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Gloria

Hans Urs Von Balthasar
Gloria. Un’estetica teologica
Volume IV: Nello spazio della metafisica. L’antichità
(Herrlichkeit. Im Raum der Metaphysik. I Altertum, 1965)
Trad. di Guido Sommavilla
Jaca Book, 2017
Pagine 379

La Herrlichkeit, la gloria, «non si può definire» (p. 19). Così comincia il percorso di Hans Urs von Balthasar nello spazio della metafisica antica, da Omero a Tommaso d’Aquino. Eppure lungo l’itinerario le definizioni della gloria si moltiplicano, partendo sempre e pervenendo ogni volta ai trascendentali, vale a dire alle proprietà dell’essere che lo coinvolgono e lo definiscono nella sua totalità, essendo sempre in reciproca relazione, non delimitandosi a vicenda ma costituendo l’uno con l’altro l’universale che traspare in ogni ente, evento, processo e proprietà particolare, dandogli significato, esistenza e luce. Sono quattro gli universali così intesi dalla Scolastica sul fondamento della filosofia greca: l’uno, il vero, il bene, il bello.

Prima che nel XVIII secolo, con Baumgarten e Kant, l’estetica venisse ricondotta e ridotta «a una scienza  regionalmente delimitata, essa era – vista nel complesso della tradizione – un aspetto della metafisica in quanto scienza dell’essere dell’ente» (26), il quale a sua volta rinvia all’assoluto, che per il pensiero cristiano è Dio. Il tentativo del teologo svizzero è difendere dunque il bello come sostanza ed espressione del divino cristiano filosoficamente inteso: «Come ultimo trascendentale il bello custodisce e sigilla gli altri: nulla di vero e di buono alla lunga senza la graziosa luce di quello che viene donato senza uno scopo» (42).
A questo fine, l’indagine assume un andamento che attraversa lo spazio storico  – come detto, dai Greci al culmine della Scolastica – poiché soltanto se implementato in un particolare l’universale è reale, e attraversa lo spazio metafisico, poiché soltanto se hanno le loro radici nell’essere gli enti ed eventi particolari possiedono senso e sostanza.
Il ‘Dio’ di von Balthasar è dunque una forma prima di tutto estetica, è un’esperienza artistica dalla quale soltanto può irradiarsi la gloria. Il percorso è lo stesso di ogni avvertita e colta teologia cristiana: un consapevole, dotto ma anche disperato tentativo di ancorarsi ai Greci, vedendo in loro una continuità germinale e fondante con il cristianesimo. A questo scopo l’autore respinge ogni volontà di voler ‘depurare’ la fede cristiana dalla filosofia e dal mito, ogni pretesa di « voler essere più biblici della bibbia e più cristiani di Cristo» (224), poiché, in questo modo, del cristianesimo non rimarrebbe quasi nulla, soltanto cascami settari, fanatici, semplicemente e soltanto filantropici. Una domanda posta a proposito di Giovanni Eriugena vale per tutto il libro, vale per l’intera sua estetica teologica: «Tutto questo è biblicamente tollerabile, oppure qui l’antica forma filosofica di pensiero ha trionfato definitivamente sui contenuti biblici?» (316). Interrogativo ammirevole nella sua sincera chiarezza, tanto più che von Balthasar ammette che «visto nel complesso il cristianesimo ha pensato se stesso soprattutto con categorie straniere» (291), vale a dire con le categorie dei Greci.

