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Lecce

Barocco, ancora barocco sì, come gran parte del Sud dell’Europa. La grande arte della gloria, trionfante sugli impulsi ascetici del Nord. Ma Lecce, questo gioiello, non è soltanto il barocco, è l’amicizia con la bellezza, con la terra, con il Sole. «Salentini dicti, quod in salo amicitiam fecerint / Furono chiamati salentini perché avevano consacrato legami di amicizia in mare» (Varrone, Antichità, III).

Lecce antica

Lecce, Museo Castromediano, Trozzella messapica a figure nere con fatica di Eracle, V sec. a.e.v.

Le maggiori testimonianze della Lecce greco-romana sono avvolte dai teli dei ‘lavori in corso’. Prima di tutto il grande Anfiteatro romano che domina lo spazio della piazza dedicata a Sant’Oronzo. Dalle strutture emerse dell’edificio si indovinano il volume, l’armonia, le funzioni di centro della vita sociale del mondo romano. Assai peggio sistemato è il Teatro romano, che si apre accedendo da un vicoletto ma che appare in una condizione di lavori permanenti che somiglia a un permanente degrado.
Le testimonianze della fecondissima vita e attività di Lecce e del Salento nel mondo antico, dal Paleolitico ai Bizantini, sono raccolte nel Museo Castromediano, riaperto nel 2019, allestito in modo dinamico, con delle spirali che conducono alle cinque sezioni dedicate alla Terra, al Mare, ai Vivi, ai Morti e al Sacro.
Le raccolte di questo museo vengono periodicamente poste in dialogo con l’arte contemporanea. In questi mesi sono ospitate sette opere dello scultore greco Costas Varotsos, dedicate a Elpís. Prometeo o del sogno infranto di Europa. Opere forse un po’ troppo ambiziose e alla fine fredde – anche per il vetro del quale sono in gran parte composte -, tranne l’ultima che dialoga con il mondo dei morti attraverso un’installazione dal titolo Soffi,  fatta di vetroresina che sembra muoversi nel vento.

Lecce, Museo Castromediano, Lekytos attica e cratere attico, III-II sec. a.e.v.

Uno spazio davvero unico è il Museo archeologico Faggiano, vicino a Porta San Biagio e scoperto per caso nel 2001 in seguito a dei lavori condotti in una casa privata. Sotto l’edificio contemporaneo furono individuate stratificazioni molto profonde, cripte e resti di un monastero, cisterne e granai, migliaia di reperti delle epoche più varie. Il restauro è stato posto per intero a carico dei proprietari – Luciano Faggiano e la sua famiglia -, i quali nei limiti delle loro forze ma con grande passione hanno predisposto un percorso didatticamente assai chiaro che permette di comprendere la complessità a volte labirintica del luogo.

Lecce romanica

Lecce, Basilica di Santa Maria di Cerrate

Davvero la pace spira tra gli spazi e la luce dell’Abbazia di Santa Maria di Cerrate, a poco meno di venti chilometri dalla città. Il FAI (Fondo Ambiente Italiano) ha restaurato un insieme di edifici assai antichi, per secoli abbandonati e utilizzati in vari modi, e che ora sono una luce per gli occhi, per il tatto, per l’udito che può immergersi nel silenzio.
La struttura è costituita da una chiesa romanica dalla splendida facciata e piena di affreschi, da un porticato che si apre su uno dei lati dell’edificio sacro, da un bel pozzo cinquecentesco accanto al porticato, da spazi di trasformazione del grano e delle olive in farina e in olio, da ciò che rimane del monastero. Un piccolo agrumeto accompagna gli edifici, con la luce del Sud che trasforma le arance in oro.
Già rinascimentale, ma radicato nell’architettura medioevale, è in città il Castello di Carlo V, voluto dall’imperatore asburgico dopo la tragedia dell’assedio di Otranto e della distruzione di parte del Salento operata nel 1480 dagli Ottomani.

