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Madre / Capitale

Pietà
di Kim Ki-duk
Con: Cho Min-Soo (Mi-sun), Lee Jung-Jin  (Kang-do)
Corea, 2012
Trailer del film

In un fatiscente quartiere di una città coreana, Kang-do è un sicario specializzato nello storpiare i debitori di usura che non pagano il dovuto, in modo da poter incassare l’assicurazione. Svolge il suo lavoro con freddezza, immerso nella solitudine e in una profonda miseria esistenziale. Un giorno gli appare una donna che gli chiede perdono per averlo abbandonato appena nato, dichiarando di essere dunque lei la responsabile dei suoi crimini. L’uomo non le crede, la sottopone a varie prove sino a quando non è sicuro che la donna sia davvero sua madre. Comincia allora a non portare più a termine gli incarichi ricevuti e a non poter tollerare il pensiero che lei se ne vada un’altra volta. La madre scompare e riappare, forse vittima della vendetta di quanti sono stati sciancati da suo figlio. O forse no.
Un’apoteosi/descrizione dell’amore materno nelle sue forme più radicali. Una rappresentazione/metafora del capitalismo che distrugge i corpi e le vite di quanti da esso sperano lavoro, reddito, credito. Tutte le vittime si rivolgono al sicario definendolo un “diavolo che uccide promettendo danaro”. Due livelli apparentemente molto diversi della vita umana -innato l’uno, storico l’altro; intimo il primo, collettivo il secondo; biologica la maternità, economico il capitale- si fondono integralmente nella violenza della quale entrambi, maternità e capitalismo, sono intessuti. Alla domanda di Kang-do su che cosa siano i soldi, la madre risponde: «L’inizio e la fine di ogni cosa». Vincitore della Mostra del Cinema di Venezia 2012, quello del regista coreano è ancora una volta  un capolavoro nichilistico e mistico.

«Economic Sense» e filosofia

Per fortuna temono ancora le parole. Definiscono “governo di tecnici” il governo dei banchieri; chiamano Spending review (insopportabili anglicismi da colonizzati) la sottrazione di risorse alla sanità, ai trasporti pubblici, ai servizi per i cittadini. L’Università è riuscita per ora a evitare che 200 milioni di euro le venissero rubati a favore delle scuole private. Ma l’esercito non è stato in pratica toccato, l’acquisto di centinaia di cacciabombardieri F-35 è in bilancio, lo spreco criminale di soldi pubblici nel Treno ad Alta Velocità è diventato un dogma di fede per tutti i partiti, le spese per far guerra all’Afghanistan e all’Iraq continuano.
Il fatto è che il capitalismo ha vinto le ultime due guerre mondiali: la Seconda sui campi di battaglia e la Guerra fredda sui campi della geopolitica. Chi vince impone le proprie assurdità. Come l’ultraliberismo che il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, docente a Princeton, e Richard Layard, direttore del centro studi della London School of Economics, giudicano un errore rovinoso. Nel Manifesto for Economic Sense da loro promosso e pubblicato sul Financial Times -niente di sovversivo quindi- i due studiosi scrivono tra l’altro:

«Le cause. Molti responsabili politici insistono sul fatto che la crisi è stata causata dalla gestione irresponsabile del debito pubblico. Con pochissime eccezioni –come la Grecia– questo è falso. Invece, le condizioni per la crisi sono state create da un eccessivo indebitamento del settore privato e dai prestiti, incluse le banche sovra-indebitate. Il crollo della bolla ha portato a massicce cadute della produzione e quindi del gettito fiscale. Così i disavanzi pubblici di grandi dimensioni che vediamo oggi sono una conseguenza della crisi, non la sua causa.
[…]
Il Fondo Monetario Internazionale ha studiato 173 casi di tagli di bilancio dei singoli paesi e ha scoperto che il risultato coerente è la contrazione economica. Nella manciata di casi in cui il consolidamento fiscale è stato seguito da una crescita, i canali principali erano un deprezzamento della valuta nei confronti di un mercato mondiale forte, una possibilità non disponibile al momento. La lezione dello studio del FMI è chiara: i tagli al bilancio ritardano la ripresa. E questo è ciò che sta accadendo ora: i paesi con i maggiori tagli di bilancio hanno avuto le più pesanti cadute dell’output». [Una traduzione di questo Manifesto si può leggere su Keynes blog ]

Davvero sono delle affermazioni di buon senso economico, che però il puro ideologismo dei banchieri che governano la finanza mondiale si rifiuta di comprendere e di praticare, preferendo la catastrofe sociale e umana pur di salvare non i popoli ma le banche e le loro operazioni speculative. Banche che se vincono le loro scommesse d’azzardo -questo è di fatto “il Mercato”- incassano il danaro; se perdono, chiedono e ottengono che siano i cittadini a ripianare i loro debiti. È quello che sta succedendo a partire dal fallimento della Banca Lehman Brothers nel 2008.

