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Sulla Cina

Henri Cartier-Bresson
Cina 1948-49 / 1958

Museo delle Culture (Mudec) – Milano
Sino al 3 luglio 2022

In Cina nel 1948 l’esercito e il governo nazionalisti si dissolvono e l’esercito comunista occupa Pechino, le altre grandi città, le campagne. Tutto sembra crollare in pochi giorni. La moneta torna a diventare la carta che è. Le persone si accalcano davanti alle banche sperando di trasformare quella carta in oro reale. La fame riappare ma la vita quotidiana in qualche modo continua. Il passato millenario si trova di fronte alla durezza del presente e all’incertezza del futuro. Nei templi continua a vivere indistruttibile il sacro, mescolato alle superstizioni, alla fede. Il tifone che colpisce Shangai a fine luglio 1949 ricorda a tutti che il tempo non è soltanto storia umana ma è anche materia e cielo che continuano indifferenti a essere ciò che da milioni di anni sono.
Cartier-Bresson osserva e fotografa tutto questo con una grande oggettività dello sguardo unita a una profonda pietà.
Oggettività, pietà e curiosità che esercita dieci anni dopo, quando torna in Cina per documentare la nuova vita, il nuovo potere, le nuove fedi che muovono quel Paese immenso. E vede volontari che costruiscono una diga con l’ebbrezza dell’essere massa, di un progetto e di un fare che somigliano a quelli di un formicaio. Vede parate e manifestazioni celebrative con giovani che danzano, saltellano, sorridono. In ogni caso una festa, qualunque ne sia stato e ne sarà il prezzo. Vede il paesaggio sconfinato e i manufatti millenari che lo abitano, per i quali la storia umana rimane in ogni caso una piccola parte della vera storia, quella degli elementi.
Storia che per Cartier-Bresson è inseparabile dalla geometria dello sguardo, dalla capacità del suo occhio e della sua macchina fotografica di inserire i corpi viventi e i loro movimenti dentro le strutture formali che i corpi attraversano e con i quali si armonizzano. Per lui sono queste e soltanto queste le immagini che valgono, che sceglie, che vuole. Immagini nelle quali l’elemento umano, quello architettonico/spaziale e quello naturale convivono sino a diventare una cosa sola.
Tutto ciò conferma la natura ermeneutica della fotografia. L’artista lo afferma apertamente: a contare non sono i fatti ma il punto di vista che li coglie, l’interpretazione che se ne dà. Tra i due viaggi in Cina, nel 1952, scrisse infatti questo: «Per me la fotografia è il riconoscimento simultaneo, in una frazione di secondo, del significato di un evento e di una precisa organizzazione di forme che danno a quell’evento la sua giusta espressione» (Images à la sauvette, Verve).
L’imprendibilità della storia è colta tramite l’invenzione geometrica dell’istante, del tempo.
Che cosa è la Cina adesso? Che cosa è diventata la Cina rivoluzionaria e dispotica fotografata da Cartier-Bresson? Che cosa potrà diventare? Lo racconta e lo spiega bene Simone Pieranni, parlando di WeChat, l’analogo cinese di Facebook ma ancora più pervasivo, se possibile. E sembra possibile. Leggete questo breve articolo, assai istruttivo: Cos’è WeChat? (17.6.2022). Leggetelo alla luce di un’affermazione che nel testo di Pieranni non c’è e che sembra entrarci poco e invece a me sembra centrale: l’Europa che sta morendo perché diventata colonia della potenza anglosassone sarà pronta -al momento opportuno- a diventare colonia della Cina. Perché in entrambi i casi non c’è e non ci sarà più la filosofia greca a difenderne le libertà. 

