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Gelo

Loro 1
di Paolo Sorrentino
Italia, 2018
Con: Toni Servillo (Silvio), Elena Sofia Ricci (Veronica), Riccardo Scamarcio (Sergio Morra), Euridice Axen (Tamara), Fabrizio Bentivoglio (Santino Recchia), Katia Smutniak (Kira), Roberto De Francesco (Fabrizio Sala), Anna Bonaiuto (Cupa Calafa), Alice Pagani (Stella)
Trailer del film

Al di là di Albert Spica. Al di là del personaggio più volgare che sinora avessi incontrato al cinema. Il protagonista de Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante è un gangster analfabeta e violento ma genuino nella sua volgarità. Invece loro sono cartapesta, baratro, dipendenza e televisione. Sono statue femminili pronte a scopare, ministri pronti a servire e a tradire, lenoni sempre in moto, magnaccia, paraninfi, papponi, mezzani. Dove la merce sono apparentemente i corpi ma nella sostanza è il potere. È sottile e solare la soddisfazione che si prova a far agire un proprio simile ai nostri comandi. Lo si può fare con la mediazione dell’intelligenza, lo si può fare con la mediazione del denaro. E nel loro mondo la donna è una preziosa e arrapante banconota da spendere nel mercato dell’autorità.
Due volte vi compaiono altri animali. Un ratto che attraversa Roma mentre il corteo delle mondane va in pellegrinaggio dal Presidente e la scena diventa volo di un camion della spazzatura che diffonde tutt’intorno il letamaio. E soprattutto la pecora della scena iniziale, che nella solitudine della grande villa sarda attraversa il prato, entra nella casa, osserva con attenzione lo schermo perennemente acceso dal quale l’ennesimo Mike Bongiorno lancia le sue allegrie. Intorno alla pecora telespettatrice la temperatura scende, scende, sino a diventare gelo. Il freddo del tubo televisivo che ghiaccia ogni intelligenza. E la uccide.
L’epigrafe de La grande bellezza era tratta dal Voyage di Céline: «Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato, è un romanzo, nient’altro che una storia fittizia. Lo dice Littré, lui non si sbaglia mai. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi, è dall’altra parte della vita». Quella a Loro 1 è di Giorgio Manganelli, tratta dalla sua prefazione a Pinocchio: ««Tutto documentato, tutto arbitrario».
Danze, movimenti, genitali al vento e alla luce. Da tempo a Sorrentino interessa soltanto la pura forma dello spazio, il fremente andare degli umani dentro i luoghi. Sempre più artificioso, sempre più poietico. Un magnifico manierismo della corruzione.

Loro 2

Elemosina / Destino

Il filo nascosto
(Phantom Thread)
di Paul Thomas Anderson
USA, 2017
Con: Daniel Day-Lewis (Reynolds Woodcock), Vicky Krieps (Alma), Lesley Manville (Cyril)
Trailer del film

