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Il banchiere anarchico

di Fernando Pessoa
Teatro Arsenale – Milano
traduzione, adattamento e regia di Marina Spreafico
con Mario Ficarazzo (il Banchiere), Mattia Maffezzoli (il Giornalista), Vanessa Korn (l’Anarchia)
Sino al 14 marzo 2010

Al giornalista stupefatto il banchiere spiega che non soltanto “è stato” anarchico in gioventù ma che lo “è” ancora, nonostante la ricchezza accumulata, il potere, il monopolio sulla finanza. E lo è assai più dei suoi vecchi compagni di militanza, i quali sperano di distruggere il Capitale eliminando uno, due, tre, decine di capitalisti. Invece è il Capitale che va direttamente attaccato. La sua scomparsa farà svanire i capitalisti, per quanto numerosi essi siano. E qual è il modo più efficace per sottomettere e annullare il potere del danaro? Averne quanto più possibile, non dipendere più da esso, cancellare la sua autonomia, porsi al di sopra del bisogno e quindi della servitù. Mentre gli altri sono anarchici soltanto in teoria, il banchiere lo è in teoria e in pratica: «Ho liberato almeno un uomo. Me stesso. Ho fatto tutto ciò che ho potuto».

Paradossale solo in apparenza, questo testo di Pessoa è certo più vicino all’anarchismo dell’Unico e la sua proprietà di Stirner che a quello di Stato e anarchia di Bakunin. In ogni caso, la demistificazione del potere lo attraversa in un modo peculiare, che si pone al di là di formule quali “Rivoluzione” e “Reazione”. Marina Spreafico ha adattato il testo e ne ha tratto uno spettacolo mai immobile, nel quale il dinamismo dei corpi accompagna quello delle parole, a ricordare come la libertà non sia mai una concessione o un dono ma sempre un faticoso raggiungimento.

Capitalism: A Love Story

di Michael Moore
USA, 2009
Trailer del film

Inizia con lo spezzone di un vecchio documentario dedicato alle ragioni della caduta dell’Impero Romano, dal quale risulta evidente l’analogia con la situazione dell’Impero americano. Il secondo inizio è costituito da una serie di brevi filmati di rapine in banca, riprese da telecamere di sorveglianza. Finisce con il regista che circonda l’edificio della Borsa a Wall Street con uno di quegli adesivi arancioni coi quali la polizia delimita la “scena del crimine”. E infatti ciò che Moore racconta è una rapina senza confronti, senza precedenti, senza misura, perpetrata dall’1% dei cittadini statunitensi contro tutti gli altri e verso l’intero pianeta. Mutui subprime, derivati e altre invenzioni della finanza criminale -ma del tutto legalizzata- vengono spiegati con chiarezza e senza un briciolo di noia; spiegati soprattutto nei loro effetti: famiglie intere private della loro casa e costrette a vivere in automobile; migliaia di operai lasciati senza lavoro da un giorno all’altro; “contadini morti” e cioè cifre assicurative milionarie intascate dalle aziende per la scomparsa dei loro impiegati, senza che le famiglie lo sappiano e mentre subiscono lutto e danno. In questo modo, un impiegato è molto più redditizio da defunto che da vivente. E poi gli intrecci strettissimi tra il Ministero del Tesoro USA e la Goldman Sachs e le altre banche, vere padrone e vero flagello dell’economia statunitense e mondiale.

Tutto narrato con la consueta vivacità e ironia intessute alla tragedia. Da riso aperto le scene tratte dal Gesù di Zeffirelli, doppiate in modo da garantire beatitudine non ai poveri ma al capitalismo, visto che questo sistema viene presentato come del tutto conforme alla fede cristiana, nonostante alcuni preti e vescovi qui intervistati neghino la compatibilità tra il principio capitalista del profitto e l’etica cristiana del dono. Pur con delle lodi a volte eccessive a F.D.Roosevelt e a Obama, il film è imperniato sul conflitto tra capitalismo e democrazia e si conclude con l’affermazione che «il capitalismo è il male, e il male non si riforma: si abbatte». Più di questo non si può chiedere a un regista statunitense. Dopo il muro dell’89 andrebbe infatti abbattuto l’altro muro, assai più radicato e potente, quello che sta nel nome stesso di Wall Street. Il miglior film di Moore.

Il pacco capitalistico

Oh bella, anche Ezio Mauro ammette che Grillo ha ragione. Non lo nomina, naturalmente, e le sue analisi utilizzano un linguaggio raffinatissimo, tecnico, alto. Quello di Grillo è plebeo, diretto e volgare la sua parte ma la sostanza è la stessa, benché -ovviamente- più radicale.
La verità è che il capitalismo sta facendo il suo mestiere, come sempre. In questo Marx non sbagliava. Il mestiere di creare enormi ricchezze per pochi e crisi cicliche -più o meno gravi- per tutti gli altri. Di Ezio Mauro non condivido l’ottimismo sull’Italia. Egli scrive infatti: «Ci siamo. I nodi che vengono al pettine, l’altro ieri a Londra per strada, con la morte di un uomo, l’altro giorno in Francia, domani in Italia». No, no. L’Italia è un miserabile Paese di pecore ormai narcotizzate da calcio e televisione. Da noi non succederà niente. Al massimo, le casalinghe assaliranno la sede dove si svolge ogni sera il Pacco di Rai 1…
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