perché testimone di un delitto; ritorna dopo quasi quattro decenni e aver fatto fortuna in Libano e in Egitto (diventando anche musulmano); fa in tempo a incontrare l’anziana madre prima che lei muoia; il suo amico/complice di gioventù non gradisce vederlo aggirarsi per le strade del rione Sanità e gli fa capire, con i suoi modi da guappo, che se ne deve andare. Anche l’inverosimilmente eroico parroco del quartiere gli consiglia di tornare in Egitto (parroco che veste sempre l’abito talare, cosa che praticamente nessun prete, soprattutto se ‘di strada’, fa). Ma la nostalgia si rivela più forte di ogni pericolo.
Felice afferma infatti che la città è «incredibilmente uguale» a come lui l’ha lasciata, indicando così il dispositivo della ripetizione che intesse questa storia. Ripetizione degli ambienti, delle strade, della miseria, delle motociclette, del buio, della bruttura, del senza scampo.
Ripetizione del compiacimento che alcuni napoletani nutrono nel descrivere la propria città come fascinosa e maledetta.
Ripetizione di vicende e situazioni inverosimili ma che si pensa funzionino, come quella di un prete che grida contro la camorra ma che viene accolto senza problemi e senza rischi nelle case dei camorristi; come quella di un «malommo» che non corre pericoli reali dal ritorno del suo amico di gioventù ma che da psicopatico è ossessionato da lui; come quella di un uomo che quasi non parla più l’italiano/napoletano e che in Egitto ha una bella moglie e una consolidata posizione ma che la nostalgia induce a comportamenti poco sensati.
Storie di fantasia che hanno l’ambizione di costituire anche una analisi sociologica della Napoli reale ma che non rendono alla città un buon servizio, non le rendono giustizia.
Due momenti riscattano il film: Felice (un come sempre bravissimo Favino) che fa il bagno alla madre in una vasca di plastica, dentro un ‘basso’ fatiscente; l’incontro tra Oreste Spasiano e Felice Lasco, nel quale i due non si toccano e si fanno del male.
Il resto è in gran parte un filmato promozionale all’incontrario, nel quale si fa capire allo spettatore che i luoghi sono, sì, orrendi e degradati ma il fremito che dà la malavita, quello rimane affascinante.
Ogni cosa andrebbe invece messa al suo posto e nelle sue proporzioni: Napoli è camorra, è Maradona, è il Vesuvio, è  la pizza, è tante altre cose. Ed è una splendida città del passato e del presente, al di là di ogni (artificiosa) nostalgia.

Basilico, lo spazio

Gabriele Basilico
Territori intermedi

Castello Ursino – Catania
A cura di Filippo Maggia – Fondazione Oelle
Sino al 6 marzo 2022 

Intermedie tra la densità e il vuoto sono le immagini urbane di Gabriele Basilico. Se una città è un insieme assai complesso di fondamenta, strutture, strade, verticalità, abitazioni, vegetazione, acque, dislivelli, umani, scale, acciaio, cielo, l’arte di Basilico raccoglie tutto questo in luoghi che solo l’apparenza reputa inconsistenti, ‘periferici’, inespressivi, brutti.
Al di là del banale, dell’ovvio e del confuso, città diverse di tutti i continenti si aprono invece al segreto dello sguardo. Penetriamo e diventiamo una cosa sola con Arles, Amman, Barcelona, Bari, Beirut, Bilbao, Brescia, Istanbul, Lisboa, Liverpool, Madrid, Montecarlo, Mosca, Napoli, Parigi, Roma, Rio de Janeiro, San Francisco, San Sebastian, Shangai, Valencia , Vigo, Zurigo. Numerose altre sono le città da Basilico fotografate ma quelle che ho elencato sono tutte presenti nella mostra catanese, che espone immagini in gran parte inedite, scattate tra il 1985 e il 2011. Oltre le città appaiono anche i borghi, le  lunghe strade italiane come la Via Emilia, le Langhe.
Una fotografia del 2008 che raffigura le Langhe innevate è epitome della grandezza di Basilico. Un’immagine nella quale non c’è la neve, non ci sono i filari, non ci sono le colline, non c’è una sinuosa striscia d’asfalto. In questa immagine c’è lo spazio, semplicemente. Lo spazio in sé, lo spazio ovunque, lo spazio sempre. Lo spazio.
«Il presente puro è lo spazio che ci sta davanti, è la materia in tutta la sua ricchezza naturale e artificiale. Il presente sono gli enti che appaiono alla visione e alla percezione adesso. Il presente è tutto ciò che si dispiega nella sua apparente immobilità ma che accade come forma e parte anch’esso del tempo unitario che scorre incessante e che fa di ogni istante un tra dell’essere» (Tempo e materia. Una metafisica, p. 91).

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