«La donna perfetta sbrana quando ama…Conosco queste amabili Menadi…Ah, che razza di piccolo predatore pericoloso, strisciante, sotterraneo! E in più così piacevole!…Una piccola donna che insegue la sua vendetta sarebbe capace di scavalcare anche il destino. […] L’amore -nei suoi mezzi la guerra, nel suo fondo l’odio mortale tra i sessi». Così pensa Friedrich Nietzsche nel § 5 della sezione di Ecce homo dal titolo ‘Perché scrivo libri così buoni’ (Opere, Adelphi, vol. VI/3, p. 315).
Dalla remota notte del passato emergevano senza requie dei fantasmi. Come quella ragazzina, quella madre che riappariva quale strana e incomprensibile promessa. Ne ricordava il nome e le fattezze, le carezze liete, gli occhi soprattutto. Perché è dagli occhi che sempre si squaderna l’essenza di un umano. È banale ma è vero. Delle altre ricordava poco, ma non quelli che lei gli imbastiva a ogni incontro. Occhi fermi e insieme sfuggenti. Era diventata implacabile quella femmina. Ma all’inizio si era fatta turbine, tempesta, vento. Lo aveva avvolto nelle sfere autoritarie di un erotismo inquieto e senza requie. Dietro e dentro quegli occhi di un verdazzurro cristallino veleggiavano allora canti, voci e inni elevati al piacere più rotondo e fondo. I seni a coppa stavano interi nelle sue mani, che da lì arrivavano alla pancia più sensuale che avesse conosciuto. E dal delta che sapeva di ambrosia e di passito si partivano due cosce statuarie. Le braccia lo avvolgevano di sangue e di profumo nell’amore. Vibrava allora come un albero nelle sere estive, felice d’essere stato invaso da un sole tutto luce, al quale l’incanto aveva succhiato linfa e restituito vita. E su ogni gesto la sinuosa grazia di quella donna. Era del tutto folle, però. In nessun istante si poteva avere sentore di ciò che stava per accadere al successivo battito del tempo. Poteva essere carezza, poteva diventare ruggito che divora.

Non proprio questo ma da esso non lontano è il modo in cui Alma afferra nel film la vita del suo uomo. Da modesta cameriera incrociata per caso in un locale, diventa madre, moglie, amante, amica, allieva, alleata di Reynolds Woodcock, ricco e celebre creatore d’abiti. Avrebbe dovuto essere una delle numerose ragazze da lui desiderate, prese e allontanate. E invece ne diventa, senza che nessuno se ne accorga, la padrona. Sino a un silenzioso patto di amore e di morte.
Daniel Day-Lewis è totale nella sua bravura. Il suo sarto raffinato e violento ha una paradossale somiglianza  fisica con Céline. Il quale scrisse parole come queste: «Ma i ‘figami’ non sono solo corpi!… zotico! sono ‘compagne’! e i loro cinguettii, incanti e ghingheri? buon pro vi facciano! se ci avete il gusto del suicidio, incanti e cinguettii, tre ore al giorno, impiccarvi vi farà un bene boia!… lunga! corta!… sia detto senza cattiva intenzione! o passerete tutta la vecchiaia ad avercela col vostro uccello per avervi fatto perdere tanti di quegli anni a piroettare, scalpitare… fare il bello, sulle vostre zampe anteriori, su un piede, l’altro, per avere l’elemosina di un sorriso…» (Nord, in «Trilogia del Nord», Einaudi 2010, p. 463).
L’elemosina di un sorriso. Un uomo che si consegna per intero a una donna -che sia madre, moglie, amante, amica, allieva, alleata- merita davvero il suo «malu destinu».

Dissonanze

Jennifer Thoreson / Dissonanza e proliferazione
in
Gente di fotografia
Anno XXIII, n. 69, novembre 2017
Pagine 8-17

«Gorgoglia la materia nella morte, come se tutti fossimo sogno di un demone cattivo, fossimo l’ironia delle Madri, fossimo dentro il loro implacabile destino. […] ‘The failure of faith’ è anche una ‘disclosure’, è la rivelazione del nostro essere stati gettati in un mondo incomprensibile e nemico, fatto di sporgenze tumorali, di arcaiche intumescenze, di inaudite proliferazioni. C’è qui, evidente, tutto il fascino e il timore che alcuni antichi gnostici nutrivano verso la materia, verso un mondo di carne e dissoluzione, nel quale i più sono stupidi e ignoranti e la massa è costituita da cose in forma umana».

