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Il caso Horcynus Orca

Anche quest’anno l’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU) organizza un ciclo di incontri dedicato a Filosofia e Letteratura.
Dopo Proust (2018), Dürrenmatt (2019), Gadda (2020), Céline (2021) e Manzoni (2022) quest’anno leggeremo Stefano D’Arrigo, i suoi due romanzi.
Il primo incontro si svolgerà giovedì 27 aprile 2023 alle ore 16.00 presso il Centro Studi di Via Plebiscito, 9 a Catania. Cercherò di presentare la figura di D’Arrigo e il peculiare luogo che occupa nella letteratura contemporanea italiana ed europea.
«Certe cose, ci diciamo qualche volta, possono succedere solo nei romanzi» si afferma in Cima delle nobildonne. E quello che succede in Horcynus Orca sembra accadere nello spazio profondo del mare e del mito. È vero ma in questo romanzo ad accadere siamo noi, con il nostro andare nel tempo e con la nostra morte. Horcynus Orca è un romanzo omerico e heideggeriano. La lingua che lo intride è antica, espressionistica, avvolgente e lontana.

D’Arrigo

Il mare e la morte nell’opera di Stefano D’Arrigo
in Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre-ottobre 2022
pagine 147-151

Indice
-Il mare, la morte
-Omero / Heidegger
-L’Orca, la materia
-La potenza della femmina
-Un lessico arcaico, splendente e magico
-Il mare della Nonsenseria

Dentro le spire dello spazio e i gorghi del tempo; dentro una lingua antica, espressionistica e lontana, «quell’isola macerata e persa, la Sicilia» ha generato lungo i secoli eventi, parole e umani sorridenti e solitari. Alla fine ha generato il mare, ha generato la morte. La morte e il mare che sono la stessa cosa, il secondo rende visibile la prima.
Alla fine la Sicilia ha generato l’Orca di Stefano D’Arrigo, emblema fisico e materico dell’essenza del vivente, che è appunto il morire, il quale comincia sin dal primo istante dello stare al mondo.
Horcynus Orca è un romanzo omerico e heideggeriano. Omerico per il mare e per i nomi, per la struttura epica che tutto lo pervade, perché romanzo marino e occidentale. Romanzo heideggeriano perché incentrato sull’«essere che passa per la Morte», sulla morte come necessità del vivente e destino cosmico.
Horcynus Orca è soprattutto una macchina linguistica che senza requie inventa la propria strada e la percorre con gli strumenti della parola, delle parole inventate, ricreate, rese una cosa sola con il reale. Un lessico arcaico, splendente e magico nel quale un siciliano ritrova suoni, verbi, avverbi, aggettivi della propria storia, quali: incantesimato, scandaliare, pìccio, per la madosca, tappinara, nisba; nel quale i costrutti e il vocabolario sono a ogni pagina inventati, creati, reinventati, metabolizzati, metamorfizzati. Parole dentro le quali si sprofonda: «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro più dentro dove il mare è mare».

[La foto di D’Arrigo è di Ferdinando Scianna (1988)]

Placenta

Stefano D’Arrigo
Cima delle nobildonne
Mondadori, 1985
Pagine 202

«Non vedendo più riparo alla successione degli eventi ma non sognandosi nemmeno, quand’anche avesse potuto, di impedirli» (p. 201) Mattia Meli si trova al centro del divenire che comincia come zigote, si trasforma in embrione, diventa feto, umano, bambino, adulto, vecchio, mortale, moribondo, morente, morto.
Nel grembo materno tutto questo vive per alcuni mesi dentro una sfera, un ambiente, un mondo che si chiama placenta. A tale mondo è dedicato l’intrico di fatti e situazioni che costituisce questo romanzo di D’Arrigo. Vicende che vanno dal faraone Narmer -il quale 5000 anni prima dell’era volgare eresse la propria mummificata placenta a quarto simbolo della dinastia- a una clinica di Stoccolma dove il chirurgo Belardo costruisce una vagina all’ermafrodito amato da un emiro, il quale vorrebbe edificare nella propria capitale una Placentoteca.
Eventi che vanno da una paziente incontrata dal protagonista dentro un ascensore che la porta in sala operatoria alla cagnetta di lei che conduce Mattia presso la casa della padrona, dove è conservata in formalina la placenta di un bambino mai nato.
Un professore di placentologia muore a causa di una grande delusione professionale, dopo aver dedicato l’intera vita alla Cima delle nobildonne, come lui denomina la placenta in quanto nutrice della vita e delle cose. Cima delle nobildonne, ‘Colei che va davanti alle nobili’, era chiamata anche il faraone femmina Hatshepsut, che regno a metà del II millennio portando benefici alla sua terra.
In un intrico di vicende come questo, «la cruda, crudele verità del parlare scientifico» (84) si alterna all’ironia che pervade molte pagine, battute e situazioni; sogni assai tristi che hanno per protagoniste donne «atteggiate in viso a una struggente malinconia, [le quali] spingevano ognuna una carrozzina per neonato senza neonato dentro: rare vittime di rari aborti» (123) si accompagnano alla secchezza di descrizioni chirurgiche ultratecniche.
Il risultato è una inquietante ἱλαροτραγῳδία, uno straniante raccontare che punta dritto alle fonti della vita e della morte e sembra di esse riprodurre anche lo schifo, la malinconia, la materialità.
Che l’insieme dei fatti e il loro intreccio siano del tutto inverosimili non conta. O conta nell’esatto senso indicato da Stefano D’Arrigo: «Certe cose, ci diciamo qualche volta, possono succedere solo nei romanzi» (163).

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