Per comprendere la portata e il fallimento del tentativo, ricordiamo che questo teologo – nato nel 1905 e morto nel 1988, due giorni prima di ricevere la porpora cardinalizia – è stato uno degli uomini più colti del Novecento, che ha ben compreso come il cristianesimo possa continuare a vivere soltanto in un dialogo reale con il proprio tempo, basato però non sulla sua trasformazione in un’agenzia filantropica (cosa che appunto lo sta facendo morire) ma continuando il dialogo  con la cultura greca e romana, che per il cristianesimo è costitutivo e fondante. Egli costruisce però tale dialogo da gesuita (fu membro dell’Ordine sino al 1956), dando sempre l’impressione che sia il cristianesimo a gettare luce sulla filosofia, quando è accaduto e continua ad accadere esattamente il contrario. Leggendo questa e altre sue opere appare infatti evidente che la persona del Nazareno non c’entra nulla con la teologia cristiana.
Il fondamentale tentativo di ancorare la fede cristiana nel linguaggio teoretico e mitologico dei Greci e dei Romani (soprattutto Virgilio e il neoplatonismo) spiega anche la lettura tendenzialmente monoteistica, e dunque arbitraria, che von Balthasar attua di Omero: «In nessun poema della letteratura mondiale Dio viene pensato in modo così incessante ad ogni situazione della vita» (52, il corsivo è mio). E tuttavia il teologo è capace di leggere Omero con una profondità, finezza ed empatia straordinarie. Al poeta greco «fu accordato […] il dono della bellezza per tempi illimitati» (69); «con Omero fu deposta nella culla dell’occidente» una «‘inconcepibile grazia e bellezza’» (75). Questa capacità di sentire i Greci – Omero ma anche i tragici, i lirici, i filosofi- conduce von Balthasar ad ammettere che il Prometeo di Eschilo si rivolge alle potenze della materia, ben oltre i nomi degli dèi antropomorfici «rivolgendosi non agli dèi che gli hanno inflitto il tormento, ma alle potenze cosmiche e più antiche (a quelle precisamente che per Hölderlin rappresentano il fondo primordiale di ogni divino poi formato e definito): al santo Etere, al Vento spirante, alle Sorgenti e all’ondoso Mare, alla Terra Madre di tutti i viventi e al Sole che illumina ogni cosa» (109-110, il riferimento è a Prom. Vv. 88-91), ad ammettere quindi che il ‘Dio’ greco è il cosmo, è la materiatempo.

L’ammissione diventa piena e teoretica nelle indagini su Platone, Aristotele, i neoplatonici, per i quali tutti il dio, la perfezione, la bellezza, la gloria è costituita dal cosmo, dalla materia infinita e perfetta dei cieli. Andando quindi ben al di là dell’effimero umano, della sua patetica presunzione di stare al centro quando invece l’umano è semplice periferia.
In Plotino la vista del cielo conferma la divinità del mondo, così come «Aristotele vede nell’ordine celeste immediatamente rivelarsi il divino» (206) e prima ancora l’Epinomide platonico pone al centro dell’essere la «gloria dell’ordine astrale» (196). Tutto il Timeo, poi, costituisce la bella, significativa e ultima soluzione platonica al male dell’umanità e della vita: andare μετά, oltre, e guardare gli astri, il cosmo, il loro essere immuni da ogni imperfezione, lamento e dolore. Per lo sguardo di Platone «l’anima singola, per restaurare equilibri (ἰσορρόπο) perturbati tra se stessa e il corpo o in se stessa, non ha bisogno che di guardare al cosmo, che è sempre in perfetto divino equilibrio, per avere un modello da imitare» (194).
Anche se il cristiano von Balthasar vede nella «grande vendetta come la compiono Ecuba, Medea e alla fine un’altra volta Elettra ed Oreste […] suoni di paganesimo selvaggio» (132), il teologo von Balthasar sa bene che anche questa vendetta si radica nella potenza teoretica dei Greci ed è anch’essa espressione del carisma proprio del maggiore tra i filosofi cristiani dopo Agostino. Tommaso d’Aquino scrive infatti (nel De Malo, 4, 2 obj 17) che la «maxima pulchritudo humanae naturae consistit in splendore scientiae» (361).
Su tale splendore aleggia ovunque la potenza del tempo «che copre tutto ciò che è svelato e svela tutto ciò che è nascosto» (118), tempo la cui «ardente pienezza mitica, la qualità della gloria, può essere paragonata soltanto con la qualità sacramentale che la assume e la supera» (102). Su tale splendore si innesta ἀλήθεια, la quale «significa appunto lo stesso che: realtà come essa è» (159). Su tale splendore domina la gloria del divenire, la materia-luce che per i teologi di Chartres è «tra le cose del mondo infraspirituale, la cosa massimamente simile allo spirito, anzi a Dio» (334), la materialuce che è Dio.

