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L’ inquisitore

Teatro Elfo Puccini – Milano
La leggenda del grande inquisitore
da I Fratelli Karamazov di Fëdor Michajlovič Dostoevskij
drammaturgia Pietro Babina, Leonardo Capuano, Umberto Orsini
regia Pietro Babina
con Umberto Orsini, Leonardo Capuano e Silvia Maino
Produzione Compagnia Umberto Orsini
2-7 dicembre 2014

Nel V capitolo del V libro della seconda parte del romanzo, Ivan Karamazov inventa una storia e la racconta al fratello Alëša. È la leggenda del Grande Inquisitore che imprigiona, giudica e condanna il Cristo tornato tra gli umani. Nell’imponente e fluviale romanzo sono soltanto quindici pagine ma sono pagine famose e decisive. Umberto Orsini le racconta nella parte finale dello spettacolo, dando ancora una volta voce al lucido paradosso di Dostoevskij. Prima, per due terzi della rappresentazione, il protagonista è un Ivan diventato vecchio che combatte con il suo racconto giovanile, combatte con un alter ego che è suo figlio, che è Mefistofele o il rimpianto o la malignità o il dubbio. Lo fa con una declinazione troppo psicoanalitica e in un ambiente del tutto claustrofobico, come la coscienza del protagonista. E la differenza tra la drammaturgia contemporanea e il testo dello scrittore emerge in modo impietoso.
Di Dostoevskij Nietzsche scrisse che è «l’unico psicologo da cui avrei qualcosa da imparare: egli rientra nei più bei casi fortunati della mia vita» (Crepuscolo degli idoli, trad. di F. Masini, in «Opere» vol. VI, tomo III, Adelphi 1975, § 45, p. 146). Per uno scrittore di questa grandezza non c’è bisogno di nessuna psicologia. Basta la sua scrittura, tanto radicale quanto oggettiva: «Perché dunque sei venuto a darci impaccio? […] Ma domani stesso, io ti condannerò e ti brucerò sul rogo come il peggiore degli eretici. […] Tu ci hai sanzionato colla tua parola, Tu ci hai concesso il diritto di legare e di sciogliere, e, certamente, non puoi neppur pensare di venire a toglierci questo diritto ora. Perché dunque sei venuto a darci impaccio? […] Ci sono tre forze, soltanto tre forze sulla terra, capaci di vincere e di catturare per sempre la coscienze di questi impotenti ribelli, per la loro stessa felicità: e queste forze sono il miracolo, il mistero e l’autorità. Tu hai rifiutato la prima e la seconda e la terza. […] Tu hai giudicato troppo altamente degli uomini, giacché, in fin dei conti, costoro son degli schiavi, seppure con la costituzione del ribelle» (I fratelli Karamazov, trad. di  A. Villa, Einaudi 1981, vol. I, pp. 334-341).
Schiavi con la costituzione del ribelle, sì è questo che siamo. Ed è ciò che dà forza ai tiranni, agli inquisitori di ogni chiesa, ai malvagi.

Roma

Sacro GRA
di Gianfranco Rosi
Italia, 2013
Trailer del film

Gli spazi che abitano gli umani, i luoghi che essi attraversano e che li attraversano, diventano parte e somma della loro sostanza temporale. Lo spazio è infatti il fotogramma del presente che sembra fermarsi nell’istante. È anche per questo che i medesimi luoghi possono apparire assai diversi a diversi corpimente e che lo stesso luogo cambia profondamente se una distanza temporale ci separa a lungo da esso.
Roma, quindi. Che cos’è Roma? È lo spazio clamoroso e affascinante de La grande bellezza o è il luogo gorgogliante di silenzi di Sacro Gra? È la sede per eccellenza di un potere millenario che dalla ieratica ferocia degli imperatori è giunto alla volgarità degli onorevoli analfabeti? È l’epifania di un cattolicesimo immortale o è la malinconica tomba di Dio della quale parla “l’uomo folle” della Gaia Scienza? Roma è tutto questo. Ed è altro. Sempre.
È tale alterità che descrive il film di Rosi. Che non è una storia ma non è nemmeno un “documentario”. I suoi dialoghi non sono finti ma nemmeno sono veri. È teatro. Il teatro della miseria e della dignità, dei finti nobili che abitano dimore pacchiane e dei veri nobili ridotti e ricondotti alle case popolari. Il teatro del sesso per i soldi e della passione per le palme. Il teatro delle anguille e dei fotoromanzi. Il teatro del sangue, della demenza e dell’andare infinito lungo una strada, il Grande Raccordo Anulare, che è un cerchio. 64 chilometri che tornano sempre su se stessi a circondare «come anelli di Saturno» la capitale del cattolicesimo e dell’Italia.
Questo luogo e teatro della mente è raccontato da Gianfranco Rosi con la splendida fotografia che rende limpidi i nembi, surreale la neve, abbacinati i fedeli in visita al santuario del Divino Amore. E su tutto si dà il montaggio, in cui il cinema consiste e nel quale si risolve. Montaggio che trasforma le esistenze affaticate e vuote degli umani nella creazione sempre altra dell’occhio che li guarda.

Guerra di religione

È uno spettacolo. Banchieri di Dio –Ettore Gotti Tedeschi, membro dell’Opus Dei- cacciati in malo modo. Improbabili “maggiordomi del Papa” dati in pasto alla pubblica opinione per circoscrivere la faida e insieme assestare un altro colpo al Pastore tedesco. Il salesiano cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone, la massima autorità del Vaticano dopo il Sommo Pontefice, ormai accerchiato e proprio per questo sempre più feroce. Perché stupirsi? La Chiesa papista funziona da millenni in questo modo. Basta conoscere un poco la storia dell’Europa per rendersene conto. Le novità, semmai, sono due: la più significativa è che le massime autorità vaticane stanno perdendo la testa e non rispettano più le forme, il silenzio, quel meraviglioso «Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire» (I Promessi sposi, cap. XIX) che il cattolico Manzoni ha descritto meglio di ogni altro; la seconda è l’incapacità di far fronte a un sistema mediatico attentissimo ormai a ogni sospiro. Si tratta, come si vede, di due novità convergenti. Ma usciranno anche da questa burrasca. Sono troppo antichi e troppo esperti. Ne hanno viste di peggio.

La domanda inammissibile, invece, è quella di chi si chiede -preoccupato, triste o scandalizzato- “ma che cosa c’entra tutto questo con il Vangelo?”. C’entra. E molto. «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano» (Lc., 6, 27-28). Quando si propongono un’antropologia e un’etica impossibili e dunque sbagliate, come quelle riassunte da questo brano evangelico, la conseguenza non può che essere una: vista l’impraticabilità di una simile utopia antinaturalistica, ci si sente di fatto autorizzati ai peggiori comportamenti poiché rispetto a tali angeliche sublimità siamo in fondo tutti dei poveri peccatori e dunque giustificati a peccare, tanto più se lo facciamo a difesa e in nome della Chiesa di Dio.
Ma la responsabilità maggiore non è dei monsignori, dei cardinali, dei pontefici romani. È dei cattolici. È dei fedeli che continuano a sostenere la potenza politica e ideologica della Chiesa papista e in questo modo si fanno complici di tutte le sue nefandezze. La responsabilità è della pigrizia, del pregiudizio, della superficialità, della fede acritica, dell’obbedienza di milioni di laici. La responsabilità è dei cristiani e della loro ingenuità. Perché l’ingenuità è un’arma che le forze più ciniche e determinate sanno volgere sempre a proprio vantaggio. In questo caso a vantaggio delle bande vaticane impegnate in una guerra di religione.

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