Lecce barocca

Lecce, Santa Croce

Stupefacente è lo splendore dei palazzi; l’uniformità del colore fatto di una terra luminosa; l’armonia del tessuto urbano, con le vie Palmieri, Libertini, Vittorio Emanuele, Principi di Savoia che si intersecano tra di loro creando un armonioso labirinto di strade; cortili che introducono a palazzi sontuosi e a più semplici ma sempre ricche dimore.
Fortuna ha voluto che alcuni di questi cortili, tutti privati, fossero aperti una sera alla fruizione pubblica e alla sonorità di musiche diverse.
E sono soprattutto magnifiche le chiese, centinaia, che hanno valso a Lecce la definizione appunto di città-chiesa. Tra queste le più imponenti ed eleganti nelle facciate concave/convesse, nello strabordare delle decorazioni, colonne, statue e simboli sono: il Duomo che si apre sulla piazza accanto agli armoniosi volumi del Palazzo Vescovile e del Seminario, quest’ultimo visitabile e sede di un ricco Museo d’Arte sacra, con al centro del cortile un bel pozzo e un chiostro nel quale è piacevole passeggiare; Santa Chiara, con una più sobria facciata ma con l’interno ottagonale scandito da ricchissimi altari; San Matteo, dalla facciata in basso concava e in alto convessa e con l’altare maggiore straripante di decorazioni e forme; Sant’Irene, chiesa dei Teatini esemplata sulla romana Sant’Andrea della Valle. E infine la Basilica di Santa Croce, potente e armoniosa, sulla facciata della quale la luce e le ombre giocano e costituiscono esse stesse un’opera sovrumana volta al tentativo umano di attingere la gloria.
A questi incanti sacri si aggiungono gli archi delle porte che delimitano l’antico centro seicentesco e che costituiscono tuttora dei veri ingressi alla città antica, ben separata dalle spente costruzioni contemporanee che la circondano, prive di valore: Porta S. Biagio a sud, Porta Rudiae a sud-ovest, Porta Napoli a nord-ovest, mentre il lato est della città è difeso dal Castello. Tra Porta Rudiae e il Duomo si estende il quartiere delle Giravolte (immagine di apertura), lo spazio forse più consono per comprendere che cosa sia Lecce.

Lecce, Cortile del Seminario

Lecce contemporanea

L’ex convento dei Teatini ha ospitato sino al 6 gennaio 2025 un’affascinante mostra dedicata ai 100 anni della radio in Italia. Il collezionista Alberto Chiàntera ha raccolto centinaia di oggetti radiofonici, dai primi trasmettitori agli anni Ottanta del Novecento. Molti di questi oggetti sono di grande eleganza e possiedono un’aura del tutto particolare, quella della voce e dei simboli umani che Guglielmo Marconi – la cui sagoma è onnipresente – rese comunicabili a tutte le distanze e in ogni luogo. Per farlo, oggi basta possedere un ricettore, anche minuscolo, come appunto sono i telefoni cellulari del XXI secolo.
Vertice del contemporaneo a Lecce è la Fondazione Biscozzi-Rimbaud, della quale ho parlato in questo sito qualche settimana fa: Puglia.

Infine

I messapi inventarono questo luogo nel V sec. a.e.v. I romani lo chiamarono Lupiae e infatti un lupo sotto un albero di leccio è ancora il simbolo della città, un nome che si riferisce certamente all’albero ma che forse è anche un gesto di devozione verso Apollo Licio. Lecce risorse e divenne ricca in età appunto barocca. Che è uno stile architettonico e un’espressione estetica ma è soprattutto il vortice di un tempo fatto di gloria, il tempo degli dèi.

Caltanissetta

La Sicilia come rovina. Questo accade di pensare di fronte alle imponenti e incompiute strutture e forme del Palazzo Moncada (o Bauffremont) di Caltanissetta (immagine di apertura). Un edificio seicentesco che rammenta la grandezza passata e la miseria presente dei Trao di Mastro-don Gesualdo. L’intera città posta al centro dell’Isola ricorda la ricchezza ottocentesca frutto delle miniere di zolfo e la modestia di un presente agricolo e terziario che ha prodotto i quartieri nuovi fatti di edifici francamente brutti e il progressivo abbandono di un centro storico elegante nelle sue strade risorgimentali e vibrante nelle chiese barocche di Santa Maria la Nuova, la cattedrale intessuta degli affreschi di Guglielmo Borremans (1720) e dei dipinti di Vincenzo Roggeri, dedicati a santi e martiri;

nelle chiese di Sant’Agata, a croce greca e parte del Collegio dei Gesuiti ora sede della Biblioteca pubblica; di San Domenico, edificio della fine del Quattrocento con una dinamica facciata curveggiante e che necessiterebbe di restauri; di Santa Maria degli Angeli, edificio che invece è in restauro e che è parte di un ampio convento che sta vicino ai resti del Castello di Pietrarossa. Da questa parte della città ben si osserva il complesso urbano anche nei suoi disordinati sviluppi.
Come accennavo, il centro storico è di fatto abbandonato, con molti negozi e attività chiuse (un chiaro regalo della vicenda Covid, come accade in tante altre città europee e specialmente italiane), tanto che non siamo riusciti a trovare un ristorante di domenica a pranzo. In mancanza d’altro abbiamo gustato un gelato in un bar, i cui gestori ci hanno detto che stavano per chiudere e che di sera il nucleo antico di Caltanissetta è frequentato e abitato da cittadini africani e asiatici, che infatti abbiamo visto numerosi mentre, dopo le messe della domenica mattina, i nisseni sembravano di colpo spariti. L’impressione di trovarsi in una città del Nord Africa è stata assai netta e francamente malinconica. La sostituzione etnica, della quale parlano alcuni sociologi, in questa zona apparentemente periferica della Sicilia è in uno stato assai avanzato. La Sicilia come metafora dell’Europa, della sua rovina.