Tragedia

L’ombra di Caravaggio
di Michele Placido
Italia, 2022
Con: Riccardo Scamarcio (Caravaggio), Louis Carrel (L’inquisitore), Maurizio Donadoni (Paolo V), Isabelle Huppert (Costanza Sforza Colonna), Lolita Chammah (Anna), Micaela Ramazzotti (Lena Antonietti), Michele Placido (Cardinale Del Monte)
Trailer del film

Tragedia è la costante tendenza dei corpi collettivi a imporre una ortodossia e una ortoprassi volte a comprimere, reprimere, controllare, sopire e troncare, troncare e sopire quanto la fantasia, l’intelligenza e la libertà costantemente generano dentro le collettività umane. La fantasia, l’intelligenza e la libertà che dentro tali collettività gli individui più dotati di talento sanno esprimere, inventare, difendere, generare, diffondere. La tendenza securitaria dei gruppi umani è invece quella di chiudersi dentro un recinto ben organizzato di verità e di valori che giudica inevitabilmente pericolosa ogni prospettiva che non si confà ai valori praticati e alle verità credute da gruppi, partiti, chiese e regimi di volta in volta diversi ma costanti nella loro tendenza a catturare e distruggere il pensare.
Michelangelo Merisi (1571-1610) fu una delle vittime di questa tendenza e però la sua arte e il suo talento furono così grandi da convincere parte del potere – in questo caso quello di famiglie e cardinali della Chiesa Romana – a proteggerlo e a finanziarne l’opera. Così come vittima fu negli stessi anni Giordano Bruno che in questo film viene fatto incontrare in carcere con Merisi in una delle scene comunque più deboli dell’opera.
Caravaggio e Bruno furono aggrediti e perseguitati in nome dei valori e delle verità della dottrina cristiana. Almeno però il fasto, lo scetticismo e il libertinismo di molti esponenti della Chiesa Romana garantivano il lavoro degli artisti e la sopravvivenza delle loro opere; cosa che oggi credo non accada più, visto che tale Chiesa è diventata sempre più moralizzata e moralistica. Peggio accadde in ambito protestante e luterano dove, almeno agli inizi, non era neppure possibile che sorgessero artisti e filosofi lontani dai valori e dalle verità bibliche alle quali si ispiravano il monaco agostiniano Lutero e il gelido teologo Calvino.

L’opera e il pensiero di tali custodi dell’etica cristiana continuarono nel massimo custode dell’etica egualitaria e uniforme dello stalinismo: Andrej Ždanov. Il quale fu intransigente persecutore di ogni pittore, musicista, letterato che si discostasse dalle regole del «realismo socialista», unica forma d’arte ammessa dal regime sovietico.
L’opera e il pensiero di tali custodi dell’etica cristiana e stalinista continua oggi negli intransigenti persecutori di ogni cittadino e intellettuale che critichi i valori uniformanti e conformisti del Politically Correct; della medicina ricondotta a braccio armato delle case farmaceutiche -come ha documentato Ivan Illich -; delle scienze ridotte a correnti di un’ortodossia e un’ortoprassi volte a perseguitare quanti in vari modi difendono la salute dei cittadini, l’abito scientifico, il buon senso, le nostre libertà.
Caravaggio non ebbe requie e pace da coloro che o con l’apparato dottrinale o con la violenza dei pugnali ripudiavano la metamorfosi che nei suoi capolavori accadeva di gente miserabile, mendicanti e prostitute in santi e madonne. Questo non era etico, come non è etico oggi utilizzare il maschile neutro per rivolgersi a un gruppo di persone o apprezzare il pensiero di David Hume e di Voltaire nonostante il primo accettasse la schiavitù e il secondo fosse antisemita. E sono soltanto due esempi di una tendenza che non lascia in pace niente della storia dell’Europa, tendenze nichilistiche quali la Cancel culture e l’ideologia Woke.

