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Ultrafinanza/Ultraviolenza

Per salvare le banche dalla crisi che le loro stesse operazioni finanziarie hanno prodotto nel 2008 e nel 2009, gli Stati si sono massicciamente indebitati. Il che vuol dire semplicemente che hanno impoverito le persone -i loro cittadini- a tutto vantaggio di un potere internazionale fuori controllo: «Ciò a cui stiamo assistendo è dunque proprio il grande ritorno sulla scena del sistema dell’usura. Quello che Keynes chiamava “un regime di creditori” corrisponde alla definizione moderna dell’usura. I modi di procedere usurai li ritroviamo nel modo in cui i mercati finanziari e le banche possono far man bassa degli attivi reali degli Stati indebitati, impadronendosi dei loro averi a titolo di interessi su un debito il cui nucleo principale è costituito da una montagna di denaro virtuale che non potrà mai essere rimborsato. Azionisti e creditori sono gli Shylock della nostra epoca» (Alain de Benoist,  Diorama letterario, n. 306, p. 6).
Le posizioni avverse all’ultracapitalismo che ci sta portando nel baratro sono soprattutto tre: l’altermondialismo di Hardt e Negri i quali, sul modello del Manifesto marxiano, giudicano in ogni caso positiva la nascita di un Impero mondializzato rispetto alla permanenza degli Stati nazionali; l’arcipelago politico che spera nell’avvento di un nuovo antagonista di massa capace di opporsi al capitalismo finanziario con azioni di piazza e movimenti di varia natura (Indignados, ad esempio); «un terzo gruppo di posizioni, all’interno del quale si possono situare quelle di Alain de Benoist, fa capo a quanti ritengono, invece, che solo costruendo un nuovo paradigma, un diverso nomos della Terra, una differente modalità di appropriazione, produzione e distribuzione che ponga al centro i concetti di limite e di bene comune, sarà possibile trovare il bandolo della matassa. Vi possiamo inserire, a  titolo puramente esemplificativo, la corrente della decrescita, l’ecologismo più coerente e consapevole, il pensiero meridiano di Franco Cassano, l’alternativa mediterranea propugnata da Danilo Zolo, il Régis Debray che tesse l’elogio delle frontiere, le analisi di François Flahault sul prometeismo occidentale» (Marco Tarchi,  ivi, p. 2).
Le ragioni di quanto sta accadendo sono molteplici e profonde. Sono radicate nelle decisioni assunte dai governi liberisti europei ancor prima della nascita dell’euro e soprattutto nella insensata norma per la quale la BCE può finanziare le banche ma non direttamente gli Stati. In questo modo accade che «le banche hanno prestato agli Stati, ad un tasso di interesse variabile, somme che a loro volta hanno preso in prestito per quasi niente» (A. de Benoist, ivi, p. 11).
Un dialogo apparso sul Manifesto del 1.3.2012 lo conferma: «cinziagubbini: Mmmm…ma il tasso dell’1%? Non è un po’ scandaloso? Leggo che le banche hanno comunque intenzione di tagliare i prestiti…Con i precedenti finanziamenti che ci hanno fatto? Hanno finanziato il sistema produttivo? Oppure ci hanno comprato titoli di Stato che rendono più dell’1% e quindi ci hanno guadagnato?
joseph halevi: La vergogna assoluta della situazione europea, ma anche americana, è che alle banche si dà tutto senza contropartita».
Ormai «la Borsa è sempre più simile a un casinò e la banche hanno abbandonato, di fatto, la loro funzione di raccogliere risparmio e fornire risorse in prestito a famiglie e imprese, per dedicarsi ad attività finanziarie» (Francesco Indovina, Alfalibri, n. 8, p. 14). Gli Stati europei regalano quindi il danaro dei cittadini alla speculazione finanziaria. Un autentico orrore, al quale hanno partecipato attivamente «gli Stati Uniti d’America, che da tempo temono di vedere l’egemonia del dollaro minacciata dalla nascita di una nuova moneta di riserva», una moneta nata di per sé a rischio avendo «artificiosamente legato una moneta unica ad economie divergenti da ogni punto di vista» (A. de Benoist, DL 306, p. 7). Il risultato di tutto questo è ben espresso da Nicolas Dupont-Aignan: «Volendo salvare l’euro i dirigenti ciechi stanno distruggendo l’Europa. Perché l’Europa ha senso solo se consente a ciascun popolo di prosperare più assieme agli altri che da solo isolatamente» (ibidem).
Affamare i popoli per arricchire le banche è una forma di terrorismo attuata dalle istituzioni finanziarie, con l’attiva complicità delle classi dirigenti statunitensi ed europee.  Sul numero 16 (Febbraio 2012, p. 11) di Alfabeta2, Franco Berardi Bifo così sintetizza quanto sta accadendo:

