Il mio debito verso questo filosofo, la mia riconoscenza, datano da quando sedicenne lessi la notizia della sua morte e forse per la prima volta sentii l’espressione Essere e tempo, titolo di un libro labirintico e posto sull’oltre della vita. Di questo libro e del suo autore ci parlava Eugenio Mazzarella nei corsi di Filosofia teoretica a Catania. La vocazione per la filosofia aveva trovato un nome pari a quelli di Platone e di Spinoza.
In occasione degli ottant’anni di Heidegger, Hannah Arendt pronunciò alcune semplici parole che descrivono perfettamente quest’uomo e la sua opera: «C’era uno che faceva davvero le cose che Husserl aveva proclamato, uno che sapeva che non si trattava di faccende accademiche, ma delle domande degli uomini che pensano, e non soltanto da ieri o da oggi ma da sempre […] La fama lo diceva in modo semplicissimo: il pensiero ha ripreso a vivere […] C’è uno che insegna, forse è possibile imparare a pensare» (Essere e tempo, trad. di A. Marini, Meridiani Mondadori, 2006, pp. CXIV-CXV).
E anche imparare ad apprezzare il calcio. Non molti sanno che Martin Heidegger nutriva una «inalterabile passione per il calcio. Che divenne anche militanza attiva nel periodo adolescenziale, tra le fila della squadra del Meßkirch, ricoprendo il ruolo di ala sinistra. Ma ancor più sorprenderà leggere dell’ammirazione senza riserve che Heidegger celebra per uno dei maggiori difensori-mediani della storia del calcio: Franz Beckenbauer, idolo di Germania a partire dagli anni ’60, conquistatore di trofei e trionfi nazionali e internazionali. Lo sguardo del filosofo si illumina appena quel nome viene pronunciato, cui fanno seguito precise argomentazioni: intelligenza della posizione in campo, abilità suprema nel presagire e ostacolare l’attacco dell’avversario, autorevolezza della funzione di raccordo nel centro del campo e, non da ultima, la precisione del rilancio, che in numerose occasioni offre alla propria compagine d’attacco l’occasione di andare in goal.
Senza parole, probabilmente, rimarranno i legionari e gli appassionati del pensiero del Maestro, assicura Fédier, quando leggeranno che per il talento di Beckenbauer egli arrivò a pronunciare un aggettivo che raramente o forse mai era affiorato sulle sue labbra: “geniale”».
(Fonte: Carlo Rafele, Il filosofo e il calciatore Per una tregua del caso Heidegger, righe finali del testo)
Un’interessante testimonianza lo conferma:
«Heidegger by then was a venerable old gentleman, and his former brusqueness and severity had mellowed with the years. He would go to a neighbor’s house to watch European Cup matches on television. During the legendary match between Hamburg and Barcelona, he knocked a teacup over in his excitement. The then director of the Freiburg theater met Heidegger on a train one day and tried to conduct a conversation with him on literature and the stage. He did not succeed however, because Heidegger still under the impact of an international soccer match, preferred to talk about Franz Beckenbauer. He was full of admiration for this player’s delicate ball control – and actually tried to demonstrate some of Beckenbauer’s finesses to his astonished interlocutor. He called Beckenbauer an “inspired player” and praised his “invulnerability” in duels on the field».
[Fonte: Heidegger and Beckenbauer]
Quando leggo le pagine di Heidegger si accresce il desiderio di decifrare la realtà e anche di segnare un gol, come mi accadde una volta a quattordici anni nel campetto dei Cappuccini di Bronte: una ‘rovesciata’ in piena area che lasciò di stucco il portiere avversario e fu per la mia squadra ragione di festa.
Nymphomaniac vol. 2
di Lars von Trier
Danimarca, 2013
Con: Charlotte Gainsbourg (Joe), Stellan Skarsgård (Seligman), Stacy Martin (Joe da ragazza), Shia LaBeouf (Jerome), William Dafoe (L), Jamie Bell (K)
Trailer del film
Ascoltando Joe e i suoi racconti, Seligman afferma: «La religione è molto interessante, come il sesso». Che li si pratichi o meno, naturalmente. Non credere ad alcun dio e nutrire grande interesse verso il sacro, le religioni, la fede, le chiese. Oppure essere parte di una chiesa e dipendere da essa per le proprie interpretazioni del mondo e per le pratiche di vita.