Il film di Michele Placido ha reso vivide ai miei occhi le conseguenze e le forme di ogni ondata di moralismo con la quale si intende cancellare fantasia, intelligenza e libertà in nome di un qualche valore supremo. Per questo l’ho apprezzato, per il suo costante intersecare «un immenso talento» (parole dell’inquisitore) con «tuttavia» il pericolo che l’arte di Caravaggio disvelasse al popolo la tragedia dell’esistere e l’inconsistenza delle promesse redentive.
Mi sembra che il regista e gli sceneggiatori facciano propria l’ipotesi di Vincenzo Pacelli e Tomaso Montanari secondo la quale l’artista lombardo non morì di febbri e infezione da piombo ma assassinato da emissari dei poteri a lui avversi. Al di là di vari elementi controversi della biografia, il film mostra in ogni caso l’inquietudine costante, il carattere difficile, il bisogno di libertà e il genio davvero sconfinato di Caravaggio, del quale qualche anno fa scrivevo questo:
«Da dove viene questa luce? Viene dalla sapienza delle mani febbrili nel lavorare e dipingere per poi ‘darsi al bel tempo’, come si diceva allora; viene da un carattere inquieto, votato allo svelamento e al possesso totale della vita; viene dalla dismisura di un uomo violento, permaloso, passionale, facile al pugnale; viene dalla forma, cercata negli anfratti più scuri dell’essere, quelli in cui si conserva l’eco della sapienza primordiale, del non dicibile ma raffigurabile; viene dall’ombra, perché anche quest’ombra è la filosofia».

L’immagine in alto riproduce La morte della Vergine, un capolavoro rifiutato dall’Ordine Carmelitano – che pure a Caravaggio lo aveva commissionato – e che oggi si trova al Louvre. La madre di Gesù ha le sembianze terree di un vero cadavere, non destinato a essere assunto in cielo, e sembra raffigurare con il suo ventre gonfio una donna incinta o almeno morta annegata nel Tevere. I valori della fede mariana non potevano accettare una simile sconcezza. Ma il dipinto è mirabile. Essere liberi, esserlo davvero dentro il cuore, significa difendere la bellezza, l’immaginazione, il pensare e la differenza da ogni cupo controllo dei valori morali, che si tratti di quelli del cristianesimo nella sua gloria o dei «diritti umani» i cui fanatici sostenitori sono pronti a privare di diritti i cittadini che non si conformano ai loro valori, alle loro credenze, alle loro interpretazioni del mondo, al loro bisogno di apparire «buoni e giusti».
Ecco, questa è la tragedia sempre presente nelle società umane. Tragedia pervasiva del nostro presente epidemico e politico. 

Pasolini, il mito

Pasolini Hostia
Palazzo Lanfranchi – Matera
A cura di Lorenzo Canova e Vittorio Sgarbi
Sino al 6 novembre 2022

Da quando nel 1964 Pasolini fece muovere e parlare il Gesù del Vangelo secondo Matteo tra i Sassi di Matera, la città e il regista sono profondamente legati. Il Palazzo Lanfranchi – dal quale lo sguardo spazia lungo le case e la gravina di Matera – ospita una mostra plurale dedicata al progetto/proposta di Nicola Verlato di fare di Ostia un luogo consacrato a Pasolini. Il progetto prevede un teatro, un cenotafio, un portico a colonne. Luoghi dentro i quali ospitare le ceneri vive di Pasolini, conservare le sue opere, perpetuare la memoria. Luoghi che dovrebbero contenere anche le musiche composte da Verlato e i grandi quadri – delle vere e proprie pale d’altare – che ha dipinto ispirandosi a Caravaggio e però caratterizzati da un ultrarealismo a tratti francamente retorico, cosa che credo Pasolini non avrebbe apprezzato.
Il motivo che accomuna tutte le opere è la figura del poeta «sprofondato», una rivisitazione/interpretazione del corpo di Pasolini come venne trovato a Ostia il 2 novembre 1975. A partire da questa tonalità tragica, plastica e dinamica, le pale narrano la vita del regista, i suoi legami con la grande poesia di Petrarca e di Pound, l’opera d’arte totale che la sua esistenza volle essere.
La nettezza delle figure è così lancinante da trasformarsi in sogno geometrico e spesso in incubo. I chiari riferimenti al Seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio (a Siracusa) trasformano in mito la cronaca dell’assassinio di Pasolini.
La cappella di quello che fu il Palazzo dei vescovi di Matera è in questo modo diventata luogo di celebrazione di un intellettuale mai omologato, immerso in indicibili passioni e sempre rimasto dolorosamente cattolico. 

Incarnazione

I Marmi Torlonia
Collezionare capolavori

Gallerie d’Italia – Milano
A cura di Salvatore Settis e Carlo Gasparri
Sino al 18 settembre 2022

Sarcofago con trionfo indiano di Dioniso (II sec. e.v.)