Céline

Louis-Ferdinand Céline
Morte a credito
(Mort à crédit, 1936)
Traduzione di Giorgio Caproni
Introduzione di Giovanni Raboni
Corbaccio, 2000
Pagine XI-556

Mort à crédit non narra né commenta la vita e il tempo ma dimostra quanto gli esseri umani siano –come si legge nel Voyage «semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi»1. Una volta entrati nel puro ritmo che è la scrittura di Céline, a poco a poco si penetra –fino a sprofondare- nell’epica allucinazione che è la vita, nel delirio del grumo di tempo che si è, nella comprensione esaltata e senza speranza dell’esistere. Davvero «è il nascere che non ci voleva» (pag. 40). Una volta nati, la solitudine ci accompagna per sempre2, insieme alla marmaglia «orribile, rumoreggiante» che ci circonda da ogni parte (285), insieme alle menzogne del futuro individuale e collettivo3, insieme all’orrore del quotidiano con la nostra «schifa d’una troia d’esistenza» (31).
Sono tre i nuclei narrativi che nel romanzo scandiscono l’inganno.
La famiglia, con tutta la sua retorica del sacrificio e della gratitudine, con il ricatto insostenibile del volersi bene.
Il soggiorno in Inghilterra, nel “Meanwell College”, con la parodia feroce di ogni istituzione educativa.
L’incontro e gli anni trascorsi con Courtial des Pereires. Un affetto paradossale ma profondo lega Ferdinand a quest’uomo eloquente e spregevole, sognatore e imbroglione, grande e infimo allo stesso tempo. Nello scienziato-inventore-esploratore-divulgatore Courtial sembra che si sia decuplicato il demente furore di Bouvard e Pécuchet, il bulimico bisogno di parlar di tutto, di tutto sperimentare, di non lasciare in pace nessun sapere, di occupare tutti gli spazi dell’erudizione per scoprire, infine, che dove manca una natura adeguata, nessun apprendimento può sostituirla e si rimane sempre meschini e ignoranti come alla nascita.
Oltre Flaubert, oltre Baudelaire, il vero alter ego di Céline rimane Proust. Le visite d’infanzia alla zia Armide sono una chiara parodia di quelle a tante Léonie; Courtial paga per farsi frustare, allo stesso modo del Barone di Charlus; sia Proust che Céline sono consapevoli di “avere del cuore «ma la vita mica è una questione di cuore» (43)4. E per entrambi gli umani possono soltanto «divertirsi con la propria morte mentre uno sta fabbricandosela, ecco tutto l’Uomo, Ferdinand!» (10).
La morte che non è mai gratuita e alla quale bisogna presentare «un bel sudario tutto ricamato di storie. È esigente, l’ultimo respiro» (25). La morte che viene descritta in tutta la sua potenza e con accenti di straordinaria pietà –pietà continuamente intrecciata al sarcasmo, un disprezzo che è sempre unito alla profonda comprensione delle debolezze umane- in una delle pagine fondamentali del libro:

«Ah, è terribile però…hai voglia d’esser giovane quando t’accorgi per la prima volta…come la gente la si perda per via…compagni che non rivedremo più…mai più…che son scomparsi come tanti sogni…che tutto è finito…svanito…che anche noi ci perderemo così…un giorno ancor molto lontano…ma ineluttabilmente…nello spietato torrente delle cose, delle persone…dei giorni…delle forme che passano…che non si fermano mai…» (366-367).

Céline s’è «abbuffato d’infinito» (8), dell’infinito che è l’enigma osceno dell’esistenza, ed è quest’infinito che ci regala attraverso la sua scrittura trafelata e sapiente, plebea e coltissima, partecipe del mondo e disgustata del suo Male.

Note

1 L.F. Céline, Viaggio al termine della Notte (Voyage au bout de la nuit, 1932) trad. di E. Ferrero, Corbaccio, 1995, p. 459.
2 L’incipit del romanzo scandisce da subito «Eccoci qui, ancora soli» (1).
3 «L’ho pur visto arrivare il Progresso…ma sempre senza trovare un posto…Tornavo ogni volta a casa bischero come prima…» (271).
4 «Les deux plus grandes causes d’erreur dans nos rapports avec un autre être sont avoir soi bon coeur ou bien, cet autre être, l’aimer» (Albertine disparue, Gallimard, 1999, p. 2003; I due più grandi errori nei nostri rapporti con un’altra persona sono di aver buon cuore, oppure, quell’altra persona, amarla).