Bere, bere e poi ancora bere. Immergere nella bottiglia il senso dei propri giorni. Dipendere dagli alcolici, aspirare al liquido eccitante, rinfrancante, anestetizzante.
Iniettata, aspirata, compressa e ingoiata. Dipendere dai mondi che gli stupefacenti creano e in essi illudersi di vivere sottraendosi alla fatica dei giorni, dentro le scogliere di marmo della bianca sostanza, della polvere.
Frenetici davanti alle slot machine, alle scommesse, al videopoker. Dipenderne fino a vendere l’ultima traccia della vita che fu.
Ore ore e ore davanti al monitor, compulsando la posta, facebook, twitter. Giornate intere davanti ai videogiochi buoni per tutte le età. E lì eccitarsi di connessioni e ubriacarsi di paroleimmagini, dipenderne.
Dalle prime ore del lunedì alla sera della domenica pensare alla propria squadra, non parlar d’altro, riempirsi la casa e la mente dei suoi colori. Tifare e far dipendere il proprio umore da sfere lanciate dentro una rete. Gol.
Soldi soldi soldi, idolo estremo, puramente simbolico e insieme brutalmente materico. Il signore di questo mondo dal quale si dipende come dall’aria che si respira.
«’O cumannà è meglio d’ ‘o fottere» poiché ti fa guadagnare tanti soldi, ti dà sicurezza e soprattutto ti fa sentire vivo mentre imponi un ordine ai morti, morti alla loro volontà sostituita dalla tua. Nel comando si dipende tutti, sia chi l’ordine impone sia chi lo riceve.
Cercare qualcuno o tanti a cui imporre la propria presenza, l’umana compagnia bramata per scaricare sull’altro la propria angoscia e riceverne conforto, amicizia, parola, speranza, vita, gratificazioni, lodi. Dipendere dai conspecifici umani come la formica dal formicaio.
«Amore mio grande senza di te non è vita». «Figlio mio caro non abbandonare la tua mamma». Dipendere dai sentimenti sino a piangere, disperarsi, crollare quando l’altro fa ciò che era già implicito nel cominciamento della vita e dell’amore: andarsene.
E tuttavia soltanto al sesso si attribuisce di solito la perversione. Come se tutto questo non lo fosse altrettanto. Joe continua a narrare l’abisso del proprio desiderio irraggiunto -Achille che non raggiungerà mai la tartaruga dell’orgasmo- nonostante le visioni, la violenza, il dolore, lo specchio e la pistola. Nonostante l’anatra silenziosa.
E quando la conclusione del racconto sembrerà virare verso una volontà di redimersi divenuta finalmente cosciente del baratro; quando un barlume di amicizia sembra infine scoccare nel buio dei giorni insensati e dello sfacelo; quando sulla rovina del vissuto si apre l’ancòra da vivere, allora beffardo ritorna il desiderio, la dipendenza di qualcuno dalla fica a lungo negata.
È il buio di fotogrammi ormai neri sul rumore di passi che vanno. Non c’è salvezza dalla catastrofe inaugurata dall’essere venuti al mondo, in esso gettati.
È probabilmente l’oscenità di tale pensiero ad aver indotto a censurare il film, tanto che il suo autore dichiara all’inizio di aver autorizzato questa versione senza però riconoscersi in essa. Dipendere dal cinema come dalla forma platonica. «La filosofia contemporanea non consiste nel concatenarsi dei concetti, bensì nel descrivere la fusione della coscienza con il mondo, il suo impegnarsi in un corpo, la sua coesistenza con gli altri, e tale argomento è cinematografico per eccellenza» (Merleau-Ponty). Questo è l’argomento di Nymphomaniac: la potenza e i limiti della libertà.
L’arbitro
di Paolo Zucca
Con: Stefano Accorsi (Cruciani), Jacopo Cullin (Matzutzi), Benito Urgu (Prospero), Miranda (Geppi Cucciari), Alessio Di Clemente (Brai), Marco Messeri (Candido), Grégoire Oestermann (Jean Michel), Francesco Pannofino (Mureno)
Italia- Argentina, 2013
Trailer del film
Cruciani è un giovane arbitro, un “fuoriclasse” che aspira legittimamente a dirigere la finale più importante.