L’autentico desiderio religioso degli umani, quello immediato, quello che precede le teologie monoteiste, il bisogno veramente connaturato all’esserci e che accomuna le civiltà e le culture più diverse nello spazio e nel tempo, è sentire accanto a sé il divino – impresso nel marmo, nel bronzo, nel legno, nei muri, nelle pietre, nello spazio. Ovunque.
È tale esigenza che si vede, si tocca, si compie nelle opere che costituiscono «la maggiore raccolta privata di arte antica al mondo» (Guida alla mostra, p. 1), i marmi raccolti nei secoli dalla famiglia romana dei Torlonia. Nella sua presentazione video Salvatore Settis definisce il Museo Torlonia (fondato nel 1875) «una collezione di collezioni». Lo si vede bene anche in questa oculata e magnifica selezione di 96 delle  620 opere del Museo romano, provenienti da scavi effettuati dai Torlonia nei loro possedimenti e soprattutto dall’acquisizione di altre collezioni, come quelle dello scultore Bartolomeo Cavaceppi (XVIII secolo), di Villa Albani (stesso secolo), della collezione Giustiniani (XVII secolo) e di raccolte ancora più antiche (Cesi, Savelli, Cesarini, Pio da Carpi).
Il risultato è l’incarnazione, sono i corpi degli dèi accanto ai nostri, è la continuità somatica tra l’animalità e il divino, è la terra che dalle proprie argille, sedimentazioni, pietre, plasma i marmi nei quali uno sguardo insieme identico e diverso guarda i futuri attraverso il volto dei divini o gli occhi dei mortali.
La mostra si apre infatti con una galleria ellittica di busti che ripercorre i primi due secoli dell’Impero romano. Si ha l’impressione proprio di incontrarli questi umani ai quali il tempo diede un grande potere e il tempo glielo tolse, anche velocemente. I busti di Adriano (II sec. e.v.) e di Antinoo (XVIII sec.) (qui a destra), per quanto lontani tra di loro nel tempo rimangono sempre inseparabili.
Il ritratto di Antinoo porta il nome di «Dionysos-Osiride». Il grande dio della gioia è presente ovunque in questa mostra, in particolare in due opere: il Sarcofago con trionfo indiano di Dioniso (II sec. e.v., immagine a inizio articolo) e il grande Cratere con simposio bacchico, detto Tazza Cesi o Vaso Torlonia (II-I sec. a.e.v., qui a sinistra). In quest’ultimo, tra le altre raffigurazioni, un uomo stringe una donna da dietro prendendo nelle proprie mani i suoi seni e un gruppo di maschi osserva con passione una donna nuda distesa. L’intera opera è la pienezza del desiderio, è il piacere del corpo, sono gli abbracci, il sesso. Un altro figlio di Zeus, Eracle celebra ancora una volta e più volte le proprie fatiche, le sue vittorie.
E poi i gesti gloriosi e insieme rassicuranti di altri dèi, come la Atena Giustiniani-Carpi (II sec. e.v., alla fine del testo); l’armoniosa mescolanza tra l’antico e il barocco; l’intensità degli occhi e del volto della Fanciulla da Vulci (I sec. a.e.v., qui a destra), scene di commercio, di culto, di prigionia e di vittoria.
E soprattutto i gesti senza tempo e insieme colmi di tempo che identificano, segnano e caratterizzano le statue degli dèi, il loro καιρός.
Tutto questo divenne per più di mille anni, dal tempo di Costantino al XV secolo, del tutto insignificante. I marmi, le statue, gli dèi disseminavano le strade e i ruderi di Roma senza che nessuno desse loro importanza. Poi gli dèi tornarono e queste pietre sono diventate in ogni senso preziose. La Chiesa romana, padrona di quei luoghi, contribuì, mediante il mecenatismo e la passione di cardinali e papi, alla loro riscoperta, sanando in questo modo un poco le distruzioni che i primi cristiani vincitori attuarono in tutto il Mediterraneo. Tra le tante Chiese ispirate al mito del Nazareno, quella papista è certamente la più culturalmente consapevole, quella più vicina all’antico spirito pagano.
Ripeto dunque quanto scrivevo alcuni anni fa:
«Il paganesimo è vivo, nascosto ma vivo. Esso pulsa nei documenti antichi, negli inni delle civiltà più diverse, nella dimensione esoterica della dottrina cattolica e in quella popolare dei suoi culti: la Grande Madre, il Dio divorato – Dioniso – che risorge ogni volta dalla propria morte, il pantheon dei santi. Il paganesimo vive nei movimenti e negli individui che hanno ancora rispetto per la Natura e in essa percepiscono la perennità del Sacro. […] Pagana è l’identità fra il Tutto e il Nulla. Pagana è l’accoglienza di tutte le religioni, di tutti gli Dèi, di tutte le fedi, quel sentimento irenico che fa dire a Proclo : ‘Voi che reggete il timone della saggezza santa / dèi che accendete il fuoco del grande Ritorno […] Che infine possa vedere io / l’uomo che sono e il dio / immortale in me» (Inno a tutti gli Dèi).
I Marmi Torlonia appaiono e sono veramente sacri, costituiscono la materia nella quale vive il dio, materia che ė il dio.