Altri libri di Céline da me discussi in questo sito e sulla rivista Vita pensata:

Il Dottor Semmelweis

Viaggio al termine della notte

La Chiesa. Commedia in cinque atti

Tre balletti senza musica, senza gente, senza niente

Da un castello all’altro

Nord

Rigodon

La carne umana

Dunkirk
di Christopher Nolan
USA, Gran Bretagna, Francia 2017
Con: Fionn Whitehead (Tommy), Aneurin Barnard (Gibson), Jack Lowden (Collins), Tom Glynn-Carney (Peter), Mark Rylance (Dawson), Kenneth Branagh (comandante Bolton)
Trailer del film

La carne umana, come quella di ogni altro vivente, fa di tutto per esistere ancora, per superare gli scogli del tempo e approdare ogni volta all’istante che viene. Durante un’operazione di guerra questo istante, che è sempre precario anche in pace, diventa il tesoro da rabbiosamente difendere rispetto agli eventi e ad altra carne. Che vuole vivere anch’essa. Il tempo si contrae e si dilata in relazione alla possibilità di morire che il corpomente sente avvicinarsi o allontanarsi per lasciare ancora spazio agli eventi. Da tale intuizione, o da qualcosa di analogo, un cultore del tempo come Christopher Nolan in questo film ha tratto tre ritmi.
La spiaggia dura una settimana e raffigura centinaia di migliaia di soldati inglesi e francesi stretti da ogni parte dal ‘nemico’, che li spinge verso il mare e li colpisce dal cielo. Le riprese dall’alto della grande battigia ricordano a volte quelle di Ivan il terribile di Ėjzenštejn
Il molo dura un giorno e descrive i preparativi e l’andare delle barche civili britanniche, sequestrate per portare salvezza ai soldati in trappola al di là della Manica. Il viaggio circadiano si dilata a ritmi più lunghi, a quanto sulla spiaggia precede l’arrivo.
Il cielo dura un’ora ed è la battaglia aerea tra i caccia tedeschi che colpiscono il facile bersaglio sul mare e sulla riva e i velivoli inglesi che cercano di evitare la strage.
L’ambizione ancora una volta assai grande di Nolan è fondere questi tre tempi in uno soltanto. E qui ci riesce, trasmettendo l’energia, l’angoscia, la disperazione, l’immensa tenacia della carne in guerra che non vuole morire e fa di ogni istante il piolo al quale aggrapparsi per salire ancora la vita.
Strumento di tale riuscita è naturalmente il montaggio, cuore e significato del cinema stesso, che dunque si mostra in Dunkirk per quello che è sempre: tempo in immagini e per ciò, come intuisce Deleuze, immagine-movimento.
Quasi sino alla fine il film è questo: pura e magnifica tecnica visiva al servizio di un pensiero profondo. Negli ultimi venti minuti, hélas, si trasforma invece in una banale opera di propaganda patriottica, arrivando a citare ampiamente un discorso di Winston Churchill, della cui gesta a Dresda (13-15 febbraio 1945) aspettiamo ancora che un regista abbia il coraggio storico e civile di parlare, dopo che lo ha fatto Céline: «Parlano mai, ed è un torto, come che i propri fratelli loro, furono trattati arrostiti in Germania sotto le grandi ale democratiche… c’è ritegno, non se ne parla… avevano solo da non stare lí!… è tutto!» (Da un castello all’altro, in «Trilogia del Nord», trad. di G.Guglielmi, Einaudi 2010, p. 205).
«Avevano solo da non stare lí» è quello che certamente passa per la mente dei soldati inglesi a Dunkirk nel maggio del 1940 mentre fanno di tutto per non rimanere più lì, al cospetto della «Furia, del Tumulto, della Morte funesta» (Iliade , XVIII, 535; trad. di G.Cerri, Rizzoli 2003), non rimanere un’ora di più dentro la guerra che dà «a tutti un tremore […] / e si studiava ognuno da che parte sfuggire a morte immediata» (Il., XIV, 506-507).
A dominare ogni istante sono «il lamento e il tripudio degli uomini / che uccidevano ed erano uccisi, grondava di sangue la terra» (Il., IV, 450-451 e VIII, 64-65). Qui gronda di sangue e di carne anche il mare.

