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Luce altera e vermiglia

Utrecht, Caravaggio und Europa
München –  Alte Pinakothek

Il nome di Caravaggio è come il nettare per le api. Basta pronunciarlo e si viene attirati dall’ombra che si apre in una luce abbagliante, intima, altra e diversa rispetto a ogni visibile splendore dello spazio. In questa mostra le opere romane di Caravaggio si alternano a quelle di molti suoi emulatori, operanti in particolare a Utrecht, in Olanda. Poche sale ma molto ben allestite e scandite in sezioni intitolate Helden (eroi), Heilige (santi), Christus (vari episodi della sua vita), Sünder (peccatori). Ogni sezione è suddivisa a sua volta in piccole sottosezioni. Due di queste -nell’ambito dei ‘peccatori’– si intitolano Fröhliche Gesellschaften, allegre compagnie, e Konzerte und Musikanten, a conferma della natura gaudiosa della città che ospita la mostra.
Di Merisi sono esposte La buona fortuna (1595), La meditazione di San Girolamo (1605) e la Medusa del 1597; quest’ultima è l’urlo, la brutalità sconfitta dalla luce del sapere, dallo sguardo di Atena.
Per il resto della mostra, la potenza dell’artista si riverbera nella schiera innumerevole dei suoi imitatori e continuatori, qui rappresentati tra gli altri dagli olandesi Hendrick ter Brugghen, Gerard van Honthorst e Dirck van Baburen, dagli italiani Bartolomeo Manfredi e Orazio Gentileschi, dallo spagnolo Jusepe de Ribera (lo Spagnoletto), dai francesi Valentin de Boulogne e Simon Vouet.
Delle circa settanta opere esposte, sono magnetici due dipinti dal soggetto assai diverso: la Giuditta con la testa di Oloferne di Vouet (1629, qui a destra), un’elegantissima assassina; il Konzert di von Honthorst (1623; qui sotto) che fa invece sentire la gioia della musica, del crearla, dell’eseguirla. La violenza insieme all’arte, il chiaroscuro della vita.
E infine e dappertutto Roma, cuore e spazio dell’arte europea nel Seicento, inondata dalla luce altera e vermiglia di Caravaggio, della sua ribellione, dell’inquietudine, dell’altrove. 

Presentazione audio della mostra, di Christian Gampert (in tedesco, con parte del testo)

Orfeo animale

Il meraviglioso mondo della natura.
Una favola tra arte, mito e scienza

Milano –  Palazzo Reale
A cura di Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa –  scenografie di Margherita Palli
Sino al 14 luglio 2019

La Sala delle Cariatidi del Palazzo Reale di Milano è uno spazio suggestivo e assai versatile. Qui è stata allestita una mostra inusuale, all’incrocio tra pittura del Rinascimento e scienze naturali. Camminando tra dipinti, spazi e animali che una volta furon vivi, si ascoltano versi e linguaggi delle creature non umane. La prima sala ha un titolo che probabilmente non tutti coglieranno nel suo anche ironico significato, un suggestivo «gatto vivo e gatto morto» che ricorda certamente l’esperimento mentale del fisico quantistico Erwin Schrödinger ma che -più semplicemente- presenta la pagina aperta di un codice gotico, l’Historia plantarum, dove è disegnato un gatto intento a consumare una fetta di formaggio, gatto che probabilmente è stato dipinto osservando il cadavere di un felino; in una vetrina accanto si può invece osservare un disegno di Leonardo con un altro gatto ben vivo, colto in una delle intricate posture che questi animali sanno assumere.

