Skip to content


L’esca

Vice. L’uomo nell’ombra
di Adam McKay
USA, Gran Bretagna, Spagna, Emirati Arabi Uniti, 2018
Con: Christian Bale (Dick Cheney), Amy Adams (Lynne Cheney), Steve Carrel (Donald Rumsfeld), Sam Rockwell (George W. Bush), Tyler Perry (Colin Powell)
Trailer del film

Rissoso, nullafacente, ubriacone. Occhiali, giacca e cravatta, attento e di poche parole. E soprattutto uno degli uomini più potenti del mondo dal 2001 al 2009. La parabola di Dick Bruce Cheney (1941-vivente) si è svolta nella riservatezza di delitti e miserie perpetrati per l’intera esistenza ma di rado legati al suo nome. Perché Cheney, vice del giovane presidente Bush e vera guida degli Stati Uniti d’America, ha sempre avuto la stessa capacità di un capo mafioso: apparire il meno possibile e decidere il più possibile, decidere sempre. Decidere il sostegno legislativo e politico alle grandi compagnie petrolifere -della quali è stato anche  amministratore delegato (Halliburton)-; decidere la diminuzione sistematica e consistente della tassazione per i redditi superiori ai 2 milioni di dollari; decidere l’utilizzo di informazioni false per invadere e distruggere l’Iraq, accaparrandosi le sue risorse petrolifere; decidere l’utilizzo della tortura, dopo averla rinominata «interrogatorio rinforzato»; decidere la guerra, decidere la morte, decidere ogni azione a favore del Project for a New American Century.
Tutto questo non da solo, naturalmente, ma circondato da consiglieri, avvocati, militari, manager, spie, imprenditori, avventurieri, psicopatici. Dal potere americano insomma. Ma con la personale capacità di osservare molto, riflettere velocemente, decidere senza guardare alle conseguenze per gli altri ma soltanto ai vantaggi per sé e per il proprio clan. Si tratta di un comportamento in realtà arcaico, che tecnologie belliche e interconnessione planetaria hanno reso portatore di sterminio su grande scala. Ma non importa. Cheney (padre esemplare) risponde così alle due figlie che chiedono se è bene far soffrire pesci e vermicelli: «Nella pesca non ci sono il bene e il male». E questo vale ai suoi occhi per l’intera umanità.
Cheney è sempre stato un appassionato pescatore e infatti i titoli di coda scorrono su immagini di ami e di esche. L’esca più importante che Cheney e il suo staff abbiano inventato è però in questo amaro e travolgente film soltanto accennata. L’esca dell’11 settembre 2001. Vice si apre quasi subito sulle immagini del governo americano e cioè di Cheney -perché Bush era quel giorno lontano dalla capitale, in una scuola, in compagnia di bambini- durante l’attacco alle Torri gemelle [la foto in alto raffigura il vero Cheney]. Durante quei momenti concitati «Cheney vedeva ciò che nessun altro era capace di cogliere in quegli eventi. Vedeva una opportunità». Certo. Ma non era difficile vederla, poiché quella opportunità il governo statunitense l’aveva pensata, progettata e realizzata con la collaborazione dei gruppi islamisti. Da quella opportunità si generarono immensi guadagni per le compagnie petrolifere e per le industrie militari, si generò la «teoria dell’esecutivo unificato», vale a dire la possibilità data al governo di stabilire procedure e praticare azioni senza tener conto degli altri poteri. Da quella opportunità si è generato un formidabile impulso e una giustificazione per l’ampliamento del potere degli USA su tutto il pianeta. A chi fa ancora fatica a credere che il governo degli Stati Uniti abbia davvero ucciso migliaia di propri cittadini, si risponde con una domanda: “Che cosa sono 2996 vittime americane e qualche milione poi di morti stranieri rispetto all’incremento della potenza della Nazione deputata da Dio al bene dell’umanità?”. Perché è di questo che gli americani sono convinti, questa è la lenza che lancia ogni volta di nuovo l’esca.

L’ipocrisia, immensa

Pochi eventi sono più patetici delle lacrime a comando, della commozione indotta dai grandi media. Si piange sui morti, ci si emoziona sul tragico destino di uomini, donne, bambini. Si ascoltano senza reagire, o persino approvandoli, i discorsi dei decisori politici che con le loro azioni, leggi, provvedimenti hanno contribuito a produrre quei morti e quelle tragedie ma che affermano compunti, convinti e indignati: «Mai più!». Poi si ritorna alle proprie faccende, confortati dall’essersi mostrati a se stessi persone sensibili, solidali e -aggettivo che non guasta mai- «democratiche».

Pochi che si chiedano “perché?”. Perché milioni di esseri umani di qualunque età e condizione lascino la terra in cui sono nati, le tradizioni, gli affetti, i familiari. E lo facciano sottoponendosi a spese, illegalità, rischi mortali. Perché? Perché lo fanno?
Le ragioni principali sono due: la miseria e la guerra.

