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Senza vita

«Il potente è in primo luogo il sopravvissuto, l’unico superstite di fronte alla distruzione dei suoi simili; il suo trono poggia su mucchi sterminati di cadaveri». Questo ho scritto in Contro il Sessantotto. Saggio di antropologia (p. 78). L’ho scritto in relazione alla analisi più compiuta che io conosca del potere, quella di Elias Canetti. In Massa e potere si mostra in modo persuasivo come «l’istante del sopravvivere è l’istante della potenza. […] È importante però che il sopravvissuto da solo stia di fronte a un morto o a più morti» (p. 273).
Il Monastero dei Benedettini di Catania, sede del mio Dipartimento, è oggi una plastica raffigurazione di tale dinamica. Le consorti dei capi di stato e di governo riuniti in questi giorni a Taormina -mirabile e fragile luogo violentato da tale presenza, la quale ha imposto una vera e propria reclusione/esclusione ai suoi abitanti- hanno deciso di visitare Catania, e segnatamente il Monastero. Nessun altro vi ha potuto accedere, all’infuori di queste signore e dell’imponente apparato di sicurezza. Docenti e personale tecnico-amministrativo hanno potuto farlo soltanto chiedendo un’apposita autorizzazione. La cosiddetta Zona rossa, che a Taormina impedisce a chiunque di avvicinarsi ai potenti, si è trasferita anche nel magnifico luogo dove ho la fortuna di insegnare. Anche le strade intorno, compresa quella dove abito, sono state svuotate di ogni vitalità, ricondotte al puro vuoto presidiato da esercito, vigili urbani, polizia.
Il potere democratico sta quindi molto attento a tenere lontano da sé il δῆμος, il popolo. Anche per questo sono ben contento se qualcuno mi rivolge la ormai consueta e banale accusa di essere populista. Il termine russo народничество, populismo, fu infatti all’inizio assai vicino a quello di Анархизм, anarchismo. Per il potere -democratico o altro che sia- siamo infatti tutti potenzialmente degli assassini, dei delinquenti, della gente pericolosa. In Sicilia si dice che «u lupu ri mara cuscenza chillu chi fa penza». Le città, i borghi, le strade, gli spazi dove i potenti transitano subiscono una vera e propria violenza istituzionale. Oltre che delle guerre e della fame costoro sono dunque colpevoli anche di stupro. I potenti credono che siamo tutti come loro sono: assassini, delinquenti, pericolosi.
L’aspetto del Monastero dei Benedettini di Catania, un luogo tanto splendente quanto vivace, allegro, sonoro, giovane, vissuto, è oggi semplicemente angosciante. Diventato un cimitero compunto e paludato, riempito soltanto dalle divise degli esercitiforzedellordine, vi domina il silenzio greve dell’insensatezza, la palpabile inquietudine dell’artificio, tollerabile soltanto come pausa nella vita quotidiana, che è fatta invece della fremente naturalezza delle relazioni. Legàmi e storie, di tutti e di ciascuno, vengono cancellate e sostituite dalla sicurezza astratta dell’assenza. Soltanto per un giorno, per fortuna. Ma anche un solo giorno è insopportabile.
Il Monastero, da dove sto scrivendo, è in questo momento un luogo senza vita, nel quale l’arroganza di alcuni soggetti -che il caso ha posto accanto a chi oggi comanda- ha prodotto il silenzio, il nulla, una metafora della morte. Ma così costoro si sentono importanti, assai prima che sentirsi sicuri.
«La sensazione di forza che scaturisce dal sopravvivere è fondamentalmente più forte di ogni afflizione: è la sensazione d’essere eletti fra molti che hanno un comune destino. Proprio perché si è ancora vivi, ci si sente in qualche modo i migliori» (Massa e potere, pp. 274-275). E tuttavia «Ivi eran quei che fur detti felici, / pontefici, regnanti, imperadori; / or sono ignudi, miseri e mendici. / U’ sono or le ricchezze? u’ son gli onori / e le gemme e gli scettri e le corone / e le mitre e i purpurei colori? / Miser chi speme in cosa mortal pone / (ma chi non ve la pone?), e se si trova / a la fine ingannato è ben ragione. / O ciechi, el tanto affaticar che giova? / Tutti tornate a la gran madre antica, / e ‘l vostro nome a pena si ritrova» (Petrarca, Trionfo della Morte, vv. 79-90).
Morire è la suprema giustizia del vivere. Nessuno sfugge. Nessuno. Almeno in questo il mondo è perfetto.