 

Grecità e Induismo

Grecità e Induismo
in Chi cerca…cerca. Un profilo a tutto tondo di Augusto Cavadi
A cura di Crispino Di Girolamo e Sylwia Proniewicz
Il Pozzo di Giacobbe 2020, pp. 224
Pagine 99-107

Ho curato molto volentieri i contributi filosofici compresi nel volume che gli amici di Augusto Cavadi hanno voluto dedicargli per i suoi settanta anni. Il libro è una vivace testimonianza del prisma che la vita di Augusto è, della molteplicità e fecondità delle sue relazioni.
Uno degli ambiti di ricerca al quale mi sembra che Cavadi dedichi sempre più cura e interesse è quello che si racchiude nel termine spiritualità. Nel mio contributo ho dunque tentato un sintetico confronto tra due modi di intendere e vivere la complessità dell’esistenza – “spiritualità” vuol dire anche questo –, modi tra di loro più vicini di quanto si immagini: la sapienza greca e la sapienza induista.
Il saggio si articola in una breve introduzione e in tre paragrafi:
1 La filosofia come iniziazione
2 Filosofia e induismo
3 Gnosi greca e gnosi induista

Il testo presenta una grave lacuna: ho infatti indicato l’autore dell’inno con il quale ho chiuso il saggio come «uno degli ultimi sapienti pagani» ma ho trascurato di aggiungere il nome in nota (cosa davvero incomprensibile…). Cerco di rimediare qui: i versi sono del filosofo neoplatonico Proclo (412-485). È il suo quarto inno, dal titolo A tutti gli dèi (traduzione di Davide Susanetti):

«Ascoltatemi, dèi che governate la santa sapienza,
voi che avete acceso il fuoco dell’ascesa,
voi che elevate agli immortali le anime umane
purificate dai misteri ineffabili dei vostri inni,
lontano dai tenebrosi recessi della caduta.
Ascoltatemi, dèi della grande salvezza,
concedetemi, dai sacri libri, una pura scintilla
di luce, una scintilla che dissolva la nebbia:
un chiaro segno che un dio immortale
dall’uomo distingua. Che mai un demone
nefasto mi sommerga nei flutti dell’oblio,
spegnendo il ricordo dei beati. Che mai
un gelido castigo m’incateni quaggiù:
fredde sono le onde della nascita,
la mia anima non vuole più a lungo vagare.
Sovrani della fiammante sapienza, rivelate
i misteri, rivelate i riti delle sacre parole
a chi si affretta sul sublime cammino».

Tra i testi della filosofia induista che ho citato ne riporto qui uno -magnifico- dedicato al Tempo. È tratto dagli Atharveda (अथर्ववेद), una delle quattro parti che compongono i Veda. Il brano è il XIX, 53 (traduzione di Valentino Papesso):

«1 Il Tempo tira (il carro), cavallo dalle sette redini, milleoculo, esente da vecchiaia, ricco di molteplice seme. Questo (carro) montano i savi ispirati; le ruote di esso sono tutti gli esseri.
[…]
6 Il Tempo produce la terra, nel Tempo arde il sole; nel Tempo sono tutti gli esseri, nel Tempo l’occhio guarda da ogni parte.
7 Nel Tempo la mente, nel Tempo il respiro, nel Tempo è contenuto il nome: quando il Tempo è venuto, si rallegrano tutte queste creature».

L’immagine di apertura fu scattata da Henri Cartier-Bresson nel 1948 nel Kashmir. Non rappresenta né greci né indù ma è colma della pienezza del sacro.

Ça va?

Hemingway
di Paolo Conte
Appunti di viaggio (1982)

[audio: https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2018/11/Conte_Hemingway.mp3]

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Et alors, Monsieur Hemingway, ça va?
Era persona dura e anche per questo alla lunga le donne non lo tolleravano. Ma non molto gliene importava. E ripeteva impettito e imperterrito a se stesso «conduco le persone a un’altezza tale da far venir loro le vertigini, più non reggono e tornano là da dove le ho tratte». Superbo e sciocco come il secolo. Così si ritrovava solo, poveretto. Ma ora no, ora sentiva tutta la felicità del liberarsi, del librarsi la vita ad altri istanti, del porre una distanza irrimediabile tra sé e i lati di lei che non amava. Che da nulli, all’inizio, o solo in germe, si erano moltiplicati come i pani, cresciuti come alberi fronzuti, come bestie da preda alla riscossa. E avevano divorato il loro amore. Sempre così, sempre così funziona, non lo sai? Bisogna possedere almeno un poco di nobiltà per continuare a rispettare una persona che ti ama molto e che si prostra ai tuoi piedi, al tuo cuore. Lei così nobile non era. E più non rispettava i suoi silenzi. Non rispettava la vigile attenzione, il sorriso l’affetto il desiderio. Ora diceva a se stesso -sempre così sempre così la va-, si diceva che lei neppure era esistita, che l’aveva plasmata dal suo cuore, dal desiderio infinito dell’amore. E quando la statua l’illusione e il triste inganno s’erano dispersi come vento, nulla era rimasto tra le mani ma soltanto la nostalgia di una che mai era stata. E di lui che quel nulla aveva amato. Si ama sempre questo nulla, infine.
Et alors, Monsieur Hemingway, ça va mieux?