L’Atletico Pabarile e il Montecrastu sono due squadre sarde di terza categoria dilettanti (sotto non c’è niente), acerrime rivali. L’Atletico, che è diretto da un allenatore cieco, a conclusione del girone di andata si trova a zero punti. Ma in paese torna dall’Argentina Matzutzi, un emigrato che porta la squadra ai vertici sino a contendere il primato al Montecrastu.
La vicenda di Cruciani e quella delle due squadre si incrociano quando l’arbitro viene colto in fragrante. Lui così religioso, e così intransigente sul Regolamento, si è fatto corrompere non per danaro ma per ambizione. Il risultato è che viene degradato a dirigere i tornei di infimo livello. Nella partita decisiva diretta da Cruciani accade davvero di tutto: la tonalità grottesca, che aveva percorso l’intero film, si scatena in un vero e proprio sabba del pallone.
L’epigrafe è di Albert Camus: «Quello che so sulla vita l’ho imparato dal calcio». Il disincanto sul calcio e sulla vita è totale. Non soltanto il calcio viene descritto per quello che probabilmente è ormai diventato: un grande affare nel quale scorrono somme vertiginose e vince chi è più bravo non a giocare ma a corrompere (le vicende della Juventus di Luciano Moggi e i consistenti aiuti arbitrali per portare il Milan in Coppa dei Campioni sono assai recenti e illuminanti); è l’intera vita collettiva a essere permeata di una violenza implacabile contro umani, animali, cose. La tonalità lieve e stravagante di questo film non deve ingannare. Si tratta di una desolata riflessione sull’impossibilità della giustizia. «A quello zoppo, tu spezzagli l’altra gamba». Tutto questo in un bianco e nero elegante e onirico.
Mi sembra sorprendente ed estremamente positivo che un popolo innamorato del calcio come quello brasiliano stia avendo la forza di denunciare «le spese faraoniche in vista dei Mondiali, a scapito della qualità dei servizi sanitari e educativi, e la gigantesca corruzione, vero buco nero delle risorse statali. […] Negli stadi, incuranti del divieto della Fifa, molti tifosi hanno sostenuto le proteste: “Brasile svegliati, un professore vale più di un Neymar”». Ma anche di questa rivolta, come di quella turca, l’informazione italiana parla il meno possibile. E allora di fronte alla pervicacia istupidente del mainstream mediatico -teso sempre a sopire, troncare, tacere, ingannare– è opportuno ricordare come e perché si sia generato quell’insieme di eventi che vengono definiti «crisi»:
Il punto di partenza della crisi del 2008 è stato, da un lato, la deregolamentazione quasi totale delle prassi dei mercati finanziari e, dall’altro, la comparsa di “paesi emergenti”, a cominciare dalla Cina, che si sono accaparrati una parte crescente della produzione mondiale grazie al dumping salariale. Quella concorrenza, che spiega anche le delocalizzazioni, ha comportato un calo generale dei redditi nei paesi occidentali, calo che i nuclei familiari sono stati incoraggiati a compensare con un indebitamento crescente, che si supponeva potesse permettere di conservare il loro livello di vita. Ovviamente, le cose non sono andate affatto così, e il sistema è crollato quando i mancati pagamenti si sono accumulati. È quel che è accaduto negli Stati Uniti con la crisi dei crediti ipotecari (subprimes). Gli Stati sono stati allora costretti ad indebitarsi a loro volta per impedire al sistema bancario di sprofondare. Il problema dell’indebitamento privato si è così tramutato in problema dell’indebitamento pubblico.