«Così fanno i pagani»

«Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come  è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt, 5, 43-48).
Quanti cercano di seguire davvero queste massime di Jeshu-ha-Notzri perdono una delle gioie della vita. Essa consiste nel vedere soffrire chi ci ha fatto soffrire; nel gustare la caduta di quanti produssero in noi lacrime, umiliazioni o tristezza; nel godere sino in fondo e con un sorriso della malattia, dell’abbandono, della rovina che afferra chi ci ha procurato dolore. A coloro che mi hanno ingannato, tradito, voluto del male -come costui, come uomini e donne che non hanno meritato il mio amore e la mia amicizia, come alcuni indegni soggetti incontrati in contesti professionali-, io auguro ogni sofferenza.
Ma in realtà i cristiani provano di frequente la gioia che qui sto cercando di descrivere. Loro che ben lontani dall’“amare i nemici” sono sempre stati i primi a massacrarli. Guerre di religione, roghi (Giordano Bruno sarà per sempre la maledizione dei papisti e Michele Serveto lo sarà per i protestanti), persecuzioni di streghe ed eretici, colonialismo, benedizione di tutte le guerre, complicità con i mafiosi e i pedofili, conflitti interni per il potere, sostegno a ogni sorta di tiranni, crimini vasti e di varia natura, costituiscono il contrappasso che condanna tali ipocriti. I cristiani negano la natura umana e però la praticano (e che altro potrebbero fare?), i pagani la seguono senza mentire, in primo luogo a se stessi:
«καὶ τὸ τοὺς ἐχθροὺς τιμωρεῖσθαι καὶ μὴ καταλλάττεσθαι (e vendicarsi dei nemici è più bello anziché riconciliarsi)»
(Aristotele, Retorica A, 9, 1367 a, 24).
«Ma ho forse torto a lamentarmi… la prova, io sono ancora vivo… e perdo dei nemici tutti i giorni!… di cancro, … di apoplessia, di ludreria… è un piacere come che si svuota il sacco!… non insisto… un nome!… un altro! ci sono dei piaceri nella natura…»
(Céline, Da un castello all’altro, in «Trilogia del Nord», Einaudi 2010, p. 24).
«οὐκοῦν ἐπὶ μὲν τοῖς τῶν ἐχθρῶν κακοῖς οὔτ᾽ ἄδικον οὔτε φθονερόν ἐστι τὸχαίρειν (gioire dei mali dei nemici non è né ingiusto né invidioso)»
(Platone, Filebo, 49 D).
«εἰ κεινόν γε ἴδοιμι κατελθόντ’Ἄϊδος  εἴσω / φαίνην κε φρέν ἀτερπου ὀιζύος ἐκλελαθέσθαι» [Se lo vedessi discendere dentro i recessi di Ade, / direi che un brutto malanno avrebbe scordato il mio cuore]. Questo dice Ettore di Paride, suo fratello, in Iliade, VI, 284-285.
Così fanno i pagani.