Eresie

Menocchio
di Alberto Fasulo
Italia-Romania, 2018
Con: Marcello Martini (Menocchio), Maurizio Fanin (Inquisitore), Carlo Baldracchi (il carceriere), Nilla Patrizio (la moglie), Agnese Fior (la figlia), Mirko Artuso (prete Melchiorri)
Trailer del film

Eresia. Una delle parole fondamentali della religione cristiana: la storia «des guerre de religion, et aussi celle des hérésies (terme qui n’a tout simplement pas de sens dans le paganisme) commence avec le christianisme» (Alain de Benoist, Réflexions critiques sur le Néopaganisme, in «Sagesses païennes», numero speciale di éléments pour la civilisation européenne, giugno 2022, p. 39).
Una parola che ha moltiplicato e diviso tale religione in una miriade di rivoli l’un contro gli altri armati e feroci. Una ferocia che si concentra nella forza dell’istituzione che con tutto il suo peso schiaccia colui e coloro che fanno una αἵρεσις, una «scelta» diversa rispetto a quella della maggioranza. Esistono eresie in ogni ambito della vita collettiva poiché sempre la forza del numero ritiene di stare nella verità e nel bene, cercando di cancellare coloro che decidono di abitare in modo diverso il mondo. Una delle più recenti espressioni di tale dinamica è conseguenza dell’aver trasformato la medicina – un sapere e una pratica empirici, non una scienza esatta – in un dogma, vale a dire nel contrario di una scienza.
Eretico fu anche Domenico Scandella detto Menocchio, vissuto tra il 1532 e il 1599, un mugnaio che sapeva leggere e scrivere e che elaborò una interessante concezione panteistica del cosmo, per la quale il dio è nell’aria, negli alberi, nel vento. Sottoposto a due processi, nel primo fu condannato al carcere a vita dopo aver abiurato, nel secondo fu condannato alla pena che la bontà e la misericordia delle chiese cristiane riservano ai figli che esse amano di più: essere bruciati vivi. Con contorno, ovviamente, di torture, anni trascorsi in fetidi e malsani sotterranei, disperazione e tenebra. Tutto questo in nome dei valori, come sempre, di valori giudicati assoluti, indiscutibili, salvifici.
Neppure un mugnaio che discuteva delle sue concezioni con i pochi suoi compaesani in uno sperduto villaggio del Friuli poteva rimanere al sicuro rispetto alla pervasività dei valori della Grande Chiesa. Che infatti lo condannò per una nutrita serie di ragioni:
«Aver diffuso le sue concezioni a persone semplici e illetterate fu considerata un’aggravante; ‘pertinace nell’eresia’, ‘di animo indurato’, ‘nefando’, anzi ‘nefandissimo’, di ‘lingua maledica’, ‘orribile’, ‘maligno’, ‘perverso’, Menocchio ‘come i giganti aveva tentato di combattere l’ineffabile Trinità’. Nel rifiuto della confessione fu individuata un’eresia luterana; nell’equivalenza di ogni fede si vide un’eresia risalente a Origene; nell’esistenza di un caos primigenio un’affermazione pagana; nell’affermazione per la quale ‘Iddio è autore del bene ma non fa male, il diavolo è autore del male e non fa bene’ si vide un’eresia manichea» (voce Wikipedia: Menocchio) .
Il film di Alberto Fasulo racconta questa vicenda con uno stile a essa consustanziale, con una recitazione intensa e sobria, nel chiaroscuro degli ambienti, nell’asfissia degli spazi, nella sporcizia dei prelati, nella rassegnazione del villaggio, nella figura quasi omerica di Menocchio. Alla cui intelligenza sia reso onore rispetto alla miseria dei suoi carnefici cristiani.

Randazzo

Da ragazzo ho molto frequentato e vissuto questa città normanna e in essa torno sempre volentieri. Città fortezza fatta di pietra lavica (il cratere centrale del vulcano dista soltanto 15 chilometri), di chiese la cui materia è nera, la cui forma è gotico-rinascimentale, le cui pale, altari, affreschi, soffitti, le rendono musei per tutti.
A San Nicolò (a destra) si giunge attraversando Via degli Archi, un pezzo di Medioevo ancora intatto con i suoi archi a sesto acuto, le bifore, lo spazio ristretto tra le mura. In fondo alla Via si arriva a un lato della chiesa, girando intorno al quale si apre una facciata che sembra un funerale pronto per la festa.