Cosa è uscito dal vertice di Bruxelles che doveva salvare l’Europa l’11 e 12 dicembre 2011? Due decisioni: la prima ha carattere formale, è una dichiarazione di sudditanza della società alla finanza. Ogni paese europeo è chiamato a inserire urgentemente l’obbligo di pareggio di bilancio nelle Costituzioni nazionali. Una misura sistematicamente restrittiva che corrisponde alla filosofia dell’austerità permanente. La seconda è la decisione di investire, attraverso un intervento della Banca Centrale Europea, un’ingente quantità di denaro pubblico nel ripianamento del debito accumulato dalle banche. Senza nessuna contropartita, senza nessun impegno, il sistema bancario europeo gode così di una regalia immensa. I governi nazionali, nel frattempo, stanno rastrellando denaro pubblico per versarlo nelle casse della classe finanziaria. Buon pro gli faccia.
La logica che guida le scelte del vertice di Bruxelles consiste nel dare continuità a un gigantesco spostamento di risorse della società verso il sistema finanziario. Quest’ultimo funziona ormai come un buco nero, un’idrovora che fa sparire il reale: il mondo civilizzato, la scuola, la sanità, il territorio, i saperi -tutto sta scomparendo, disgregandosi a vista d’occhio.
[…] La vecchia borghesia è stata sostituita da una classe deterritorializzata di predoni, il cui potere si fonda sul continuo spostamento del valore, sulla menzogna sistematica, e la simulazione. La sua fortuna economica spesso si basa sulla distruzione della ricchezza altrui.
[…] I segni che un tempo erano indicatori di valore ora sono diventati atti linguistici performativi. Quando un’agenzia di rating è in grado di degradare un paese, o un’azienda, non si limita a funzionare come indicatore, ma diviene un fattore di valorizzazione o di svalutazione.
[…] Dobbiamo ragionare invece in termini di insolvenza sociale perché è l’intera società che deve rifiutarsi di riconoscere il vincolo monetario.

Vale a dire che gli Stati e la società civile dovrebbero rifiutarsi di pagare il debito contratto con gli speculatori, con gli ormai idolatrati “mercati” -con questo Moloch al quale si sacrificano le vite umane- e riappropriarsi, invece, del controllo della moneta.
Karl Marx aveva descritto con chiarezza la logica ultraviolenta e accentratrice del capitale finanziario:

Man spreche noch von Zentralisation! Das Kreditsystem, das seinen Mittelpunkt hat in den angeblichen Nationalbanken und den großen Geldverleihern und Wucherern um sie herum, ist eine enorme Zentralisation und gibt dieser Parasitenklasse eine fabelhafte Macht, nicht nur die industriellen Kapitalisten periodisch zu dezimieren, sondern auf die gefährlichste Weise in die wirkliche Produktion einzugreifen – und diese Bande weiß nichts von der Produktion und hat nichts mit ihr zu tun. Die Akte von 1844 und 1845 sind Beweise der wachsenden Macht dieser Banditen, an die sich die Finanziers und stock-jobbers anschließen.

Che cosa vuol dire accentramento! Il sistema creditizio, che ha il suo centro nelle pretese banche nazionali e nei grandi prestatori di denaro e negli usurai che orbitano loro intorno, costituisce un enorme accentramento e regala a questa classe di parassiti una forza favolosa, capace non solo di decimare periodicamente i capitalisti industriali, ma anche di intervenire nel modo più pericoloso nella produzione reale -e questa banda niente sa della produzione e nulla ha a che fare con essa. Le leggi del 1844 e del 1845 sono una prova della forza crescente di questi banditi, ai quali si uniscono i finanzieri e gli stock-jobbers [speculatori di Borsa].
Il Capitale, libro III, sezione V, cap. 33: «Das Umlaufsmittel unter dem Kreditsystem» (Il mezzo di circolazione nel sistema creditizio).