Callas / Dioniso

La presentazione del volume Mille e una Callas nel Foyer del Teatro Bellini di Catania è stata un’occasione di confronto e di arricchimento al di là dei confini disciplinari.
Metto qui a disposizione la registrazione audio del mio intervento, che si può anche ascoltare e scaricare da Dropbox: Biuso_Callas_13.5.2017.
La durata è di 13 minuti circa.

[audio:https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2017/05/Biuso_Callas_Catania_13.5.2017.mp3]

Dionisismo

Mercoledì 17 maggio 2017 alle 17.30 nell’Aula Magna del mio Dipartimento terrò un seminario dal titolo Tarantismo e dionisismo nelle culture mediterranee.
L’incontro fa parte del Med Photo Fest 2017.

Abstract
La continuità di alcuni archetipi nel volgere dei millenni rappresenta uno degli elementi di identità del Mediterraneo e delle sue culture. Uno di questi elementi è il fondamento pagano di molte manifestazioni collettive, feste, forme d’arte.
Proverò a mostrare gli elementi comuni alle ricerche etnologiche di Ernesto De Martino, confluite ne La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, e all’espressione musicale della Taranta Power di Eugenio Bennato.
Lo scopo sarà comprendere come il dio più mediterraneo della religione greca, Dioniso, sia ancora ben presente nella vita collettiva della contemporaneità.

Ulteriori informazioni (link al sito d’Ateneo)

locandina_biuso_tarantismo

Il Grande Altro

26 aprile 2017 –  Teatro Massimo Bellini – Catania
Ætna String Quartet
Marcello Spina / violino; Alessio Nicosia / violino; Gaetano Adorno / viola; Alessandro Longo / violoncello

Programma
Wolfgang Amadeus Mozart
Quartetto per archi in Do maggiore Kv. 157
Aleksandr Porfir’evic Borodin
Quartetto per archi in re maggiore n. 2
Antonin Dvorak
Quartetto per archi in Fa maggiore n. 12 op 96 «L’Americano»

La vitalità di un teatro -pubblico o privato che sia- si misura anche con il coraggio. Il coraggio di proporre percorsi un po’ meno ovvi, di non puntare sul sicuro ma di educare oltre che intrattenere il pubblico. Il Teatro Massimo Bellini di Catania a volte lo fa, altre no. Si ha il timore che un repertorio meno conosciuto allontani i cittadini dalla fruizione della musica. Quanto interessante sarebbe, invece, ascoltare più spesso musica della seconda metà del Novecento e del XXI secolo.
I compositori in programma per la piacevolissima serata del 26 aprile sono nomi grandi e sicuri. I brani sono stati ben eseguiti dall’Ætna String Quartet ma il repertorio non è tra i miei preferiti. Propongo quindi l’ascolto di un Mozart certamente anch’esso assai conosciuto ma sempre emozionante, quello nel quale il Grande Altro della morale ascetica si scontra con l’emblema della trasgressione e del piacere.
Don Giovanni viene stritolato dalla Statua del Grande Altro -non può essere altrimenti- e tuttavia non si è piegato alla sua miseria. E dunque ha vinto. Perché c’è stato un momento nel quale ha potuto dire a se stesso: «Sono felice». Cosa che al Grande Altro non accade mai.
«Questa è mediocrità [Mittelmäßigkeit]: sebbene venga chiamata moderazione [Mäßigkeit]» (Così parlò Zarathustra, III, ‘Della virtù che rende meschini’).