Armi, guerre, speculazioni finanziarie, totale disinteresse verso le sorti del pianeta mentre la catastrofe ambientale si avvicina inesorabile. Sembra che una vera e propria pulsione autodistruttiva stia dominando i decisori politici e i popoli che ne seguono i dettami. Lo sguardo filosofico tutto questo lo sa. La filosofia è il regno della libertà, è il luogo di un potere altro, un potere senza armi, senza leggi, senza polizie, senza preti, senza banche, senza padroni. Il potere dell’entità che conoscendo se stessa apprende il nucleo dal quale si generano ogni sapienza e ogni luce. Questo senso e questa libertà accadono qui e ora ogni volta che un barlume di intelligenza spezza l’oscurità e fa vedere.

Notturno soldi

Margin Call
di Jeffrey J. Chandor
USA, 2011
Con: Kevin Spacey (Sam Rogers), Paul Bettany (Will Emerson), Jeremy Irons (John Tuld), Zahary Quinto (Peter Sullivan), Simon Baker (Jared Cohen), Stanley Tucci (Eric Dale), Demi Moore (Sarah Robertson)
Trailer del film

Un film è anzitutto una narrazione. Di eventi, situazioni, personaggi, sviluppi, drammi, cadute, rassegnazioni, superamenti. Margin Call è la narrazione di quanto è avvenuto nel 2008 alla Lehman Brothers, una delle più importanti banche d’affari di Manhattan e quindi del mondo. Una banca che le ormai leggendarie e potentissime agenzie di rating classificavano con la tripla A -il massimo dell’affidabilità- poco prima del suo rovinoso crollo e quando i suoi titoli non valevano già più niente. Puro azzardo e truffa. Questo sono le grandi banche, che distribuiscono profitti stellari ai loro proprietari e conducono alla rovina milioni di persone che a esse si affidano o per bisogno oppure per il desiderio di una vita che vada al di là dell’agio. Salvo precipitare dall’alto delle proprie speculazioni.

Viene narrata la notte nella quale un giovane impiegato apre la chiavetta affidatagli da un collega più anziano licenziato in tronco e scopre che l’equazione sulla quale era fondata la previsione di crescita era inutilizzabile, che l’esposizione della banca superava ormai l’intero capitale sociale dell’azienda. L’uno dopo l’altro, in rigorosa scala gerarchica, vengono informati i dirigenti della banca. La decisione sarà di vendere tutti i titoli-spazzatura a chiunque sia disposto a comprare -anche alla mamma- e, alla fine, a qualunque prezzo. Dal crollo di quell’istituto finanziario sono derivate a domino le conseguenze che riguardano la vita di ciascuno di noi, anche di chi non ha soldi a sufficienza per investire in borsa o non vuole farlo. I mercati finanziari, infatti, sono i veri padroni della politica e dell’economia, com’è naturale che sia nella logica del capitalismo, quello nel quale siamo immersi tutti e che tutti rischia di frantumarci. Forse è soltanto questione di tempo.
Quel tempo che in questo film è serrato e discreto, osservatore e osservato, inesorabile e chiuso. Chandor conferma che si può fare puro spettacolo hollywoodiano senza per questo rinunciare a far capire ciò che accade, il suo buio. “Margin Call” viene definita «la richiesta fatta all’investitore, da parte dell’intermediario in titoli, di integrare il quantitativo di contante o titoli di Stato depositato in garanzia presso lo stesso intermediario. Questa richiesta viene avanzata quando il variare delle condizioni di mercato rende insufficiente il margine disponibile a tutelare l’intermediario dalle perdite» (Fonte: Performancetrading).

[Nelle loro recensioni Diego Bruschi e Marcella Leonardi evidenziano la struttura tragica di quest’opera, l’ineluttabilità greca, l’Ananke. Ma ne traggono giudizi opposti].

