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La notte, la luce

Portrait de la jeune fille en feu
di Céline Sciamma
Francia, 2019
Con: Adèle Haenel (Héloïse), Noémie Merlant (Marianne), Luàna Bajrami (Sophie), Valeria Golino (la contessa)
Trailer del film

Tu superos ipsumque Iovem, tu numina ponti
victa domas ipsumque, regit qui numina ponti.
Tartara quid cessant?
(Ovidio, Metamorfosi, V, vv. 369-371)
[Tu vinci e domi gli dèi del cielo e lo stesso Giove, tu vinci e domi le divinità del mare e anche colui che regna sulle divinità del mare. Perché il Tartaro deve fare eccezione?]
(Trad. di Piero Bernardini Marzolla, Einaudi 2015)

Bretagna 1770. Marianne si sta facendo ritrarre da alcune sue allieve quando lo sguardo cade su un vecchio dipinto che mostra una ragazza su una spiaggia, la veste lambita dal fuoco. Lo sguardo della pittrice si fa intenso, amaro, struggente. Ricorda che molti anni prima era stata incaricata di ritrarre quella giovane donna, per inviare l’immagine di lei al futuro sposo. Héloïse però non voleva essere ritratta, non voleva sposarsi. Marianne è quindi costretta a osservarla di giorno e a ricordarla di notte. Sino a che Héloïse acconsente a posare per lei. Il ritratto si intreccia allora al racconto di Orfeo ed Euridice, alla poesia, alla musica di Vivaldi, alle Metamorfosi di Ovidio. Si intreccia all’amore tra Marianne e Héloïse. Un amore fatto di tenerezza, di corpi gloriosi, di baci, di notti e di spiagge. Fatto soprattutto di sguardi che fendono l’aria, la luce e la notte. Un amore che si chiude su un ultimo «Vòltati» che si perde come il vòltati di Euridice, un amore che si ritrova in un pianto che rimembra un desiderio che non può finire, non può.
Girato come un quadro, scandito come un concerto, in questo film ogni particolare conta e sta dove deve stare, ogni parola è parte necessaria della trama, la luce e l’ombra sono il mondo, ogni sentimento è inevitabile. Anche questo è il gorgo immenso delle relazioni umane. È il caos degli incontri, il battito frenetico del desiderio e dell’angoscia. È il canto innamorato e lo sprofondo dell’incertezza che sempre lo accompagna. Batti batti il tempo che va e che si ferma nell’attesa infinita dello sguardo, nel fulmineo trascorrere degli incontri, nel lento sgretolarsi dei sentimenti, nella pace infine del già stato. Un amore finito mostra l’insensatezza dello stare al mondo e però anche -in un modo indefinibile e sottile come carta velina e trasparente- la sua pienezza. Come se vuoto e pieno fossero più che inseparabili, fossero l’identico dell’enigma che ci sovrasta a darci notte, a regalarci luce.

Identità

Tomboy
di Céline Sciamma
Francia, 2011
Con Zoé Héran (Laure/Mickäel), Jeanne Disson (Lisa), Mallon Lévana (Jeanne), Sophie Cattani (la madre),  Mathieu Demy (il padre)
Trailer del film

Laure è una ragazzina efebica e insieme mascolina. Arrivata in un nuovo quartiere, la prima coetanea che incontra la prende per un ragazzo. Lei non la corregge e si fa presentare come maschio al gruppo di adolescenti nel quale Lisa la introduce. Laure si fa chiamare Mickäel, gioca al calcio, vince nelle zuffe, si costruisce e utilizza un pene finto quando indossa il costume da bagno. Tra Mickäel e Lisa nasce un ovvio affetto, delicato e sensuale. La finzione però non può durare e quando la verità emerge la madre di Laure ha una reazione molto severa. Chiarito tutto con i vicini di casa e con il gruppo, il sorriso tra Laure/Mickäel e Lisa non viene meno.

Ed è su questo sorriso di una piccola attrice assolutamente credibile che il film si chiude e si riapre. Finzione, verità? L’identità di genere non coincide sempre con l’identità sessuale. Al genere non si  appartiene solo per caratteristiche biologiche ma esso dipende anche dal sentirsi maschio o femmina. E Laure si sente così maschio, e tale appare, che quando la madre la costringe a indossare un insulso abitino femminile lo spettatore percepisce in modo netto l’innaturalità di quell’abito su quel corpomente. Tuttavia l’antibiologismo di una concezione soltanto psicologica e mentale del genere può sì liberare il soggetto da un’identità che non sente propria ma può anche essere funzionale al dominio di un’ontologia volontaristica che diventa il controllo dei chirurghi estetici su corpi che sentono se stessi come sbagliati.
Tomboy ha il grande merito di affrontare un tema così difficile tramite la complessa semplicità delle azioni più che delle parole, degli sguardi che Laure/Mickäel rivolge a Lisa, agli altri bambini, a se stessa mentre si guarda allo specchio. Non c’è alcun binario prefissato in questo film, non c’è alcun compiacimento o sentimentalismo ma lo scavo appassionato e rispettoso nell’interiorità di un essere umano in un momento di  transito e di confine.

 

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