[Foto di Cartier-Bresson, La Lune au Bois de Boulogne, particolare]

La Sicilia impossibile

La nuova scuola di fotografia siciliana
Milano – Galleria Gruppo Credito Valtellinese
Sino al 29 gennaio 2012

Tre fotografi siciliani dell’ultima generazione esprimono in modo radicale l’impossibilità di restituire l’Isola in immagini, sineddoche dell’impossibilità di dirla, di coglierla, di esaurirla. Carmelo Bongiorno (Last Plate, 2008) adotta una tecnica sfocata, un mosso troppo esplicito e dagli esiti manieristici, pur con qualche notevole raggiungimento, soprattutto nelle grandi foto a colori, come Last plate. Il risultato complessivo è vicino all’estetica della Pop Art. Effetti opposti consegue Carmelo Nicosia, con le sue immagini scattate dal cielo, troppo gelide e rarefatte. Sandro Scalia dà forma a una natura antropizzata e dunque del tutto desolata, fatta di autostrade, cantieri, cave, serre.

A questi tre fotografi la mostra accompagna le immagini di alcuni grandi maestri tra i quali Letizia Battaglia, con una Palermo dalla miseria senza fine, con i suoi morti ammazzati degli anni Settanta e Ottanta composti al modo di Mantegna e dal taglio sempre rinascimentale o caravaggesco, come lo splendido e dolente ritratto di Rosaria Schifani. Assai meno convincenti risultano le Rielaborazioni recenti di queste opere, che mescolano la tragedia alla frivolezza. Il più importante fotografo siciliano rimane Ferdinando Scianna, un talento nel quale la lezione di Cartier-Bresson, da lui personalmente conosciuto e frequentato, diventa pura arte, immagini epiche e potenti, come in quel vortice di sorriso e di femminilità mediterranea che è Pantelleria.

(Enzo Sellerio, Morgantina, il guardiano degli scavi, 1960; Letizia Battaglia, Rosaria Schifani, 1992)

Enzo Sellerio sembra tra i maestri il più tranquillo e invece a me la sua opera risulta estrema nella sua apparente pacatezza, generatrice di un’angoscia sottile e inspiegabile, come nel barocco e straniante Morgantina, il guardiano degli scavi.
Da tutte queste immagini la Sicilia emerge come tragedia, incubo, gloria, mito, disperazione, Sole, nulla.

La Russia di Cartier-Bresson

Henri Cartier-Bresson. Russia
Genova – Palazzo Ducale
Sino al 14 febbraio 2010

Cartier-Bresson visitò l’Unione Sovietica nel 1954 e nel 1972. All’indomani della morte di Stalin e nel pieno della Guerra Fredda. Ma ciò che il suo sguardo incomparabile sa cogliere è la costante antropologica che precede di molto le rivoluzioni e che a esse sopravvive. I santi, le icone, la fede che traspira dagli sguardi sono gli stessi sia che vengano rivolti alle Madonne ortodosse sia che abbiano come oggetto Stalin e gli altri santi del partito comunista. L’entusiasmo e la dedizione di milioni di russi al regime sembrano autentici. I bambini in divisa delle scuole elementari si alternano a una borsa oggetto di desiderio delle massaie moscovite; le gigantografie di Lenin -per quanto enormi tanto da coprire interi palazzi- sembrano sparire al confronto con gli immensi spazi della Russia profonda. La sensazione è che le tradizioni culturali, religiose, simboliche siano sopravvissute anche al dogmatismo rivoluzionario e che invece si stiano dissolvendo a contatto con il liberismo, che tutto riduce a merce e moneta. L’occhio di Cartier-Bresson suggerisce forse una triste verità: gli umani si adattano meglio alla servitù del gregge che alla libertà della polis.

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