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Maestri / Verità

The Master
di Paul Thomas Anderson
Con: Joaquin Phoenix (Freddy Quell), Philip Seymour Hoffman (Lancaster Dodd), Amy Adams (Peggy Dodd), Ambry Childers (Elizabeth Dodd), Rami Malek (Clark), Laura Dern (Helen Sullivan)
USA, 2012
Trailer del film

Un reduce dalla guerra nel Pacifico. Sbandato. Alcolizzato. Solo.
Un intellettuale carismatico e narcisista, fondatore della Causa, promettitore di salvezza, guarigione, senso.
Tanto evidentemente folle il primo quanto ambiguamente folle il secondo.
Ma nessuno dei due caratteri diventa in questo film una caricatura. Non si sa sino a che punto arrivi lo squilibrio del primo, non si sa sino a che punto sia sincero o truffaldino nei suoi insegnamenti  il secondo.
Si incontrano in nome del caso, della necessità, della solitudine, di un’esigenza di riscatto. Esigenza che tutti noi mortali avvertiamo. E che ci fa intravedere il nuovo là dove si dà l’uguale. Ci fa nutrire fiducia là dove pulsa l’inganno. Ci apre alla felicità di un successo, di un amore, di un apprendimento, là dove siamo noi invece a creare questo mondo di attese. Perché tutti sentiamo di essere caduti in un gorgo e di avere bisogno di redenzione. È anche su questa struttura antropologica che nascono i sentimenti e si fondano il potere politico e le organizzazioni religiose, da scientology alla chiesa papista, dai maghi di quartiere ai dittatori totalitari o democratici.
Un film che non va letto né in chiave psicologica né in quella storica ma nella prospettiva di un’antropologia disincantata e antiroussoviana, che non crede nella possibilità di riscatto e di “bontà” degli esseri umani, impossibilità che emergeva anche nell’epico Il petroliere. E che spiega perché milioni di persone acclamino dei soggetti cinici, cialtroni o feroci, che si presentano tuttavia come portatori di salvezza. Li acclamano, li seguono, li amano perché trovano nelle parole di costoro, nei loro gesti, nei loro volti quel significato al quale tutti tendiamo come il pane. «Se riuscirai a vivere senza un maestro, un qualsiasi maestro, vieni a raccontarmelo. Saresti il primo tra gli esseri umani» dice Lancaster rivolgendosi a Freddy.
Un film che narra anche attraverso la luce e le ombre, mediante una strepitosa fotografia caravaggesca che sia nei primissimi piani sia nei potenti campi lunghi trasmette l’inesorabile dolore della speranza.
La recitazione di Hoffman è come sempre eccellente, quella di Phoenix è semplicemente spaventosa nella sua perfezione. La nave dove i due si incontrano si chiama Alithia, in greco “verità”. A chi proclamava di essere venuto «per rendere testimonianza alla verità», il saggio Pilato chiese «Che cos’è verità?» (Gv., 18, 38).

Il trucco

Squallido trucco, quello che un giornalista che è stato ed è tra i peggiori figuri della corte craxiana prima e berlusconiana ora va spargendo nella convinzione che la gente sia idiota e beva la tesi secondo la quale al suo padrone verrebbero imputate colpe morali, “peccati”. Qui -conviene ribadire l’ovvio- la morale non c’entra nulla; a chiedere a s.b. di andarsene non sono dei sessuofobici ma tutto al contrario sono uomini e donne per i quali il sesso è così bello da preferire scambiarselo invece che comprarlo. La questione è completamente diversa e consiste in tre punti:
– l’immensa disponibilità finanziaria del capo del governo, che gli consente un’azione sistematica di corruzione dei singoli, della stampa, delle istituzioni;
– il controllo quasi totale delle televisioni, con l’annesso e antidemocratico conflitto di interessi;
– il carisma che il personaggio possiede e che affascina milioni di persone.
Si tratta di tre condizioni chiaramente pericolosissime per l’equilibrio dei poteri che è la vera sostanza di un regime democratico, il quale consiste esattamente in tale equilibrio/separazione e non in una delega senza condizioni a chi, come Berlusconi, è stato eletto tramite una legge-truffa col 35% dei consensi degli italiani e che per questo pretende di porsi al di sopra di ogni norma, diritto, decenza. L’indecenza non sta “nelle mutande” ma nel potere carismatico in mano a un ricchissimo padrone dei media ormai psichicamente fuori controllo.
(Il giornalista che organizza raduni contro inesistenti “puritani” e a favore delle orge con minorenni si dichiara anche un devoto della Chiesa cattolica. Chissà che cosa ne pensano i cattolici).