«Non mi hai salvato»

Cosmopolis
di David Cronenberg
Canada, 2012
Con: Robert Pattinson (Eric Packer), Paul Giamatti (Benno Levin), Kevin Durand (Torval), Sarah Gadon (Elise Shifrin), Juliette Binoche (Didi Fancher), Samantha Morton (Vija Kinski)
Trailer del film

«L’istante del sopravvivere è l’istante della potenza», il potente è il superstite di fronte alla distruzione dei suoi simili. Questa definizione di Elias Canetti (Massa e potere, Adelphi, p. 273) si attaglia perfettamente a Eric Packer che nella sua Limousine diventata per lui tana, casa, ufficio, tempio, attraversa New York da un capo all’altro di un giorno imprecisato. Inimmaginabilmente ricco, questo giovane squalo vive della morte altrui. Morte dei loro beni, della loro autonomia, dei loro progetti, del loro eros. Tutti assorbiti, divorati e defecati nello spazio inattaccabile della lunga, lunghissima automobile bianca alla quale i colpi e le scritte dei cortei antisistema sembrano solo regalare il glamour di un’opera d’arte pop. Ma dove sta andando Packer in un giorno così sbagliato? Dal vecchio barbiere della sua infanzia, per farsi «sistemare il taglio». Un medico lo visita durante il tragitto facendogli un check-up completo. Scopre di avere «la prostata asimmetrica», così come il taglio sbagliato dei capelli. È questa asimmetria che il finanziere freddo e calcolatore non ha previsto. E che lo porterà a perdere centinaia di milioni di dollari in poche ore. Packer va verso colui che lo sta cercando per ucciderlo, un oscuro impiegato del suo impero finanziario che è stato da lui stritolato come tanti altri. Nella magnifica scena finale, costui gli punta la pistola dicendogli due volte «Tu non mi hai salvato, tu non mi hai salvato». Esattamente come il capitalismo non ha salvato dalla miseria miliardi di esseri umani, mentre era proprio questa salvezza che prometteva e che promette ancora.

Inquietante e gelido, fisico e virtuale, metafisico e antispettacolare, Cosmopolis è un film di enorme intelligenza anche perché basato sulla scrittura dell’omonimo romanzo di Don DeLillo. Come una volta venne detto dei film di Debord, qui non si esprime una teoria attraverso un racconto cinematografico ma si cerca di filmare direttamente la teoria. Una teoria che spiega come «il tempo sia diventato un bene aziendale». Poiché siamo tempo incarnato, questo significa che il Capitale sta succhiando il sangue dei nostri corpi sino a uccidere se stesso. L’interpretazione apparentemente scadente di Robert Pattinson nel ruolo del protagonista è forse funzionale all’asimmetria del film. Questo attore che sembra un “vampiro rincoglionito” -giusta l’efficace espressione dell’amica Silvana Mazza- sembra infatti dare al film tutto il suo non senso. Un non significato che, naturalmente, non è del film ma è della Finanza sprofondata nella sua propria luccicante barbarie.

Sterminio

Mi chiedevo quando sarebbe arrivata una dichiarazione formale della finanza internazionale a proposito del fatto che bisogna sbrigarsi a morire per non gravare sui bilanci degli stati. Eccola. Viene dal Fondo Monetario Internazionale, una delle istituzioni alle quali gli attuali governi dell’Occidente -a partire da quello guidato da Mario Monti– obbediscono in ogni loro pensiero, opera, omissione.

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FMI: LONGEVITÀ
11/04/2012 17:34

L’allungamento della vita potrebbe avere ripercussioni sul sistema finanziario mondiale. È l’allarme del Fondo monetario internazionale contenuto nel Global Financial Report che sarà presentato tra 7 giorni a Washington. «Se la durata della vita media entro il 2050 dovesse aumentare di 3 anni, il costo già vasto dell’invecchiamento crescerebbe del 50%», si legge nel Rapporto.
Di conseguenza, si alzerebbe il rapporto debito/Pil, con rischio per la solvibilità degli istituti finanziari e dei fondi pensione. Per il Fmi occorre intervenire con l’innalzamento dell’età pensionabile, maggiori contributi e una riduzione dei benefici da erogare.
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Fonte è Televideo ma la preoccupata dichiarazione dei vertici del capitalismo mondiale si trova in quasi tutti i giornali. Sul Fatto quotidiano, ad esempio, si legge che «secondo quanto pubblicato nel ‘Rapporto sulla stabilità finanziaria globale’, l’allungamento della vita media rischia di far saltare i conti del welfare, ma l’Fmi ha già pronta la ricetta: allungamento dell’età pensionabile, contributi più elevati e riduzione degli assegni erogati».
In realtà si potrebbe intervenire pure in altri modi: per esempio, riducendo o anche cancellando i fondi per le ricerche mediche tese a debellare le malattie croniche; chiudendo i reparti di geriatria; estendendo la morte per fame; istituendo un termine di fine vita -diciamo 82 anni?- dopo il quale si verrebbe accompagnati alla fine.
In questo modo il capitale e la finanza sarebbero finalmente sinceri nella loro volontà di sterminio.