Nella stanza successiva splendono le Pesche di Giovanni Ambrogio Figino, perfette nella loro superficie vellutata e luminosa, pronte da afferrare. E tuttavia un dipinto così riuscito impallidisce quando viene posto accanto alla Canestra di frutta di Caravaggio, un quadro che ogni volta che lo si guarda suscita uno stupore rinnovato. Figino fotografa la frutta, Caravaggio ne coglie l’ εἶδος platonico.
Su uno schermo scorrono i numerosi animali raffigurati nei dipinti tra Quattro e Seicento: cani, giraffe, rinoceronti, scimmie, ghepardi, pinguini africani, volatili dì ogni tipo, tutti copiati e ricopiati da un artista all’altro, a partire da modelli tardogotici.
Si arriva quindi alla Sala principale, dentro la quale sono state erette le 23 tele del seicentesco Ciclo di Orfeo, che adornavano alle sue origini un palazzo nei pressi di via Montenapoleone. Il cantore sta al centro dello spazio e intorno a lui, sulle quattro grandi pareti, si dispongono più di duecento specie di animali affascinati dalla musica, dalla parola, dal canto. Le tele vengono illuminate in modo ogni volta diverso, simulando il sorgere e il tramontare del sole nella stanza. Qui Orfeo sta al centro di un paradiso non umano, al centro dunque di un vero paradiso.
Poi, assai più malinconico, si apre uno spazio-cimitero che ospita 165 corpi di animali tassidermizzati, quasi tutti provenienti dal Museo di Storia Naturale e dall’Acquario civico di Milano. Per quanto morte, queste creature trasmettono tuttavia, la potenza dei corpi, la pura, famelica, armoniosa energia dell’animalità.
Questa mostra conferma dunque che quanto definiamo cultura  appare, certo, come ciò che caratterizza la nostra specie rispetto ad altre ma è anch’essa il prodotto più recente della storia genetica dell’umanità. All’ingenuo antropocentrismo dominante nelle scienze sociali e umane bisogna opporre il dato di fatto materialistico che «la nostra specie e il suo modo di pensare sono un prodotto, e non il fine, dell’evoluzione»1.
L’universo non è stato certo pensato a misura di una specie abitante su un piccolo pianeta alla periferia della Via Lattea. Piuttosto che crederci padroni della Terra, converrebbe mostrarci rispettosi della miriade di forme di vita con le quali conviviamo e da cui dipende la nostra sopravvivenza. Un rispetto che è ben presente nell’atteggiamento (riferito da Abi Warburg) degli indiani Pueblos verso gli altri animali: «Guarda l’antilope, che è velocità pura e corre tanto più veloce dell’uomo; oppure l’orso, che è tutto forza. Gli uomini sanno solo fare in parte ciò che l’animale è, interamente’»2.

Note
1. E.O. Wilson, L’armonia meravigliosa (Consilience, 1998), Mondadori 1999, p. 35.
2. Cit. da E. Viveiros De Castro, in Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale (Métaphisiques cannibale. Lignes d’antropologie post-structurale, 2009), ombre corte 2017, p. 225.

Caravaggio a Palermo

Una storia senza nome
di Roberto Andò
Italia-Francia, 2018
Con: Micaela Ramazzotti (Valeria Tramonti), Renato Carpentieri (Alberto Rak), Laura Morante (Amalia Roberti), Alessandro Gassmann (Alessandro Pes), Gaetano Bruno (Diego Spatafora), Antonio Catania (Vitelli), Marco Foschi (Riccardo), Silvia Calderoni (Agata), Renato Scarpa (Onofri – Ministro della Cultura)
Trailer del film

Da una chiesa di Palermo venne sottratta una tela di Caravaggio, la Natività. Era l’ottobre del 1969 e il dipinto non è stato più ritrovato. Su questo evento, sulle molte ipotesi, sulle ragioni e sulle conseguenze, Roberto Andò costruisce un film ibrido, un’opera che intende essere uno specimen del cinema.
Una storia senza nome è infatti un thriller, è un film politico, è una storia d’amore, è un film di mafia, è una metafora della relazione tra vita e scrittura, è una commedia, è una vicenda familiare, è un film nel film, è un’affettuosa presa in giro di se stesso e con sé del cinema, della fantasia umana, dell’immaginazione. La trama è inverosimile e le forzature sono evidenti, sembrerebbe persino volute. Gli attori -primi tra i quali Ramazzotti e Carpentieri- si divertono. Il risultato è un film piacevole e godibile, una favola cangiante di colori, come la Sicilia.

Qualunque sia stato il destino dell’opera di Caravaggio, esso conferma in che cosa consista la mafia, il suo male. Non la violenza, non la ferocia, non l’avidità -caratteri umani pervasivi, diffusi, probabilmente ineliminabili, anche se in Cosa Nostra diventati patologici- ma il fatto che sia composta da una accozzaglia di ilici, di ignoranti che rimangono tali sia quando sono analfabeti sia quando conseguono lauree -soprattutto in giurisprudenza e management-, si riempiono la casa di libri (capita anche questo, con Marcello Dell’Utri, ad esempio, che ne ha anche rubati dalla Biblioteca dei Girolamini di Napoli) o divengano professori universitari, giornalisti, funzionari dello stato. Rimangono entità ontologicamente incapaci di comprendere la bellezza, di saperla, di viverla, di esserla. Chiusi nella loro angusta psiche di rozzezza, non possono vedere l’arte, perché la visione non è soltanto percezione, la visione è proiezione nel mondo di ciò che si è. E i mafiosi sono intrisi di inestirpabile laidezza.