 

I pessimi

«In considerazione della esigenza di rilanciare lo sviluppo economico del Paese e fornire un aiuto alla crescita…». Così inizia il testo della cosiddetta ennesima “Manovra” finanziaria. Che cosa è “il Paese”? È la terra, i fiumi, il paesaggio, le abitazioni. È la storia lunga, travagliata e tenace di una popolazione. Il Paese sono soprattutto le persone, gli esseri umani, la loro condizione economica, fisica, esistenziale. Il Paese che il governo Monti dichiara di voler salvare è invece altro. Sono gli speculatori finanziari, sono i grandi appalti criminogeni, sono le società di assicurazione, sono soprattutto le banche e i loro investimenti più a rischio e più lontani dall’economia reale, le loro scommesse sui fallimenti delle imprese, ad esempio sull’impossibilità da parte dei cittadini di pagare i loro mutui e i propri debiti (li chiamano “derivati”).
Per salvare il Paese reale si sarebbero potute prendere molte decisioni: cancellare TAV e Ponte sullo stretto; non acquistare 131 cacciabombardieri F35 dal costo di 18 miliardi di euro (chi dobbiamo andare a bombardare?) e ritirarsi dalle infami guerre nelle quali buttiamo altro denaro; stabilire misure efficaci contro l’evasione fiscale (rendendo ad esempio detraibili tutte le spese documentabili); far pagare le frequenze televisive alla RAI e a Mediaset, invece che regalargliele; imporre l’ICI sugli immobili di proprietà del Vaticano. A una domanda su quest’ultima possibile entrata Monti ha risposto: «È una questione che non ci siamo posti». Appunto. Come non se l’era posta neppure Berlusconi, il cui sostegno al governo rimane ovviamente fondamentale  -visto che il suo partito ha la maggioranza in Senato- e che può ben riconoscersi in una serie di provvedimenti che colpiscono i lavoratori che pagano già le tasse, non toccando invece i grandi patrimoni.

Ha ragione Guido Viale : «Monti e Marchionne sono esempi lampanti di banalità, ferocia contro i deboli, complicità con i forti, inconcludenza». Sono un esempio degli errori economici gravissimi ai quali conduce la dottrina liberista, oltre che della sua intrinseca disumanità, dell’essere il liberismo un’espressione di Mammona. Gli eventi della storia umana sono anche geometrici, posta una causa l’effetto segue: con il trionfo ottenuto nella Guerra fredda il liberismo ha dispiegato e dispiega ogni suo dogma fin negli interstizi più riposti delle vite umane. Uccidendole.  Pessimo governo perché pessimo è il Capitale.

Facebook

the social network
di David Fincher
USA, 2010
Sceneggiatura di Aaron Sorkin
Con Jesse Eisenberg (Mark Zuckerberg), Andrew Garfield (Eduardo Saverin), Justin Timberlake (Sean Parker), Armie Hammer (Cameron Winklevoss), Max Minghella (Divya Narendra)
Trailer del film

Avvocati contro avvocati, studenti di Harvard contro studenti di Harvard, risarcimenti milionari versati da Mark Zuckerberg al socio insieme col quale aveva fondato facebook e agli atletici, aristocratici fratelli che gli avevano suggerito l’idea. E tutto era cominciato una sera in cui Zuckerberg voleva vendicarsi delle donne (sempre lì batte il dente del maschio) e -oltre che insultare sul blog personale la propria (ex)ragazza- ruba le foto delle studentesse dagli archivi universitari, le raggruppa in coppie e propone ai navigatori di Internet di votare “la più fica”. Esplodono le visite e da allora non si fermeranno più. Sulle origini ferocemente maschiliste di facebook milioni di appassionati -comprese moltissime donne e ragazze- sembrano sorvolare, se mai le conoscono. Ma tutta questa operazione di immenso successo planetario odora con estrema chiarezza di soldi e di frustrazione. Quella del nerd diventato famoso e ricchissimo, tanto da potersi comprare l’intera Harvard se volesse; quella dei suoi coetanei alla ricerca dei modi più fantasiosi per rimorchiare; quella di centinaia di milioni di persone che regalano e chiedono con estrema leggerezza “amicizie” e “contatti” per lo più soltanto virtuali. Una americanata, insomma. E uso tale parola in un senso serissimo.