Capitalismo e capitalisti

4.782.400 euro di stipendio annuo, più di 13.102 euro al giorno. Ai quali aggiungere benefit e premi di varia natura e quantità. Questa è la retribuzione di Sergio Marchionne, Amministratore Delegato della Fiat. Il quale è il primo a denunciare il crollo di vendite di automobili in Italia, in particolare di quelle prodotte dalla sua azienda. Mi chiedo come un manager che sta portando la sua azienda al disastro possa guadagnare cifre enormi, invece che essere licenziato. Più in generale, come pensa la Fiat -e ogni altra grande azienda e pure Monti (un robot fuori dalla realtà sociale e ben dentro l’illusione delle banche)– di continuare a vendere i propri prodotti favorendo il licenziamento di coloro che dovrebbero comprarli, diminuendo stipendi e salari, portando le fabbriche all’estero, chiudendo le aziende italiane? Chi dovrebbe acquistare auto e altre merci se si toglie lavoro agli italiani?
A questa domanda Dario Sammartino -ottimo conoscitore, tra l’altro, del mercato automobilistico- mi ha così risposto: «Marchionne non è licenziato perché forse sta ottenendo risultati finanziari utili ai padroni della Fiat. Infatti ormai la Fiat è anche Chrysler, e questa va benone. La Fiat va male in Europa perché non offre prodotti all’altezza dei concorrenti, neanche se fossero costruiti da schiavi senza retribuzione. E non offre prodotti perché non sta investendo: forse Marchionne sta conservando i soldi per completare l’acquisto della Chrysler o per qualche altro intrigo finanziario internazionale: di certo l’Italia non interessa più. In generale, poi, questi grandi manager prendono retribuzioni fuori da qualsiasi legame con i loro risultati, anche se negativi: basti pensare agli amministratori delegati dell’Alitalia o delle Ferrovie»
Questa risposta conferma che la Fiat dopo aver spremuto l’Italia con i soldi elargiti dai governi e sottratti agli italiani, dopo aver contribuito a ricondurre le relazioni industriali a livelli ottocenteschi, dopo aver mentito sulle sue intenzioni, è decisa a lasciare il Paese. Una volta si diceva “privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite”, ora siamo alla distruzione del lavoro e all’incameramento del bottino. In questo tipo di azioni la Fiat, i suoi padroni e i suoi amministratori delegati sono sempre stati bravissimi. Forse per questo Marchionne merita tutti i soldi che la Fiat gli dà.

Al di là di uno specifico capitalista -l’uno infatti vale l’altro, essendo essi non tanto degli umani quanto delle macchine atte a generare e a incassare profitti- le peculiarità del capitalismo contemporaneo sono ben descritte in un articolo di Maurizio Lazzarato pubblicato sul numero 18 (aprile 2012, pp. 3-4) di alfabeta2:

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Macelli

Piccolo Teatro / Teatro Grassi – Milano
Santa Giovanna dei macelli
di Bertolt Brecht
Trad. di Ruth Leiser e Franco Fortini
Scene di Margherita Palli
Con: Maria Paiato (Giovanna Dark), Paolo Pierobon (Mauler), Giovanni Ludeno (Cridle), Alberto Mancioppi (Weinberg), Roberto Ciufoli (Graham), Francesco Migliaccio (Meyers), Michele Maccagno  (Lennox), Fausto Russo Alesi (Slift), Francesca Ciocchetti (Signora Luckerniddle), Massimo Odierna  (Gloomb), Michele Maccagno (Paulus Snyder), Elisabetta Scarano (Marta), Gianluigi Fogacci (Operaio).
Regia di Luca Ronconi
Produzione: Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa – The State Academic Maly Theatre of Russia, Mosca
Sino al 5 aprile 2012