L’ombra

Dentro Caravaggio
Milano – Palazzo Reale
A cura di Rossella Vodret
Sino al 28 gennaio 2018

In 22 dipinti splende la parabola di Michelangelo Merisi, detto Caravaggio. Le grinze della carne di San Girolamo penitente sono la densità dei corpi, delle loro sofferenze, bisogni, mancanze, desideri. Nel San Francesco in meditazione nulla di mistico o agiografico ma molto di terreno e malinconico; il volto del santo è secondo molti studiosi un autoritratto dell’artista.

La Madonna di Loreto / Madonna dei pellegrini è il ritratto di una bellissima prostituta che tiene in braccio il suo bambino, fiero. Ai suoi piedi l’umanità adora la bellezza. Questa donna è il Sacro, un dipinto straordinario. Nel Martirio di Sant’Orsola, una delle ultime opere prima della morte, personaggi e oggetti emergono dall’oscurità, vibrano per un poco, sono pronti a tornare nel buio. Vi ritornano. Come ogni cosa, come sempre.
Le grinze, il volto, la prostituta sacra, la carne, la violenza, la forza, la ferocia, il chiarore della pietà.


L’analisi delle tecniche compositive -anche tramite radiografie e riflettografie-, delle varianti, delle incisioni, cancellature e sovrapposizioni è in questa mostra molto accurata e permette di penetrare davvero dentro Caravaggio. Ma alla fine di tutto questo lavoro e di tante indagini, a espandere la sua gloria nello spazio è l’opera, la sua malia, il suo unicum, la sua claritas.
Da dove viene questa luce? Viene dalla sapienza delle mani febbrili nel lavorare e dipingere per poi «darsi al bel tempo», come si diceva allora; viene da un carattere inquieto, votato allo svelamento e al possesso totale della vita; viene dalla dismisura di un uomo violento, permaloso, passionale, facile al pugnale; viene dalla forma, cercata negli anfratti più scuri dell’essere, quelli in cui si conserva l’eco della sapienza primordiale, del non dicibile ma raffigurabile; viene dall’ombra, perché anche quest’ombra è la filosofia.
«Ich liebe die Menschen, weil sie Lichtjünger sind, und freue mich des Leuchtens, das in ihrem Auge ist, wenn sie erkennen und entdecken, die unermüdlichen Erkenner und Entdecker. Jener Schatten, welchen alle Dinge zeigen, wenn der Sonnenschein der Erkenntniss auf sie fällt, — jener Schatten bin ich auch».
[Amo gli umani, perché seguaci della Luce, e sono felice della claritas che sta nel loro occhio, quando conoscono e quando scoprono, instancabili conoscitori e scopritori quali sono. Quell’ombra che tutte le cose mostrano quando il sole della conoscenza cade su di esse – anche quell’ombra sono io]
Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches II – Der Wanderer und sein Schatten (Umano, troppo umano II – Il viandante e la sua ombra; Introduzione).

Disarmonie cristologiche

Miss Sloane
di John Madden
USA, 2016
Con: Jessica Chastain (Elizabeth Sloane), Alison Pill (Jane Molloy), Mark Strong (Rodolfo Schmidt), Gugu Mbatha-Raw (Esme Manucharian), Jake Lacy (Forde), Sam Waterston (George Dupont), Michael Stuhlbarg (Pat Connors), John Lithgow (Ron M. Sperling)
Trailer del film