È questo che il film di David Fincher racconta. E lo fa assai bene, coniugando oggettività documentaria e passione per il proprio argomento, maestria nel montaggio e ottime interpretazioni, apparente leggerezza e scavo nelle motivazioni più profonde dei comportamenti umani. Un film molto bello, insomma, su un evento tra i più emblematici della contemporaneità. Facebook è davvero uno specchio reale ed efficace dell’umanità e delle sue relazioni. Per questo è così banale. Il che non mi ha impedito di apprezzare e accogliere la richiesta di una mia laureanda del corso di Scienze della comunicazione che intende dedicare la tesi di laurea a questo fenomeno. Facebook è infatti anche la realizzazione del sogno roussoviano di una società totalmente trasparente e dalla quale non è più possibile uscire una volta che si è entrati; è un occhio impersonale fatto di miliardi di pupille, che vuole rinunciare -per esplicita dichiarazione del suo fondatore e padrone- a ogni riservatezza; è la realizzazione ludica ma non per questo meno reale del progetto capitalista, avendo trasformato «mezzo miliardo di persone in laboriosi operai dell’amicizia» (Christian Raimo, «Facebook. Se guardi lo spot guadagni anche tu», il Manifesto, 11.5.2011, p. 5); è il narciso che si crede al centro del mondo e delle sue relazioni; è una perdita di tempo; è il tramonto del dialogo critico, a favore invece della fuffa disseminata ovunque, come giustamente nota Gilda Policastro: «il presunto consenso dal basso muove sovente dalla creazione dei cosiddetti “gruppi”, le cui adesioni di altri utenti vengono coartate o sollecitate o addirittura ottenute in modo inconsapevole (attraverso la modalità di iscrizione di altri utenti allo specifico gruppo, modalità che non passa necessariamente attraverso una richiesta di consenso esplicito)» («Per non essere un gadget», Alfabeta2, maggio 2011, pp. 30-31); è un formidabile strumento di raccolta di informazioni al servizio delle polizie e delle aziende di tutto il mondo; è la vittoria delle potenzialità più discutibili di Internet e della Rete, delle quali per fortuna facebook è ancora soltanto una provincia, per quanto estesa sia.

Il latte versato

Dario Sammartino mi ha segnalato questo breve articolo de La voce, a firma di Marco Onado, dedicato alla vicenda Parmalat:

«Nei caldi anni Settanta qualcuno aveva scritto sui muri di Mirafiori: “passo qui dentro otto ore al giorno e pretendete anche che lavori?” Oggi gli imprenditori italiani, di fronte alla scalata francese su Parmalat dovrebbero dire: “mi spacco la schiena a fare affari e volete che ci metta anche dei soldi?” Li vediamo oggi su tutti i giornali rilasciare, con facce compunte, dichiarazioni pensose che alternano l’indignazione per la prepotenza straniera al dolore per “filiera alimentare” la cui italianità viene violata, forse per sempre. E via elencando in un’orgia di luoghi comuni per piangere, è il caso di dire, sul latte versato.
Ma dove erano questi baldi capitani d’industria, i loro banchieri e i loro referenti politici quando Tanzi affossava la società con acquisizioni spericolate usando solo i soldi dei risparmiatori e mettendosi in tasca 2,3 miliardi di euro? “Distrazioni” le chiamano pudicamente i rapporti ufficiali, perché è noto che Calisto, ormai avanti con gli anni, si metteva in tasca i soldi di tutti solo perché dimenticava di prendere le pillole per la memoria.
E dove erano i nostri baldi imprenditori quando Bondi risanava la società, ne faceva più che raddoppiare il valore in borsa e riempiva le casse aziendali di liquidità anziché impiegarla in pinacoteche clandestine? Perché non hanno mostrato nessun interesse per il “gioiellino”? Semplice: perché avrebbero dovuto tirare fuori i soldi. Ma scherziamo? Non sono queste le regole del gioco del capitalismo italiano.
E adesso gli imprenditori italiani devono pure mostrare di essere sensibili all’appello del Governo, ma per carità, purché “in cordata” perché bisogna sempre replicare i vizi del nostro sistema imprenditoriale: tutti insieme, in una ragnatela di scambi di favori, sostegni e ammiccamenti, in cui alla fine gli interessi veri delle aziende finiscono dietro quelli dei baldi alpinisti. Coprirsi, innanzitutto: questa è la parola d’ordine. Se si formerà, i componenti della cordata italiana si presenteranno intabarrati come Totò e Peppino alla Stazione centrale di Milano. E grazie ai tre mesi di tempo generosamente concessi dal Governo potranno mandare a memoria la battuta da dire a muso duro ai francesi: “Noio volevàn savuàr…».