Chicago. I grandi macelli. Macchine di sterminio a pieno regime negli anni Venti del Novecento, a pieno regime negli anni Dieci del XXI secolo. Secondo alcuni storici quei macelli furono uno dei modelli ai quali il Nazionalsocialismo si ispirò per i suoi Lager. In essi, infatti, l’obiettivo era ed è ottenere il maggior numero di cadaveri nel più breve tempo e con il minor dispendio possibile di energia e di danaro.
Le stesse procedure che massacrano gli altri animali distruggono anche le esistenze degli addetti alle fabbriche/mattatoi. I signori della carne ritengono che cinquantamila o settantamila operai e le loro famiglie possano essere lasciati a casa, licenziati, ridotti in miseria. Si tratta di «plebe senza principi morali». È tra questa plebe che Giovanna Dark cerca di diffondere la Parola del Signore attraverso i sorrisi, i tamburi e le minestre calde dell’Esercito della Salvezza.
All’inizio ingenua sino alla stupidità, Giovanna rivolge discorsi ed esortazioni melense e trascendenti a persone attanagliate dalla fame e dal bisogno. Quando le dicono che il più cinico dei commercianti di carne, Mauler, è la causa della chiusura delle fabbriche, decide di andare da lui. Nonostante Mauler cerchi di nasconderle la propria identità, Giovanna lo riconosce subito tra i mercanti e gli industriali che affollano la Borsa della carne, esattamente come Jeanne D’Arc riconobbe il Delfino di Francia pur non avendolo mai visto prima. Quale caratteristica spinge così risolutamente Giovanna verso Mauler? «Perché sei quello che ha la faccia più sanguinaria».
Il radicalismo di Giovanna giunge sino a cacciare dalla Missione gli industriali. I capi dell’Esercito della Salvezza, che dei soldi di quella gente hanno bisogno, non glielo perdonano e la costringono a lasciare l’organizzazione. Sola, senza lavoro, affamata, Giovanna si reca da Mauler, che cerca di comprare la sua collaborazione e la sua stima. Invano. Mentre l’azzardo dei mercati carnal-finanziari giunge all’estremo e sembra condurre tutti alla rovina, Giovanna si ammala di stenti e di polmonite sino a morirne. Ma ormai ha compreso i propri errori e le è chiara la complicità dei moralisti e delle chiese con il male e con l’ingiustizia: «Com’ero ben accetta agli oppressori! Oh bontà senza conseguenze! O mente ottusa! Non ho mutato nulla. Mentre velocemente scompaio da questo mondo senza paura io vi dico: pensate, per quando dovrete lasciare il mondo, non solo a essere stati buoni, ma a lasciare un mondo buono!».
In quest’ultima affermazione c’è molto del teatro didattico e politico di Brecht. La bontà personale è rispettabile ma serve a poco se essa non si fa veicolo e modo di una trasformazione collettiva, di una metamorfosi delle strutture, di giustizia sociale.
I commercianti/industriali appaiono conficcati dentro le scatolette che producono. Un’invenzione registica di grande efficacia, che così viene descritta da Ronconi: «Quelli di Beckett sono proprio bidoni di immondizia, mentre io uso delle grandi scatole di carne che portano con grande evidenza la marca: proprio quello che fabbricano al mattatoio di Chicago. Ho subito pensato di mettere gli operatori di quel mercato nel loro prodotto» (Programma di sala, p. 16). Efficaci sono anche i video che appaiono di tanto in tanto dietro gli attori e nei quali gli operai hanno tutti lo stesso viso e Giovanna assume i volti più diversi. L’uomo massa è uniforme e chi tenta di liberare le masse rischia la stessa uniformità.
Le convinzioni politiche comuniste di Brecht non gli impediscono dunque di cogliere la miseria umana in quanto tale e non soltanto quella delle strutture storiche nelle quali essa si esprime. E tuttavia uno degli elementi più preziosi di questo testo -che è del 1929- e della sua messinscena oggi è l’impressionante attualità di alcuni passaggi, in particolare del patologico dominio del mercato.
La messa in scena del Piccolo corre sul limine dell’innovazione e del rischio. Ronconi, infatti, intende esplicitamente allontanarsi dalla vulgata brechtiana, dai suoi obblighi didascalici e rituali, per andare -anche attraverso numerosi tagli, primi tra tutti quelli delle scene corali- al nucleo estetico e antropologico dell’opera. In ogni caso questo teatro rimane -chiunque lo metta in scena- epico, profondo, militante.

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