Atena Giustiniani-Carpi (II sec. e.v.)

Marcione

Il Vangelo di Marcione
A cura di Claudio Gianotto e Andrea Nicolotti
Einaudi, 2019
Pagine CXVIII-239

Gli studi sul Vangelo di Marcione, su quel poco di certo che è rimasto dalla distruzione e dispersione dei testi non accolti nel canone cristiano, mostrano sempre più un esito solo apparentemente paradossale. Questo vangelo eretico, infatti, è probabilmente una delle fonti principali di tutti e quattro i vangeli canonici; certamente lo è di quello di Luca. E infatti questa edizione einaudiana del testo è sostanzialmente il Vangelo di Luca con l’evidenziazione di ciò che in esso è sicuramente dovuto a Marcione, quello che lo è probabilmente e ciò che invece la redazione lucana ha aggiunto. Va dunque invertito un rapporto che per lungo tempo, a partire dalle accuse rivolte da Tertulliano, ha visto nel Vangelo marcionita una manipolazione e un adattamento di quello di Luca. Uno dei più importanti risultati di tali indagini è che Marcione «diede un contributo di enorme importanza al processo di formazione del canone delle Scritture cristiane» (p. IX) e che il suo euaggelion «possa rappresentare il vangelo più antico, dal quale, attraverso percorsi diversi, dipenderebbero tutti e quattro i vangeli canonizzati» (LX).
Un altro risultato, che da secoli trova conferma negli studi esegetici, è che il corpus del Nuovo Testamento si sia formato lentamente e in seguito all’apporto di teologi, testi, testimoni e sopratutto comunità molto diverse e distanti nello spazio e nel tempo. Anche per questo ogni letteralismo che fa riferimento alle Scritture contro le Chiese, compresa quella cattolica, non ha alcun senso. La verità dei testi cristiani, infatti, non sta nei testi ma nelle interpretazioni che ne danno le comunità storiche che a quei testi si ispirano.

Un esempio è l’insieme di testi ai quali Marcione dedicò una attenzione costante e particolarissima: le Lettere di Paolo delle quali fornì un’interpretazione fortemente antigiudaica nel contesto delle «modalità fluide e non controllate della circolazione delle lettere paoline agli inizi del II secolo, circolazione aperta a modifiche, rielaborazioni e integrazioni» (XXX).
Dai testi lucani non presenti in questo Vangelo e da quelli diversi e rielaborati si evince dunque che Gesù fu sostanzialmente un taumaturgo, un guaritore sistematico e potente, e un maestro di parabole. Niente di più. A segnare le maggiori differenze con la precettistica giudaica stanno il ripetuto rifiuto del sabato -«6.10 Il figlio dell’uomo è signore anche del sabato» (p. 25)- e l’invito a cogliere dentro di sé il Regno di Dio: «17.22 Ecco, infatti, il regno di Dio è dentro di voi» (141) poiché Luce e Tenebra non abitano nel mondo  materico ma nella persona, nella sua genesi, nelle sue potenzialità, nelle sue scelte, nel suo destino. Ed è probabilmente questo il nucleo gnostico più intimo del Vangelo di Marcione e dei Vangeli che da esso sono scaturiti.
Rispetto all’autoritarismo, alla rigidità e al dogmatismo della Grande Chiesa, gli gnostici elaborano una serie di dottrine e di sistemi caratterizzati da molteplicità, varietà, apertura; sistemi che non temono di attingere a fonti diverse e lontane purché indirizzate tutte al tentativo di comprendere e svelare la condizione umana.
La gnosi è infatti anche e soprattutto una antropologia temporale, che non finge bontà universali o destini da favola ma nasce della consapevolezza che da sempre gli umani «invecchiarono senza avere requie; morirono, non trovavano alcuna verità, non conoscevano il Dio della verità. Fu così che tutta la creazione divenne schiava per tutta l’eternità, dalla fondazione del mondo fino a adesso. Presero mogli e generarono figli dalle tenebre, a immagine del loro spirito; chiusero i loro cuori, e dalla insensibilità dello spirito di opposizione, divennero insensibili fino a adesso» (Apocrifo di Giovanni, 30; in Testi gnostici, a cura di Luigi Moraldi, Utet  1997, p. 161). Una antropologia assai vicina a quella del Fedro con la distinzione tra coloro che vivono nelle passioni distruttive, quanti possiedono una volontà che li può indirizzare alla liberazione come alla sottomissione ai desideri, e coloro invece che sono intrisi di luce e il cui compito è non fare spegnere la scintilla di conoscenza che sono.

