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Realismo Magico

Realismo Magico a Milano
Palazzo Reale – Milano
A cura di Gabriella Belli e Valerio Terraroli
Sino al 27 febbraio 2022

Al Palazzo Reale di Milano sono in corso varie mostre. Per entrare in quella dedicata a Monet una lunga fila che con le limitazioni attuali diventa quasi insostenibile. Per accedere invece a quella dedicata al Realismo Magico si entra subito. Meglio così per il visitatore. Anche perché gli artisti della corrente del Novecento alla quale è stata data quella denominazione si pongono su un livello formale e culturale assai alto, oltre a essere di una piacevolezza rara.
Le loro figure, infatti, si stagliano con una nettezza figurativa che avvince e che permette di entrare nel quadro come se si stesse attraversando uno spazio tridimensionale. Le tematiche e i soggetti sono molteplici: ritratti, nature morte, feste, famiglie, nudi, paesaggi, il circo, il gioco. Su tutto domina «un silenzio assordante, lo splendore serico dei colori».
Le forme sono fatte insieme di densità e di trasparenze, inseparabili. E già questo è un risultato che afferra. La forma diventa una cosa sola con la materia, un sinolo. Un’arte dunque pienamente aristotelica ma declinata in modi lontani dal realismo greco. Perché la geometria qui diventa onirica, i quadri si trasformano in architetture, gli umani sono sculture bidimensionali.
Nel Realismo Magico convergono il Quattrocento e il Bauhaus, Antonello da Messina e la Metafisica di De Chirico, il Cubismo e l’espressionismo. «Cromie di smalto, lucore fiammingo» che più di tante parole può essere visto con e dentro alcuni dei dipinti in mostra, con l’avvertenza, però, che nessuna riproduzione può restituire la luce delle opere:

Carlo Carrà, Pino sul mare

Mario Tozzi, Mattutino

Virgilio Guidi,  Il dirigibile

Antonio Donghi, Amanti alla stazione

Ubaldo Oppi, Amiche

Cagnaccio di San Pietro, Gioco di colori

Cagnaccio di San Pietro, Dopo l’orgia


Baccio Maria Bacci, Pomeriggio a Fiesole (immagine di apertura)

Quest’arte riconosce e rispetta la complessità di ciò che chiamiamo «reale», ne intravede l’enigma, ne esalta la purezza. E della realtà restituisce quella dimensione di rarefatta domanda e distante risposta, di splendente lucidità, che costituisce uno dei caratteri più propri della filosofia:
«Il velo, il buio, il falso, consistono nella riduzione dell’essere alle cose, nel far coincidere senza residui la realtà con una sua parte. E invece la luce, la verità, la realtà consistono nel gesto teoretico che vede e comprende l’intero, il Pleroma, di cui i singoli enti sono manifestazione. La verità è un processo di conoscenza capace di individuare la radice nascosta di ciò che si mostra, la struttura formale della materia» (Tempo e materia. Una metafisica, p. 10).

Natura morta metafisica

Carlo Carrà
Milano – Palazzo Reale
A cura di Maria Cristina Bandera
Sino al 3 febbraio 2019

Si viene accolti da Strada di casa (1900), un piccolo magnifico dipinto in movimento. Tutta in moto è infatti l’arte di Carlo Carrà, che fu tra i più convinti sostenitori del Futurismo, come testimoniano molte opere e la gigantografia che lo vede ritratto a Parigi nel 1912 insieme a Marinetti, Russolo, Boccioni, Severini. Il movimento del chiaro di luna (1910) è uno dei quadri più riusciti del periodo, fatto di strutture verticali che si addensano nello spazio con la forza del colore. Il particolare utilizzo del colore è uno degli elementi costanti dell’opera di Carrà, con la sua intensa presenza al confine tra naturalismo e immaginazione.
Un colore che crea città, umani, mare, case, cieli. Ai luoghi l’artista dedica un’attenzione profonda, creando una pittura urbana e insieme corporea, marina, vegetale. Luoghi naturali e luoghi costruiti. È ben presente la lezione di Cézanne, con  le case e i tetti immersi nella vegetazione. Ogni forma è scandita, si staglia, parla. Davvero «gli elementi architettonici subordinano a sé tutti i valori figurativi di forma e colore», come Carrà con chiarezza disse.
Ai miei occhi l’apice di questo artista è il periodo metafisico. La metafisica di Carrà è un cubismo raffinato, pulito, luminoso. Natura morta metafisica (1919, qui sopra) immerge nella materia come ombra e come luce dentro le quali abita il corpomente umano, circondato e intriso di oggetti perfetti, che sono una cosa sola con i colori, le forme, la vibrante geometria, il divenire.
Poi Carrà cercò e percorse una strada tutta sua, intessuta di corpi dentro l’aria, palpitanti nello spazio, intramati con i luoghi, con la luce. È quanto testimoniano le opere sue forse più celebri: Il pino sul mare (1921, qui accanto), Dopo il tramonto (il faro) (1927), Cavallo sulla spiaggia (1952), le cui costanti sono l’inoltrepassabile solitudine e la potente malinconia che emergono anche nei versi di Ungaretti, del quale Carrà fu amico.
Come questi: «Balaustrata di brezza / per appoggiare stasera / la mia malinconia» (Stasera [1916] da «L’Allegria», in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori 1977, p. 31).
O questi altri: «Cercata in me ti ho a lungo / Non ti trovavo mai, / Poi universo e vivere / In te mi si svelarono. // Quel giorno fui felice, / Ma il giubilo del cuore / Trepido mi avvertiva / Che non ne ero mai sazio. // Fu uno smarrirmi breve, / Già dita tue di sonno, / Apice di pietà, / Mi accarezzano gli occhi. // Davi allora sollecita / Quella quiete infinita / Che dopo amare assale / Chi ne godé la furia» (Soliloquio I [1969], da «Nuove», ivi, p. 322).

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