Don Giovanni a cenar teco

[audio:https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2017/04/Don_Giovanni_a_cenar_teco.mp3]

Da qual tremore insolito

[audio:https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2017/04/Don-Giovanni_Da_qual-tremore.mp3]

Don Giovanni: Ruggero Raimondi; Il Commendatore: John Macurdy; Leporello: José van Dam (Orchestra e coro dell’Opera di Parigi, diretta da Lorin Maazel)

La Statua del Commendatore
Don Giovanni, a cenar teco / M’invitasti e son venuto!
Don Giovanni
Non l’avrei giammai creduto; / Ma farò quel che potrò. / Leporello, un’ altra cena / Fa che subito si porti!
Leporello (facendo capolino di sotto alla tavola)
Ah padron! Siam tutti morti.
Don Giovanni (tirandolo fuori)
Vanne dico!
La Statua (a Leporello che è in atto di parlare)
Ferma un po’! / Non si pasce di cibo mortale / chi si pasce di cibo celeste; / Altra cure più gravi di queste, / Altra brama quaggiù mi guidò!
[…]
La Statua
Verrai?
Leporello (a Don Giovanni)
Dite di no!
Don Giovanni
Ho fermo il cuore in petto
Non ho timor verrò!
La Statua
Dammi la mano in pegno!
Don Giovanni (porgendogli la mano)
Eccola! Ohimé!
La Statua
Cos’hai?
Don Giovanni
Che gelo è questo mai?
La Statua
Pentiti, cangia vita / È l’ultimo momento!
Don Giovanni (vuol sciogliersi, ma invano)
No, no, ch’io non mi pento, / Vanne lontan da me!
La Statua
Pentiti, scellerato!
Don Giovanni
No, vecchio infatuato!
La Statua
Pentiti!
Don Giovanni
No!
La Statua
Sì!
Don Giovanni
No!

Détournement

Teatro Coppola / Teatro dei cittadini – Catania – 23 aprile 2017
HIM
c
on Marco Cavalcoli
drammaturgia di Chiara Lagani
regia di Luigi De Angelis
produzione Fanny & Alexander

Davanti a uno schermo spento sta un attore inginocchiato e dalle fattezze identiche all’Adolf Hitler di Maurizio Cattelan. Sta in attesa che dietro di lui appaiano le immagini de Il mago di Oz di Victor Fleming. Il film inizia, del tutto privo di sonoro.
È him, è lui, è Hitler a dare voce ai personaggi del mondo incantato, inquietante e onirico del mago di Oz. È him, è lui, è Hitler a riprodurre i suoni della natura, del vento, degli altri animali. È him, è lui, è Hitler ad agitare braccia e mani, guidando come un direttore d’orchestra ciò che è già scritto. Lo stesso accade a tutti gli umani che pensano di dirigere il susseguirsi degli eventi, la cui concatenazione è invece inesorabile pur se ignota: «Dobbiamo considerare gli avvenimenti con gli stessi occhi coi quali consideriamo lo stampato che leggiamo, ben sapendo che c’era prima che lo leggessimo» (Arthur Schopenhauer, La libertà del volere umano, trad. di E. Pocar, Laterza 1988, p. 107).
Il film scorre sino alla fine. Null’altro accade in scena.
Al di là della prestazione virtuosistica di Marco Cavalcoli -che doppia l’intero film in inglese in un sincrono perfetto pur senza avere davanti a sé le immagini- Him ha il significato di un vorticoso détournement debordiano, che sposta le immagini di Fleming dai terrori dell’infanzia ai terrori della storia. Ma questa operazione drammaturgico-politica ha senso soltanto perché him è Adolf Hitler.
Il Führer è andato ormai da molto tempo al di là dei limitati, per quanto intensi, dodici anni del suo cancellierato e della guerra. Diventato icona universale del male e della storia, Hitler ha vinto non attraverso quei pochi esaltati neonazisti che ne imitano i gesti in modo stanco e grottesco ma ha vinto nell’ossessione pervasiva della sua figura che si ripresenta in libri (come Er Ist Wieder Da), in film, nel ripetersi di accuse e analogie -questo e quel dittatore definiti ‘il nuovo Hitler’-, in performances come quelle della compagnia Fanny & Alexander, che ha prodotto e pensato lo spettacolo.
Abbiamo assistito alla vittoria del Führer dentro un teatro libertario. Abbiamo assistito ancora una volta al trionfo di Adolf Hitler diventato un archetipo, divenuto quindi immortale. Il détournement è più tragico di quanto Debord potesse immaginare. Forse sarebbe ora di dimenticare il fascismo, il nazionalsocialismo, lo stalinismo. Passare oltre. Forse sarebbe ora di dimenticare Hitler.

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