Il lavoro intellettuale come professione

(Wissenschaft als Beruf – Politik als Beruf, 1918)
di Max Weber
Traduzione di Antonio Giolitti
Einaudi, Torino 1994
Pagine XLII-121

In due conferenze tenute nel 1918 all’Università di Monaco, Max Weber raccoglie il senso delle sue riflessioni e della sua dottrina. Affrontando il problema della scienza e della politica come Beruf, vocazione e professione, Weber enuncia alcuni dei temi chiave del suo pensiero: le modalità attraverso le quali si seleziona una classe dirigente; lo Stato quale organismo che «esige per sé (con successo) il monopolio della forza fisica legittima» (pag. 48); i tre tipi di potere e le loro caratteristiche: tradizione, carisma, norma; etica della convinzione ed etica della responsabilità; scienza contemporanea e specializzazione; razionalità e disincantamento del mondo.

Chi senta di possedere il dono (Gabe) della scienza e voglia coltivarlo con serietà e fecondità deve prima di tutto distinguere fra le proprie personali opinioni e le acquisizioni scientifiche che raggiunge e anteporre sempre le seconde alle prime. Quando poi lo studioso sia anche un insegnante, è suo specifico dovere non utilizzare l’inevitabile prestigio rispetto agli allievi per farsi propagandista di un’idea dalla cattedra, poiché«tra le pareti dell’aula d’insegnamento una sola virtù ha valore: la semplice probità intellettuale» (42). Pur nella lucida consapevolezza che «nessuna scienza è assolutamente priva di presupposti» (39), lo studioso deve mirare alla verità raggiungibile nel suo tempo e rispetto all’oggetto di indagine. Ciò diventa possibile solo tramite il duro lavoro che non da ispirazioni improvvise si aspetta chissà quali rivelazioni ma dalla costanza dell’impegno quotidiano. Un tale rigore consente poi a chi insegna di esporre tutti quei fatti “imbarazzanti” dai quali scaturiscono le domande e quindi il sapere.

Una simile etica della ricerca consente a Weber di osservare la realtà storica e politica senza pregiudizi e di poter formulare quindi delle valutazioni spregiudicate e a volte persino profetiche. Fra queste ultime sono di particolare rilievo quelle dedicate alle conseguenze di una pace punitiva verso la Germania (previsioni analoghe a quelle di Lloyd George e Keynes) e alla dinamica della Rivoluzione sovietica. Lo sferzante giudizio sull’Ottobre come «un carnevale che si ammanta del nome altisonante di ‘rivoluzione’» (101) è giustificato in primo luogo dalla constatazione che i bolscevichi vanno restaurando gran parte delle istituzioni borghesi contro cui sono insorti, al semplice e vitale scopo di far funzionare lo stato e l’economia, e poi dalla acuta conoscenza della dinamica di tutte le rivoluzioni.

Il realismo di Weber consiste in due principali elementi: la consapevolezza che in politica il mezzo decisivo è la forza e la conseguente, netta, distinzione fra politica e religione. Weber descrive in maniera accurata i meccanismi del potere in luoghi diversi e in differenti epoche, dallo spoil system statunitense alle clientele dei partiti europei con le loro distribuzioni di impieghi e prebende. Se l’esercizio del potere è un fine in se stesso, «per godere del senso di prestigio che ne deriva» (49), «non si dà aberrazione dell’attività politica più deleteria dello sfoggio pacchiano del potere e del vanaglorioso compiacersi nel sentimento della potenza, o, in generale, di ogni culto del potere semplicemente come tale» (103). Si direbbe che Weber abbia previsto quali forme di degenerazione dell’attività politica si sarebbero presentate in Italia nei nostri anni. In quanto attività esclusivamente mondana, la politica necessita della violenza e del compromesso. Chi dunque «anela alla salute della propria anima e alla salvezza di quella altrui, non le cerca attraverso la politica» (117).

Da questi presupposti realistici scaturisce quello che è stato definito il cesarismo quale unico antidoto alle degenerazioni della società di massa. In realtà Weber ritiene che le forme della democrazia contemporanea siano già di per sé «una dittatura fondata sullo sfruttamento della natura sentimentale delle masse» (89). In tale condizione una democrazia senza capi carismatici si consegna al dominio dei politici di professione, privi di progetti e di capacità che non siano quelli del mero utilizzo personale del potere. La fiducia weberiana verso il carisma è certo eccessiva e ambigua, ciò non toglie che la descrizione delle democrazie di massa come regimi partitocratici in mano a notabili rimanga esatta.

Il più intimo pensiero di Weber emerge nelle righe conclusive di queste conferenze, laddove lo studioso sostiene -con un’energia che maschera l’amarezza di fondo- come abbia vocazione per la politica solo chi di fronte alla volgarità e stupidità degli uomini non si ritiri disgustato, voglia ancora offrire un progetto e un itinerario e dica a se stesso: «Non importa, continuiamo!» (121). In tale affermazione convergono il rigore etico, il realismo antropologico, l’ottimismo della volontà che ispirano dalla prima all’ultima frase questo testo. Che Weber si sia alla fine ritirato dall’attività politica dopo una fase di intenso impegno non rappresenta un suo privato fallimento ma la conferma dell’impossibilità di fatto -da parte di chi indaga criticamente sulla realtà- di accostarsi all’insipienza delle masse. Lo stesso fallimento di Platone.

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