In ogni caso, gli gnostici antichi si definirono tali in contrapposizione ai cristiani comuni e non nascosero mai di essere fatti -letteralmente- di un’altra pasta rispetto ai membri della Grande Chiesa. Lo gnostico, infatti, sente tutta la propria solitudine e l’estraneità rispetto non solo al mondo degli ilici -coloro che vivono immersi nella materia, di essa godono e che in essa si dissolveranno- ma anche a quello degli psichici, nature intermedie dotate di libero arbitrio e ugualmente predisposte «alla fede e alla incorruttibilità, e alla infedeltà e alla corruzione» (Excerpta ex Theodoto, 56; Testi gnostici in lingua greca e latina, a cura di Manlio Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore 1993, p. 381). Caino, Abele e Seth -tutti figli di Adamo- sono il simbolo rispettivamente degli ilici, degli psichici, degli pneumatici.
Per Marcione e per altri gnostici (non per tutti) il Dio ebraico è in realtà l’ignorante Demiurgo al quale si deve questo mondo di dolore. A Yahweh/Yaldabaoth gli gnostici oppongono «la sostanza dell’ingenerato Padre di tutte le cose», la quale «è incorruttibilità e luce autosussistente, semplice e singola» (Lettera di Tolomeo a Flora, § 7, Testi gnostici, pp. 279-281).

Autorità

Nel nome del padre
di Marco Bellocchio
Italia – Francia, 1972 / Versione ridotta dal regista (2011)
Con: Yves Beneyton (Angelo Transeunti), Renato Scarpa (Padre Corazza), Edoardo Torricella (Padre Matematicus), Laura Betti (la madre di Franc)
Trailer del film

Paura e terrore come strumenti di dominio praticati nei collegi cattolici alla fine degli anni Cinquanta. Ma ormai strumenti insufficienti di fronte alle trasformazioni del secondo dopoguerra, alla fine del pontificato di Pio XII, al venir meno del principio di autorità delle istituzioni e dei padri. Mentre viene portato in collegio, infatti, Angelo Transeunti riceve schiaffi dal proprio genitore e li restituisce con violenza. Dentro un costoso collegio/carcere spinge alla ribellione i suoi compagni folli, deboli, aggressivi. Una ribellione che però non ha l’obiettivo di rendere liberi, piuttosto nutre quello di creare un sistema di terrore ancora più efficiente rispetto a quello ormai in decadenza del clero.
Una vicenda autobiografica e violenta viene narrata da Bellocchio nelle forme espressionistiche del grottesco, dell’eccesso, del visionario, con madonne che scendono dagli altari ad abbracciare collegiali che si masturbano guardandola; con preti che vivono dentro bare; con altri che vengono sbeffeggiati da alunni ai quali nulla sanno insegnare; con recite studentesche durante le quali le bestemmie si coniugano alla paura del lupo cattivo, il mito di Don Giovanni si lega a oscene volgarità. La disincantata rassegnazione di Padre Corazza e la gelida passione ribelle di Angelo Transeunti disegnano insieme l’uovo di serpente che dalla ribellione borghese del Sessantotto è transitato a forme di dominio sempre più pervasive, intime, tecnologiche, sanitarie, totali.
Film come questi mostrano in modo plastico che cosa significhi un anelito all’emancipazione privo di ogni luce e quindi inevitabilmente destinato a sciogliersi, annullarsi, trasformarsi ancora una volta in potere.