La miseria creata dalle guerre, la guerra generata anche dalla miseria. Ma perché c’è una tale miseria? La ragione principale la espose con chiarezza George Bush jr. quando affermò che «il tenore di vita degli americani non è negoziabile». Gli altri popoli possono anche morire di fame e di stenti ma il tenore di vita degli statunitensi deve rimanere alto e anzi crescere, anche a costo della distruzione ambientale del pianeta. I governanti europei aderiscono alla stessa visione del mondo di Bush (e del suo successore, naturalmente), vale a dire credono che il capitalismo ultraliberista che sta conducendo i popoli alla miseria sia un dato naturale, «non negoziabile». E lo credono e lo ribadiscono anche i governanti italiani, Napolitano e Letta in primis. È quindi del tutto strumentale e finta la richiesta rivolta «all’Europa» di intervenire. “Intervenire” su che cosa? Sui meccanismi finanziari internazionali che producono immensa miseria per molti e immensa ricchezza per pochi? Intervenire sulle decisioni di organismi di diritto privato e da nessuno eletti -come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Centrale Europea, le agenzie di rating- ma che sono diventati i veri padroni dei governi politici, i quali sono ormai dei governi fantoccio? Intervenire sul modo di produzione capitalistico e sulla globalizzazione economico-finanziaria, vere cause della miseria che provoca i morti nelle acque del Mediterraneo?

La guerra infesta molte aree del mondo, tre le quali l’Iraq, la Siria, il Corno d’Africa. Pochi si chiedono chi produca e venda le armi con le quali gli africani si massacrano reciprocamente. Uno dei maggiori centri di produzione è costituito dalle fabbriche in provincia di Brescia. Uno dei maggiori esportatori -legali- è il governo italiano, con alcuni dei suoi ministeri a sostegno delle molte aziende italiane del settore. Se le guerre cessassero, o anche solo diminuissero, le fabbriche europee e italiane di armi rischierebbero di chiudere moltiplicando il numero dei disoccupati. Qual è la posizione dei partiti al governo, dei partiti all’opposizione, dei sindacati, su questa prospettiva? Meglio gli eritrei, i sudanesi, i libici in pace e le fabbriche italiane chiuse o meglio i morti e le fabbriche di armi aperte?

Sino a che decisori politici, mezzi di comunicazione, sindacati e partiti non si porranno queste domande, sino a che non agiranno di conseguenza, ogni lacrima, ogni discorso, ogni slogan, ogni decisione parlamentare saranno espressione della doppiezza, dell’ipocrisia e del cinismo.
Quello stesso cinismo che fa spargere fiumi di retorica sui morti e nello stesso tempo inquisisce i sopravvissuti. Quello stesso cinismo che induce il prefetto di Agrigento a inviare una nave per trasferire le bare da Lampedusa senza neppure avvertire i parenti, che stamattina hanno pianto anche perché non hanno più trovato i resti dei loro cari.
La commozione è soltanto l’altra faccia della ferocia.

 

Crisi

Mi sembra sorprendente ed estremamente positivo che un popolo innamorato del calcio come quello brasiliano stia avendo la forza di denunciare «le spese faraoniche in vista dei Mondiali, a scapito della qualità dei servizi sanitari e educativi, e la gigantesca corruzione, vero buco nero delle risorse statali. […] Negli stadi, incuranti del divieto della Fifa, molti tifosi hanno sostenuto le proteste: “Brasile svegliati, un professore vale più di un Neymar”». Ma anche di questa rivolta, come di quella turca, l’informazione italiana parla il meno possibile. E allora di fronte alla pervicacia istupidente del mainstream mediatico -teso sempre a sopire, troncare, tacere, ingannare– è opportuno ricordare come e perché si sia generato quell’insieme di eventi che vengono definiti «crisi»:

Il punto di partenza della crisi del 2008 è stato, da un lato, la deregolamentazione quasi totale delle prassi dei mercati finanziari e, dall’altro, la comparsa di “paesi emergenti”, a cominciare dalla Cina, che si sono accaparrati una parte crescente della produzione mondiale grazie al dumping salariale. Quella concorrenza, che spiega anche le delocalizzazioni, ha comportato un calo generale dei redditi nei paesi occidentali, calo che i nuclei familiari sono stati incoraggiati a compensare con un indebitamento crescente, che si supponeva potesse permettere di conservare il loro livello di vita. Ovviamente, le cose non sono andate affatto così, e il sistema è crollato quando i mancati pagamenti si sono accumulati. È quel che è accaduto negli Stati Uniti con la crisi dei crediti ipotecari (subprimes). Gli Stati sono stati allora costretti ad indebitarsi a loro volta per impedire al sistema bancario di sprofondare. Il problema dell’indebitamento privato si è così tramutato in problema dell’indebitamento pubblico.
[…]
Le banche, che potranno contrarre presiti all’1% dalla Bce, concederanno presiti al Mes [Meccanismo europeo di stabilità] ad un tasso di interesse nettamente superiore, dopo di che il Mes presterà agli Stati ad un tasso ancor più elevato. […] In ultima analisi, le banche daranno agli Stati, imponendo interessi, del denaro che consentirà a quei medesimi Stati di rimpinguare le casse di quelle stesse banche. Una situazione davvero surrealista, la cui causa prima, come è noto, è la proibizione fatta a partire dal 1973 agli Stati di contrarre prestiti ad interesse minimo o nullo con le loro banche centrali, il che li ha posti sostanzialmente alle dipendenze del settore privato. (Alain De Benoist, Diorama letterario, n. 314,  pp. 8-9)