I “grandi imprenditori” italiani sono quasi tutti fatti così: degli statalisti vigliacchi -sempre pronti a investire con il danaro pubblico- che si travestono da liberisti e capitalisti. Perché la Germania non ci invade?

Il Capitale, i padri, la morte

Piccolo Teatro Grassi – Milano
La compagnia degli uomini
di Edward Bond
Traduzione di Franco Quadri e Pietro Faiella
Con: Riccardo Bini (Dodds), Giovanni Crippa (Wilbraham), Marco Foschi (Leonard Oldfield), Paolo Pierobon (Bartley), Gianrico Tedeschi (Oldfield), Carlo Valli (Hammond)
Produzione: Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Regia di Luca Ronconi
Sino al 26 febbraio 2011

Oldfield è un produttore d’armi ormai anziano ma determinato a mantenere il controllo delle propria Compagnia, nella quale evita di far entrare Leonard, suo figlio adottivo, perché lo giudica ancora inadatto e perché teme che il proprio danaro lo corromperebbe. Ma il giovane vuole costruirsi una propria via e accetta la proposta del segretario Dodds di acquistare la Società di Wilbraham, un industriale fallito, schiavo dell’alcol e del gioco d’azzardo. Dietro Dodds e Wilbraham c’è però Hammond, un magnate dell’alimentazione che rileva gli enormi crediti verso la società acquistata da Leonard e in questo modo spera di diventare padrone della Compagnia del vecchio Oldfield, col quale è in competizione da anni. Capitalismo, quindi, puro capitalismo, un sistema che l’Autore di questo dramma definisce «di tutto rispetto. Abbraccia la morale della mafia: niente sentimenti, sopravvivere perché si è i più forti e i più spietati. Diversamente dalla mafia, opera entro i confini della legge» (Programma di sala, p. 6).

[Una versione più ampia di questa recensione si può leggere sul numero 8 – Febbraio 2011 del mensile Vita pensata]

«La speculazione è il mercato»

«La speculazione è un sinonimo del mercato. La speculazione è il mercato»; ci troveremmo di fronte non a una crisi contingente ma a una vera e propria «crisi di sistema»; «il capitalismo è il male, e il male non si riforma: si abbatte».

Chi sostiene tesi così radicali? Karl Marx o qualcuno dei suoi eredi? Gli anarchici, e cioè degli inguaribili sognatori? Qualche sprovveduto dilettante di economia? No, sono affermazioni -nell’ordine- di Eugenio Scalfari, di Jean-Claude Trichet, presidente della Bce (la Banca Centrale Europea); del regista statunitense Michael Moore. Un giornalista liberale, la massima autorità della finanza europea, un intellettuale del Michigan, concordano su quanto i critici del capitalismo -di questa forma suprema della rapina reciproca tra gli umani- sostengono da sempre e che oggi si mostra con evidenza a chiunque non chiuda gli occhi di fronte a ciò che accade: «nella fase del capitalismo assoluto, lo sviluppo capitalistico devasta la natura, la società e la psiche» (M. Badiale – M. Bontempelli, Marx e la decrescita, abiblio, Trieste 2010). E oramai natura, società e psiche -la vita degli umani e della Terra- sembra affidata ad anonime e potentissime “agenzie di rating” che condizionano in modo totale le decisioni dell’economia viva. Il denaro morto divora le esistenze vive, “il tempo dei mercanti e dei banchieri” -di questi servi improduttivi, di questo ceto che in altre culture è composto da paria intoccabili- è giunto al suo culmine nella forma della “pubblicità” pervasiva che divora le coscienze e il cui scopo è rendere necessario il superfluo. La borghesia mercantile e finanziaria trionfando divora se stessa e l’intero tessuto sociale.

L’alternativa? Difficile dire ma intanto è necessario ripensare alla radice il paradigma e la pratica della produzione e del consumo senza fine. La decrescita non ha nulla a che fare con pauperismo o ascesi. Piuttosto, chiariscono ancora Badiale e Bontempelli, «il punto fondamentale da cui partire per comprendere la nozione di decrescita è la distinzione fra beni d’uso da una parte e merci dall’altra. “Merce” non è sinonimo di bene o servizio, ma è un bene o servizio prodotto per il mercato in vista di un profitto e dotato quindi di un prezzo.

 Non c’è sul piano teorico alcun rapporto necessario tra aumento quantitativo delle merci, diffusione del benessere e progresso delle conoscenze». Ancora una volta, è il dominio della quantità (un atteggiamento interiore prima che economico) a portare con sé la catastrofe.

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