«Perché è malvagia»

Tommaso
di Abel Ferrara
Italia, 2019
Con: Willem Dafoe (Tommaso), Cristina Chiriac (Nikki), Anna Ferrara (DiDi)
Trailer del film

Ad Abel Ferrara non manca certo il coraggio. Film forti e perturbanti come The Addiction (1994), Il cattivo tenente (1992), The Funeral (1996) lo dimostrano. Questi tre titoli compensano ampiamente le eventuali successive cadute. In Tommaso il coraggio consiste nel mettere in scena le proprie difficoltà, i fallimenti, le debolezze. E farlo in modo esplicito e poco compiaciuto.
Il Tommaso di Dafoe è infatti marito di Nikki e padre di Didi, che sono interpretate dalla moglie e dalla figlia di Ferrara. Vivono a Roma, dove Tommaso progetta un film, cerca di imparare l’italiano, continua a frequentare un gruppo di alcolisti anonimi che raccontano le loro vite e l’uscita dalla addiction del bere, diventa molto geloso della giovane moglie, sino ad alcune violente scenate di gelosia. E infine, in due delle scene/metafora del film, offre il proprio cuore a un gruppo di africani e si fa crocifiggere davanti alla stazione Termini.
Termini, l’ingresso di Roma, città che ha evidentemente ammaliato il regista newyorchese (come accadde per il cuore nero e pulsante di Napoli), che in questo film ha la capacità di offrirne un ritratto singolare, lontano sia dalla magnificenza estetica sia dal degrado incombente; radicato invece nel quotidiano movimento tra le strade, tra i negozi del quartiere, i cortili, i balconi, gli ascensori. Ed è forse la cosa più suggestiva di Tommaso.
Artisti, filosofi, teologi, sociologi, fisici, parlano sempre anche di sé, qualunque sia il grado di oggettività delle loro opere. Già la scelta di diventare regista, pittore, filosofo, astronomo, giurista, è una dichiarazione autobiografica che testimonia in modo evidente del proprio sguardo sul mondo, della teleologia che l’esistere si ritiene abbia o non abbia, della propria tonalità caratteriale. Quando poi si prende la penna, la cinepresa, il pennello, uno strumentario tecnologico, in essi e attraverso essi riverbera immediatamente il senso che si vuole dare al tempo che si è. Il valore di un’opera d’arte o d’intelletto consiste anche nell’essere intramata da questa potenza della persona e però conseguire ed esprimere elementi, esiti, concetti universali, collettivi, condivisi.
Qui Ferrara mette in comune la propria vicenda di persona e il proprio sguardo di regista cinematografico. Con un candore che è da apprezzare, con una forse raggiunta saggezza rispetto al male del mondo che si esprime chiaro e inquietante in The Bad Lieutenant, The Addiction, The Funeral.
Nel primo emerge un mondo svuotato, una ferocia senza direzione, l’oscillare tra perdizione e redenzione, altari, santini, prime comunioni, tutto immerso in un radicale pessimismo antropologico. Un film freddo e appassionato, duro e coraggioso, una vera e propria discesa nell’inferno dell’abiezione umana.
Il secondo coniuga con naturalezza vampirismo e filosofia in una metafora dal significato evidente: l’umanità corrotta moltiplica il male moltiplicando se stessa. In una delle discussioni metafisiche che intessono il film (numerose citazioni da Sartre, Heidegger, Kierkegaard, e perfino un brano musicale di Nietzsche) si afferma che «gli uomini non sono peccatori perché commettono dei peccati ma commettono peccati perché sono peccatori. L’umanità non è malvagia poiché compie il male ma compie il male perché è malvagia».
Il terzo è un’opera funebre e geometrica, intessuta anch’essa di simboli cattolici: preghiere, statue, dottrine. La vicenda e i dialoghi confermano la natura gnostica della visione di Ferrara, che condanna l’uomo e con lui il suo malvagio demiurgo.
Tali cupe verità sono in Tommaso trasformate al fuoco degli affetti, dei desideri e dei ritmi quotidiani. Non vengono certo negate – il cuore estratto dal petto e la crocifissione ce le ricordano– ma sono espresse con il disincanto sull’orrore che la vita alla fine insegna.

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