[…]
Le banche, che potranno contrarre presiti all’1% dalla Bce, concederanno presiti al Mes [Meccanismo europeo di stabilità] ad un tasso di interesse nettamente superiore, dopo di che il Mes presterà agli Stati ad un tasso ancor più elevato. […] In ultima analisi, le banche daranno agli Stati, imponendo interessi, del denaro che consentirà a quei medesimi Stati di rimpinguare le casse di quelle stesse banche. Una situazione davvero surrealista, la cui causa prima, come è noto, è la proibizione fatta a partire dal 1973 agli Stati di contrarre prestiti ad interesse minimo o nullo con le loro banche centrali, il che li ha posti sostanzialmente alle dipendenze del settore privato. (Alain De Benoist, Diorama letterario, n. 314, pp. 8-9)
La natura non soltanto assurda di queste transazioni -assurda per il bene pubblico ma assai sensata per gli interessi dei banchieri- è aggravata dal fatto che essa è stata resa per legge irreversibile, privando in questo modo parlamenti e governi di ogni potere, riducendoli a ornamento della finanza. Ha dunque ragione Gaby Charroux -deputato francese comunista e sindaco di Martigues- a osservare che in questo modo «consegniamo direttamente le chiavi della nostra politica economica e di bilancio ai tecnocrati di Bruxelles e scivoliamo verso […] una forma morbida, giuridicamente corretta, di dittatura finanziaria» (Ivi, p. 11). Con l’ascesa al potere anche politico di impiegati e funzionari della Goldman Sachs ad Atene, a Roma, a Francoforte (Mario Draghi), gli Stati sono diventati evidentemente degli Stati di classe diretti dal capitalismo finanziario: «Le banche, che controllano anche i mezzi di pagamento dei cittadini, hanno preso lo Stato in ostaggio per conto dei loro ricchi azionisti. Lo Stato diventa una macchina per ricattare le popolazioni a beneficio dei più ricchi» (Emmanuel Todd in un’intervista a Le Point, 13.10.2011).
Uscire da una spirale irrazionale e violenta come questa sarebbe possibile se il potere politico fosse altro da quello finanziario e prendesse provvedimenti come i seguenti: applicazione di un protezionismo europeo, nazionalizzazione delle banche, rifiuto di pagare il debito pubblico. Provvedimenti gravi ma praticabili se -appunto- i governi non fossero ormai ridotti alla condizione di impiegati della finanza il cui mandato è di agire contro i loro popoli, cominciando con l’ingannarli. Popoli i quali «non credono più nell’Europa, che confondono a torto con l’Unione europea. Non hanno più fiducia nella polizia […], non hanno più fiducia nei tribunali, che non sanzionano mai i delinquenti in colletto bianco e nemmeno i banditi della finanza di mercato» (de Benoist, Diorama letterario, n. 214, p. 23).
Anche le operazioni di killeraggio internazionale sono mosse dagli stessi scopi speculativi e di controllo delle risorse, come accaduto in Libia, con i massacri perpetrati da Sarkozy e Obama, «assassinando il capo dello Stato libico Muammar Gheddafi e la sua famiglia, inclusi i bambini piccoli»; come accaduto in Iraq, dove le potenze anglosassoni e i loro servi italici hanno causato «due milioni di morti, affamato intere popolazioni, distrutto un paese unificato, allora il più evoluto industrialmente, socialmente ed economicamente della regione, averlo consegnato alla guerra civile, agli scontri tribali o religiosi, alla persecuzione delle minoranze come quella cristiana e agli attentati omicidi quotidiani. Del resto, George W. Bush non aveva dichiarato di voler riportare l’Iraq all’età della pietra?» (Maurice Cury, ivi, p. 24). La stessa operazione si sta ferocemente tentando contro il popolo siriano.
Guardate questa persona. Un tranquillo, anziano signore, vero? Un pensionato dalla faccia serena. Un nonno che immaginiamo circondato dai suoi bei nipotini. No. È la fotografia di uno degli umani più feroci del Novecento. È Jorge Rafael Videla, presidente dell’Argentina dal 1976 al 1981. In un’intervista concessa al giornalista Ceferino Reato Videla afferma che le 30.000 persone massacrate, torturate, uccise, gettate dagli aerei militari, fatte sparire sotto il suo regime e per suo comando furono il necessario «prezzo da pagare per vincere la guerra contro la sovversione […]. Bisognava eliminare un bel mucchio di persone che non si poteva portare davanti alla giustizia e neanche fucilare»; «Per non provocare proteste dentro e fuori il paese, si arrivò alla decisione che quella gente “desapareciera”, scomparisse». In ogni caso, continua Videla, «Dio sa quello che fa e perché lo fa. Io accetto la volontà di Dio e credo che Dio mi abbia sempre tenuto per mano».