La natura non soltanto assurda di queste transazioni -assurda per il bene pubblico ma assai sensata per gli interessi dei banchieri- è aggravata dal fatto che essa è stata resa per legge irreversibile, privando in questo modo parlamenti e governi di ogni potere, riducendoli a ornamento della finanza. Ha dunque ragione Gaby Charroux -deputato francese comunista e sindaco di Martigues- a osservare che in questo modo «consegniamo direttamente le chiavi della nostra politica economica e di bilancio ai tecnocrati di Bruxelles e scivoliamo verso […] una forma morbida, giuridicamente corretta, di dittatura finanziaria» (Ivi, p. 11). Con l’ascesa al potere anche politico di impiegati e funzionari della Goldman Sachs ad Atene, a Roma, a Francoforte (Mario Draghi), gli Stati sono diventati evidentemente degli Stati di classe diretti dal capitalismo finanziario: «Le banche, che controllano anche i mezzi di pagamento dei cittadini, hanno preso lo Stato in ostaggio per conto dei loro ricchi azionisti. Lo Stato diventa una macchina per ricattare le popolazioni a beneficio dei più ricchi» (Emmanuel Todd in un’intervista a Le Point, 13.10.2011).
Uscire da una spirale irrazionale e violenta come questa sarebbe possibile se il potere politico fosse altro da quello finanziario e prendesse provvedimenti come i seguenti: applicazione di un protezionismo europeo, nazionalizzazione delle banche, rifiuto di pagare il debito pubblico. Provvedimenti gravi ma praticabili se -appunto- i governi non fossero ormai ridotti alla condizione di impiegati della finanza il cui mandato è di agire contro i loro popoli, cominciando con l’ingannarli. Popoli i quali «non credono più nell’Europa, che confondono a torto con l’Unione europea. Non hanno più fiducia nella polizia […], non hanno più fiducia nei tribunali, che non sanzionano mai i delinquenti in colletto bianco e nemmeno i banditi della finanza di mercato» (de Benoist, Diorama letterario, n. 214, p. 23).
Anche le operazioni di killeraggio internazionale sono mosse dagli stessi scopi speculativi e di controllo delle risorse, come accaduto in Libia, con i massacri perpetrati da Sarkozy e Obama, «assassinando il capo dello Stato libico Muammar Gheddafi e la sua famiglia, inclusi i bambini piccoli»; come accaduto  in Iraq, dove le potenze anglosassoni e i loro servi italici hanno causato «due milioni di morti, affamato intere popolazioni, distrutto un paese unificato, allora il più evoluto industrialmente, socialmente ed economicamente della regione, averlo consegnato alla guerra civile, agli scontri tribali o religiosi, alla persecuzione delle minoranze come quella cristiana e agli attentati omicidi quotidiani. Del resto, George W. Bush non aveva dichiarato di voler riportare l’Iraq all’età della pietra?» (Maurice Cury, ivi, p. 24). La stessa operazione si sta ferocemente tentando contro il popolo siriano.

 

Obama

Nel suo blog su Repubblica Alexander Stille parla di Una non-notizia importante: il mancato adeguamento della tassazione degli enormi profitti ottenuti dai «manager dei venticinque hedge funds di maggiore successo», i quali «hanno guadagnato un totale di 14 miliardi di dollari (circa 11 miliardi di euro), cioè più del PIL di un paese piccolo ma benestante come l’Islanda. Quindi quasi tutti i manager di questo gruppo hanno guadagnato oltre mille milioni di euro in un anno e hanno pagato meno della metà del normale livello di tassazione!»
Anche questo è la democrazia statunitense (oltre che fucili, stragi e fanatismo). E Barack Obama conferma di essere ciò che ho pensato di lui sin dall’inizio: un po’ di cosmetico su un volto disfatto, un uomo di paglia messo lì per ridare credito agli USA dopo i catastrofici otto anni di Bush figlio. L’assegnazione del Nobel per la pace a un politico che continua a finanziare due guerre illegittime e feroci è stata una decisione semplicemente grottesca.

Vai alla barra degli strumenti