Può Hollywood produrre un film che mette in discussione alcuni dei fondamenti su cui si basa l’esistenza di Hollywood? No, naturalmente non può. E allora anche nei film più critici verso il sistema statunitense è sempre presente la capacità di quel sistema di correggersi e di punire coloro che ‘sbagliano’.
Nonostante tali limiti inevitabili, la vicenda e la figura di Miss Elizabeth Sloane mostrano una profondità involontaria che va molto oltre il contesto sociale e finanziario della trama.
Sloane è infatti una lobbista, forse la migliore in circolazione. Il suo mestiere consiste nel convincere deputati e senatori a sostenere una proposta di legge o a respingerla. Gli interessi finanziari sono naturalmente enormi. E così la nostra professionista è capace, ad esempio, di spacciare per garanzia del futuro dell’Indonesia una legge che in realtà distrugge l’ambiente e l’economia indonesiane, a vantaggio delle multinazionali statunitensi.
Quando però a chiedere i suoi servigi sono i produttori di armi, che vogliono affossare una proposta tesa e regolamentarne l’acquisto -come è noto, negli USA sostanzialmente a portata di chiunque senza neppure dover mostrare un documento di identità- Miss Sloane si rifiuta e addirittura passa dalla parte dei sostenitori della limitazione del Secondo emendamento, quello che appunto ritiene diritto inalienabile di ogni cittadino USA detenere le armi che più gli aggradano.
La lotta sembra, ed è, impari ma Elizabeth Sloane possiede gli strumenti interiori e una determinazione comportamentale che vanno molto al di là dei suoi personali limiti, della sua solitudine, del suo bisogno di farmaci, della sua incapacità di dormire. «Mi hanno assunta per vincere e userò qualsiasi risorsa a disposizione», dove il ‘qualsiasi’ è da riferire alle persone, da intendere nel senso che è pronta a farne qualsiasi cosa. E questo vale anche quando la persona è lei stessa.
Il metodo e insieme l’ossessione di questa donna è la sorpresa, è l’invenzione di qualcosa che i suoi avversari come anche i suoi alleati non possono nemmeno immaginare e che condurrà a un efficace colpo di scena, sapientemente costruito sin nei minimi particolari.
Ma ciò che conta qui non è il plot, la vicenda tante volte trattata della corruzione che pervade le istituzioni, la società, l’economia degli Stati Uniti d’America. Ciò che conta non è la natura infame di quella società ma la metafora cristologica di un personaggio che assume su di sé le colpe del mondo e lo conduce a redenzione. Questa è la vera sorpresa del film, incarnata assai bene da una Jessica Chastain tanto fredda quanto lacerata. La scena nella quale -in completa solitudine- lancia un urlo e spazza ogni documento dalla scrivania è l’analogo di «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia volontà, ma la tua» (Lc., 22,42). Non a caso in una scena viene citato un altro brano del Vangelo di Luca. Così come una delle più strane e struggenti telefonate intercorse tra Sloane e il personaggio che si rivelerà decisivo per l’intera vicenda è la trasposizione del «quello che devi fare fallo al più presto» che Gesù rivolge a Giuda Iscariota (Gv., 13,27).
Cristologia disarmonica perché ciò che caratterizza tutti e ciascuno dei personaggi del film -emblema di un’intera società- è l’eccesso delle vite, l’assillo calvinista del successo, il tormento del riconoscimento spettacolare al quale si riduce ogni desiderio, principio, esistenza, volontà.

Artemisia, la carne

Artemisia Gentileschi. Storia di una passione
Palazzo Reale – Milano
Sino al 29 gennaio 2012

Muse e ninfe maliziose e seducenti; monache orgogliose e temibili; dame altere e potenti; antiche regine -Cleopatra- e peccatrici -Maddalena-; allegorie della pittura, della musica, della pace, della retorica, della fama; Betsabee al bagno; guerriere bibliche, tra le quali domina Giuditta che con meticolosa calma trancia la testa a Oloferne, alla quale si aggiungono Giaele che conficca con un martello un chiodo nella tempia di Sisara e Dalila che toglie ogni forza a Sansone. La più straordinaria tra queste donne è forse una samaritana dalla posa e dallo sguardo assolutamente scettici che discute con un Gesù chiaramente in difficoltà. Ma sono tutti i maschi a subire inganno e vendetta nei dipinti di Artemisia Gentileschi.
Che cosa rovina questi uomini? L’eros? L’intelligenza? La menzogna? Certamente la corporeità, che dalle opere di Artemisia tracima col suo splendore e con la sua potenza. L’Allegoria della pittura è una coscia femminile che riempie il quadro e che si allarga a un corpo adagiato, lucido, sognante.
L’allestimento di Emma Dante regala ulteriore fascino a questa “pittora” ammirata nelle corti di tutta Italia e che a Napoli trovò forse il luogo più congeniale alla sua passione, oltre che la morte. Tra fulgenti lapislazzuli, fiotti di sangue e caravaggesche lame di luce, è la carne che trionfa in Artemisia.

Mente & Cervello 55 – Luglio 2009

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La decostruzione schopenahueriana e nietzscheana dell’etica dimostra che se per azioni morali si intendono azioni compiute solo per altruismo, allora non esistono azioni morali. Constatazione che ci apparirebbe ovvia se non fossimo permeati di richieste impossibili e innaturali come quelle di alcuni precetti cristiani. Un articolo di D.Ovadia dedicato al “piacere di donare” offre la conferma sperimentale (se ce ne fosse bisogno) di tale banalità: «È evidente che chi dona trae un certo beneficio dal proprio gesto» (pag. 36), non foss’altro la gratificazione per averlo compiuto.

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