Non so se lo abbia guidato la mano di Dio ma certamente lo ha fatto quella della Chiesa argentina, quella degli Stati Uniti d’America -la “più grande democrazia del pianeta” per i fessi che ci credono-, i quali incoraggiarono, sostennero e protessero una delle dittature più efferate del Novecento. I militari assassini furono guidati anche dal gioco del calcio e dalla vittoria dell’Argentina ai mondiali del 1978, un successo che regalò loro il plauso delle folle. Il “calcio e lo sport fuori dalla politica”? Un’altra favola per gli sprovveduti.
Sovversivi dell’ordine furono i generali e ammiragli Emilio Eduardo Massera, Roberto Eduardo Viola, Leopoldo Galtieri, Reynaldo Bignone, Orlando Ramón Agosti e il loro capo Videla.
Il 3 giugno 2011 avrebbe dovuto tenersi una partita di calcio tra le squadre femminili di Giordania e Iran. Le calciatrici persiane, però, hanno indossato lo hijab, una tenuta che copre l’intero corpo. La FIFA (l’organismo che governa il calcio mondiale) ha per questo annullato la partita, ha dato la vittoria alla Giordania e ha dunque escluso le ragazze iraniane dalle Olimpiadi di Londra del 2012. Decisione che reputo molto grave e discriminatoria, anche perché la federazione iraniana aveva cercato un compromesso rispetto alle richieste della FIFA. Risibile, poi, la motivazione per la quale durante le partite sono vietati abbigliamento e comportamenti che facciano riferimento a credenze religiose o politiche. Bisognerebbe, infatti, proibire anche il gesto del farsi la croce che alcuni calciatori mettono in atto all’inizio di una partita o dopo aver realizzato una rete.
Va detto, tuttavia, che un episodio come questo conferma la fobia della fede musulmana nei confronti del corpo femminile. Il monoteismo islamico è nel suo sviluppo storico la più estrema forma di negazione del piacere, della bellezza, della vita nella sua potenza corporea. Se si confronta l’Afrodite Callipigia (dal bel sedere) dei pagani -la quale solleva la propria veste in un gesto di divertita conquista- con il divieto ossessivo imposto alle donne islamiche di mostrare la propria pelle, si comprende quale nichilismo antierotico esprimano il Corano e il suo predecessore, il libro degli ebrei e dei cristiani.
Ci sono contraddizioni assai chiare ma che in certe condizioni non si riescono a percepire. Una consiste nell’essere milanisti e però detestare il berlusconismo. Lo dico da anni ai miei amici tifosi rossoneri: «ogni gol che vi fa esultare, ogni vittoria di questa squadra rappresentano un potente sostegno a Berlusconi, il quale ha fatto anche del Milan uno strumento di propaganda, di consenso, di dominio». La festa di ieri sera a Milano per il diciottesimo scudetto ne costituisce la conferma. Nei due giorni in cui la pubblicità elettorale è ufficialmente proibita, il Milan sta permettendo al suo padrone di mostrarsi, di additare se stesso come modello al quale credere sempre, a cui ciecamente affidarsi. L’intima natura totalitaria del berlusconismo nulla può lasciare al di fuori di sé, figuriamoci il calcio che è uno dei maggiori strumenti di manipolazione delle masse.
Da quando ero bambino e sino a vent’anni fa sono stato un tifoso milanista che adorava la sua squadra, che con essa ha esultato, atteso le vittorie, pianto (ad esempio dopo l’atroce sconfitta per 5 a 3 a Verona che nel maggio 1973 fece svanire all’ultima giornata di campionato lo scudetto della “stella”). Berlusconi mi ha rubato anche la squadra, trasformandola in una propaggine del proprio io, della propria menzogna. A queste condizioni non ho potuto più tifare per il Milan. Ribadisco dunque l’invito a non farsi complici del dittatore: «Amicus Milan sed magis amica libertas».