Skip to content


L’ostinata passione

L’Olimpiade
di Antonio Vivaldi (1734)
Testo di Pietro Metastasio
Atto II, 15; Aria Gemo In un Punto e Fremo – Allegro
Rinaldo Alessandrini, Concerto Italiano & Sara Mingardo

«Gemo in un punto e fremo
fosco mi sembra il giorno
ho cento affanni intorno
ho mille furie in sen.
Con la sanguigna face
m’arde Megera il petto
m’empie ogni vena Aletto
del freddo suo velen»

L’amore, un’ossessione. Questo «infinito abbassato al livello dei barboncini» (Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio 1992, p. 14), «questa troppo facile parola» pronta a farsi «la bugia più fonda / il regno del più umile dolore». L’amore, eppure, rimane una forza ostinata che l’ostinato musicale di Vivaldi trasforma in un andare nell’inquietudine, nella lotta, nel sangue.

[audio:Vivaldi_Olimpiade.mp3]

Al termine

Viaggio al termine della notte
Da Louis-Ferdinand Céline, di e con Elio Germano e Teho Teardo
Teatro elfo puccini – Milano
Musica Teho Teardo, al violoncello Martina Bertoni
Lettura scenica in forma di concerto
Produzione: Fondazione Teatro Piemonte Europa
Sino al 19 febbraio 2012

Vibrano la chitarra e il violoncello elettrici. Vibrano di note aspre e tuttavia armoniose. Come aspra e armoniosa -di una perfezione cercata con il cesello- è la scrittura di Céline, intessuta e materiata di un linguaggio senza modelli, insieme gergale ed elegante, immediato e costruito, sensuale e plebeo, senza mai essere volgare. Il corpovoce di Elio Germano modula la petite musique del Voyage au bout de la nuit cercando di comunicare tutta la passione che questo scrittore ha avuto per l’umano e per le cose. Passione nel senso di una sofferenza profonda e passione come slancio verso una comprensione dell’oscuro itinerario che è l’esistenza consapevole di sé. «La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte» (trad. di E.Ferrero, Corbaccio 1995, p. 376).
Tra i frammenti del Viaggio che questo spettacolo intenso e troppo breve mette in scena risuonano altre verità: “È degli uomini che bisogna aver paura, solo degli uomini; l’amore è l’infinito ridotto al livello dei barboncini; non la morte che incontriamo ma la morte che siamo”. E poi il disprezzo per la guerra, per la sua imbecillità assurda e infernale. Si rimane sempre attoniti e ammirati davanti alla semplicità con la quale Céline enuncia la struttura del mondo, il suo cieco fondamento, la sua disperata continuità. Come se dal gorgo immondo e immenso della materia fosse emersa una voce limpida, un bagliore accecante, una visione capace di dire altro rispetto alle convenzioni con le quali cerchiamo reciprocamente di sopportarci, di dire oltre l’illusione, di enunciare non la notte che ci avvolge, non il buio che percorriamo ma la notte che siamo.

 

Contro la Bibbia

«Bibbia il libro più letto del mondo…più porco, più razzista, più sadico che venti secoli di arene, Bisanzio e Petiot mescolati!…di quei razzismi, fricassee, genocidi, macellerie dei vinti che le nostre più peggio granguignolate vengono pallide e rosa sporco in confronto».
Così Céline in Rigodon (Einaudi, 2007, p. 14).
Concordo con lui e lascio volentieri a ebrei e cristiani, agli idolatri del “Libro”, il culto verso una divinità inetta come Jahvé. Non gli uomini soltanto, infatti, sono imperfetti ma lo è l’universo stesso poiché frutto dell’imperfezione del demiurgo che ha preteso di essere Dio. È questa evidenza ad aver convinto Marcione a rifiutare il dio biblico (accogliendo, invece, quello evangelico) in quanto, appunto, divinità incapace e funesta. Non c’è stata caduta ma il limite fa da sempre parte dell’essere, non esiste colpa se non quella di esistere, non ci sono peccati al di fuori dell’ignoranza. La conoscenza, invece, è un’esperienza disincantata, sofferta e integrale dello stare al mondo.