Al termine della notte

Viaggio al termine della notte
di Louis-Ferdinand Céline
(1932)
(Voyage au bout de la nuit, Gallimard, 1952)
Traduzione e note di Ernesto Ferrero
Corbaccio, 1995
Pagine 575

voyageIl silenzio. Questo solo rimane dopo l’immersione in questo libro senza pari. Come Proust desiderava per la sua Recherche, dobbiamo dire anche a Céline: ‘Sì, la vita è veramente così. Le cose accadono come tu le hai descritte’.
Non la notte che ci avvolge, non il buio che percorriamo ma la notte che siamo. Questo, nulla di meno, Céline ha tentato di descrivere. Il nostro corpo, magnifico e disgustoso, desiderato e repellente. La menzogna di chi parla dell’avvenire e in suo nome intende redimere -sacrificandolo- il presente. La guerra con la sua «imbecillità infernale» (pag. 20). L’inganno delle maggioranze. La pericolosa ma inavvertita potenza delle parole che devastano i sentimenti e creano mondi; la terribilità ancora più grande di quello che non è stato ancora detto. Il commercio, «questo cancro del mondo, sfolgorante nelle réclames ammiccanti e pustolose» (230). La truffa della vivisezione, la gratuita crudeltà verso le bestie. Il tempo che non basta se non per pensare a se stessi. Il tentativo reciproco, continuo e infaticabile di fregarci a ogni istante, l’istinto assassino della gente, la sua «impotenza speculativa» che la obbliga «a odiare senza alcuna chiarezza» (421), tanto che «fidarsi degli uomini è già farsi uccidere un po’» (200). La potenza, di contro, della solitudine, di una forte vita interiore capace di bastare a se stessa. L’invincibile muraglia del destino, ai cui piedi si ricade «ogni sera, sotto l’angoscia dell’indomani, sempre più precario, più sordido» (225). Il destino che ci rende «tutti aggrappati come palle di bigliardo vacillanti sull’orlo della buca» (385). La finzione della morale, quest’immensa fatica«per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi» (459). Il bisogno, l’istinto, di godere ed essere felici e l’impossibilità quindi di un vero, integrale, dolore. L’impulso a vomitare la terra intera, questo «spaventoso universo proprio orribile…» (549). La pena, quindi, che non ci lascia mai, che non si può mollare in qualche angolo di strada e che «forse è ancora meglio finire per amarla un po’ invece di dannarsi a picchiarla tutta la vita» (383). Una vita che somiglia a «una classe in cui la noia è il professore» (391). L’amore che ci manca, quello per la vita degli altri. Lo studio, l’istruzione che fa l’orgoglio di un uomo e attraverso la quale «bisogna proprio passare per entrare nel cuore della vita. Prima, ci si gira soltanto intorno» (269), tanto che non basta essere ostinati e carogne se non si aggiunge la cognizione, la quale soltanto consente di andare più lontano degli altri. Lontano fino a scorgere «sùbito in qualsiasi individuo la sua realtà di grosso verme ingordo» (372), fino a comprendere la radicale malvagità degli uomini, la loro «sporca anima eroica e fannullona» (21), capire «fino a qual punto gli uomini sono carogne» (33), gli uomini, queste bestie verticali (159).
«A ciascuno il suo terrore» (62). Qualunque cosa accada, è da soli che si muore perché la morte è inseparabile dal nostro essere, è l’altro nome dell’individualità, è la prima sostanza e l’ultimo apprendimento: «La verità è un’agonia che non finisce mai. La verità di questo mondo è la morte» [cfr. Canetti: Massa e potere] (225). Una volta che si è nati, la cosa migliore è uscire da questa «notte smisuratamente ostile e silenziosa» (361), dopo essere stati «una scheggia di luce» (376).
Tutto questo e molto altro è il Voyage. Una narrazione che va da Parigi al Congo, dal fronte franco-germanico a Detroit, «dalla vita alla morte». Spinta da una inesausta «voglia di saperne sempre di più» (263), intessuta e materiata di un linguaggio senza modelli, insieme gergale ed elegante, immediato e artificioso, sensuale e plebeo senza mai essere volgare. Nello specchio deformante e quindi fedele di questo libro mi sono guardato e mi sono  riconosciuto. «Non avevo una grande idea dell’uomo io» (545).

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