San Martino (a sinistra) ha un magnifico campanile puntato verso la luna, i sogni, le nuvole. Vicino alla chiesa si trova l’unica torre della cinta muraria (voluta da Federico II Hohenstaufen) sopravvissuta alle vicende della storia, il «Castello svevo», che fu prima dimora di signori e poi carcere e adesso è sede di un Museo archeologico purtroppo aperto soltanto di mattina.

Tornando indietro verso il centro del borgo si trova il Municipio, un piccolo monastero con il suo bel chiostro, sempre tutto nero.
E poi si incontra il capolavoro della città, la Chiesa Basilica di Santa Maria, costruita nella prima metà del Duecento quasi a picco sulla valle dell’Alcantara, con un magnifico portale gotico, con imponenti strutture che sembrano pronte a sostenere l’invasione di mille diavoli, con un interno scandito da colonne tutte in pietra lavica (immagine di apertura).
Il nero su nero di Randazzo è circondato a sud dalle alture dell’Etna, a nord-ovest, oltre il fiume, dalle colline d’argilla dei Nebrodi, che si perdono e diramano a est verso Taormina. Lo spazio e il tempo diventano e sono qui davvero inseparabili. La forma urbis così regolare e così antica dà ragione a Giambattista Vico sulla possibilità che gli umani hanno di conoscere alla fine soltanto ciò che essi stessi fanno, costruiscono e immaginano: le case, le strade, la storia. «Questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana» (Scienza nuova, libro I, sezione 3).

Maestri / Verità

The Master
di Paul Thomas Anderson
Con: Joaquin Phoenix (Freddy Quell), Philip Seymour Hoffman (Lancaster Dodd), Amy Adams (Peggy Dodd), Ambry Childers (Elizabeth Dodd), Rami Malek (Clark), Laura Dern (Helen Sullivan)
USA, 2012
Trailer del film

Un reduce dalla guerra nel Pacifico. Sbandato. Alcolizzato. Solo.
Un intellettuale carismatico e narcisista, fondatore della Causa, promettitore di salvezza, guarigione, senso.
Tanto evidentemente folle il primo quanto ambiguamente folle il secondo.
Ma nessuno dei due caratteri diventa in questo film una caricatura. Non si sa sino a che punto arrivi lo squilibrio del primo, non si sa sino a che punto sia sincero o truffaldino nei suoi insegnamenti  il secondo.
Si incontrano in nome del caso, della necessità, della solitudine, di un’esigenza di riscatto. Esigenza che tutti noi mortali avvertiamo. E che ci fa intravedere il nuovo là dove si dà l’uguale. Ci fa nutrire fiducia là dove pulsa l’inganno. Ci apre alla felicità di un successo, di un amore, di un apprendimento, là dove siamo noi invece a creare questo mondo di attese. Perché tutti sentiamo di essere caduti in un gorgo e di avere bisogno di redenzione. È anche su questa struttura antropologica che nascono i sentimenti e si fondano il potere politico e le organizzazioni religiose, da scientology alla chiesa papista, dai maghi di quartiere ai dittatori totalitari o democratici.
Un film che non va letto né in chiave psicologica né in quella storica ma nella prospettiva di un’antropologia disincantata e antiroussoviana, che non crede nella possibilità di riscatto e di “bontà” degli esseri umani, impossibilità che emergeva anche nell’epico Il petroliere. E che spiega perché milioni di persone acclamino dei soggetti cinici, cialtroni o feroci, che si presentano tuttavia come portatori di salvezza. Li acclamano, li seguono, li amano perché trovano nelle parole di costoro, nei loro gesti, nei loro volti quel significato al quale tutti tendiamo come il pane. «Se riuscirai a vivere senza un maestro, un qualsiasi maestro, vieni a raccontarmelo. Saresti il primo tra gli esseri umani» dice Lancaster rivolgendosi a Freddy.
Un film che narra anche attraverso la luce e le ombre, mediante una strepitosa fotografia caravaggesca che sia nei primissimi piani sia nei potenti campi lunghi trasmette l’inesorabile dolore della speranza.
La recitazione di Hoffman è come sempre eccellente, quella di Phoenix è semplicemente spaventosa nella sua perfezione. La nave dove i due si incontrano si chiama Alithia, in greco “verità”. A chi proclamava di essere venuto «per rendere testimonianza alla verità», il saggio Pilato chiese «Che cos’è verità?» (Gv., 18, 38).

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