Bouvard e Pécuchet

di Gustave Flaubert
(Bouvard et Pécuchet, 1881)
Trad. di Camillo Sbarbaro
Con un saggio di Lionel Trilling
Einaudi, Torino 1982
Pagine XXXIII-243

I due protagonisti di questa parabola non possono esser dimenticati facilmente. Da un lato sono dei personaggi reali, con le loro inconfondibili fisionomie, con il perfetto delinearsi dei caratteri. Dall’altro costituiscono una sferzante allegoria. Pur se ingenui, precipitosi, superficiali, imprudenti, i due impiegati che, ricevuta una cospicua eredità, decidono di apprendere tutto ciò che possa essere appreso -scienze agrarie, pedagogia, letteratura, medicina, archeologia, chimica, ingegneria, astronomia…- rimangono i più autentici tra gli esseri che costellano il romanzo. Composto insieme al Dictionnaire des idées reçues, e a esso strettamente legato, questo singolare capolavoro rappresenta infatti un’antologia della stupidità universale.

Dalle sue pagine emerge con una chiarezza persino dolorosa ciò che nega un autentico sapere: i pregiudizi privati e collettivi, l’apologia della consuetudine, la consacrazione delle norme, il provincialismo, la grettezza dello spazio interiore, l’invidia verso chi nell’apprendere è felice, l’acritica chiusura della mente. Nei confronti di tutto questo, Bouvard e Pécuchet si comportano da inconsapevoli ma implacabili demistificatori. E anche quando sembrano cadere nel colmo del non pensiero, il bigottismo biblico, portano il loro atteggiamento al punto estremo in cui la scempiaggine di una fede che «ha per punto di partenza una mela» (p. 211) si illumina da sé del proprio grottesco splendore.

Ai loro occhi «il mondo si trasformava in simbolo» (98), «aristocrazia e popolo si equivalevano» (133), «i socialisti invocano sempre la tirannia» (140), «la metafisica non serve a niente» (176), «ammanendo con la massima serietà queste fandonie al pubblico, la stampa ne coltivava la credulità» (155). È il “progresso”, quindi, il nome che l’imbecillità assume nel XIX secolo, quel pregiudizio sul quale Céline scriverà: «L’ho pur visto arrivare il Progresso…ma sempre senza trovare un posto…Tornavo ogni volta a casa bischero come prima…» (Morte a credito, Corbaccio, 2000, p. 271).

Non geniali ma neppure idioti, fratelli di Emma Bovary, i due uomini comuni nei quali Flaubert ricapitola il suo disprezzo per l’inutile mondo di mediocri che popola la specie costituiscono la paradossale luce di un mondo spento. Essi «mettevano in dubbio la probità degli uomini, la castità delle donne, l’intelligenza dei governanti, il buonsenso del popolo: minavano, in una parola, le basi. […] Nei due amici maturò allora una disposizione d’animo destinata a renderli infelici: quella di vedere la stupidità umana e di non poter più tollerarla» (182).

Robert Frank

Lo straniero americano
Milano – Palazzo Reale
Sino al 18 gennaio 2009

Un bianco e nero feroce e raffinato. Capace di svelare la pienezza del non senso. «All present in front of always changing fog», come scrive lo stesso Robert Frank (nato in Svizzera nel 1924). Nebbia che avvolge un’umanità silenziosa, profonda. Le foto mostrano il battito del suo cuore. Luoghi e città esistono solo come proiezione degli umani che le abitano e le edificano E tuttavia lo sguardo è fuori dal tempo, come se fossero tutti morti. Specialmente nella serie dedicata al 4 luglio 1958 a Coney Island -con i soggetti che dormono soli sulla spiaggia umida- e nelle opere più recenti, degli anni Novanta. Infatti, «you know, photographs immediately make everything old» e «now doesn’t really exist in photography. It’s always the past». Un’America senza retorica, un’umanità fatta di individui che cercano una qualche luce «per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi» (Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, p. 459).

Vai alla barra degli strumenti