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Etoantropologia

Martedì 18.2.2020 alle 14,30 nella Sala Lauree dell’Università Statale di Milano (Via Festa del Perdono 7) terrò una lezione sull’animalità.
L’incontro fa parte di un ciclo dal titolo La disobbedienza civile nel ‘900: seminari di approfondimento, a cura del Prof. Gianfranco Mormino, docente, tra l’altro, di Human – animal studies.
Cercherò di mettere in discussione le teorie e le pratiche assai violente che guidano la relazione umano-animale a partire dal radicale antropocentrismo abramitico, ben testimoniato dalle parole che Yahweh (הְוֶה) rivolge a Noè all’uscita dall’arca: «Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere. Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo» (Genesi, 9, 2–3; trad. La Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane 1988, p. 50).
Difenderò invece un paradigma etoantropologico per il quale la differenza tra il nostro mondo e quello degli altri animali è fenomenica e non ontologica. Un’ipotesi che si fonda sull’ibridazione dell’antroposfera sia con la zoosfera sia con la tecnosfera e quindi sul superamento del paradigma vitruviano –la perfetta figura umana dentro un chiuso cerchio– a favore di una pratica antropodecentrica e postumana. Nella ζωή non si danno gerarchie ma specializzazioni relative ai contesti, non si danno distanze qualitative ma contiguità e differenze tra le diverse specie, umani compresi.
Due dei possibili riferimenti sono l’etologia di Lorenz e la Teoria critica della Scuola di Francoforte:

«Con troppa facilità gli uomini si considerano il centro dell’universo, qualcosa di estraneo e di superiore alla natura. Questo atteggiamento deriva da una sorta di orgoglio che ci preclude quella forma di riflessione su noi stessi di cui oggi avremmo tanto bisogno. Le grandi scoperte delle scienze naturali inducono l’uomo a un senso di umiltà: proprio per questo vengono a volte avversate»
(Konrad Lorenz, Natura e destino [Das Wirkungsgefüge der Natur und das Schicksal des Menschen, 1978], Mondadori 1990, p. 42)

«Il materialismo, che non è viziato da simile abuso ideologico dell’anima, ha un concetto più universale e più realistico della salvezza. Esso riconosce la realtà dell’Inferno in un unico luogo, qui sulla terra, e afferma che questo Inferno è stato creato dall’uomo (e dalla Natura). Fa parte di esso il maltrattamento degli animali -opera di una società umana la cui razionalità è ancora l’irrazionale»
(Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata [One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, 1964], Einaudi 1991, p. 247).

[Photo by Kelly Sikkema on Unsplash]

La bellezza del molteplice

Che cos’è la vita umana? Che cos’è la vita in generale? È una parte della materia universale che acquisisce caratteristiche di metabolismo, omeostasi, percezione, reazione. E affinché tali funzioni possano essere utili all’organismo vivente è necessario non spezzare la continuità tra la materia organica -che tali funzioni possiede in vari gradi- e la materia inorganica. Ritenere che una piccola parte della materia organica -l’animale umano- abbia dei privilegi ontologici ed etici significa ignorare l’essenziale, ignorare il limite. Ignoranza che si esprime in modo completo nei monoteismi abramitici, i quali ritengono che un Dio persona, e quindi totalmente antropomorfico, sia ontologicamente separato dalla materia, l’abbia prodotta per un inspiegabile -vista l’autonomia del Dio- atto di volontà e abbia posto uno dei suoi elementi come padrone e signore di tutto il cosmo, vale a dire di ciò su cui nessuna parte del pianeta Terra può minimamente influire.
L’implausibilità e l’ingenuità di simili concezioni risultano evidenti a chiunque abbia un minimo di oggettività teoretica; è altrettanto evidente il narcisismo umano che tali concezioni ha generato e continua a tenere in piedi.
Molto diverse sono le prospettive animistiche, politeistiche, panteistiche. Esse infatti, pur partendo sempre e inevitabilmente dalla prospettiva umana, cercano di cogliere con maggiore misura ed esprimere con più equilibrio la struttura olistica che intrama tutti gli enti e li rende reciprocamente dipendenti. Ciò che Diego Infante afferma del buddismo vale infatti per l’animismo, il paganesimo mediterraneo, l’induismo: la consapevolezza della «impermanenza di tutte le cose, la loro caducità e fragilità, il loro perire e ritornare alla natura» (Diego Infante, La ragione degli dèi. La bellezza del molteplice e la dittatura dell’unico, italic & pequod 2015, p. 116).

infanteL’originale nucleo di questo libro consiste pertanto non nella contrapposizione ma nel convergere di razionalismo europeo e spiritualità orientale «in una prospettiva di superamento della scissione dualistica soggetto-oggetto, o almeno di una sua limitazione ad opera dell’antica phronesis dei Greci, in modo da contenere quell’eccesso di individualità che si esprime nel delirio narcisistico del proprio ego, ormai sempre più smisurato e illimitato» (98). In maniera assai chiara vi si afferma infatti che «l’unico modo oggi per tornare ad approcciarsi al sacro è passare attraverso la ragione» (8) e che bisogna «invertire decisamente la rotta verso una prospettiva maggiormente olistica, valida e necessaria anche alla luce, piaccia o no, degli imprenscindibili e intramontabili lumi della ragione» (18).
La fecondità filosofica dei politeismi consiste anche e soprattutto nella loro capacità di coniugare il molteplice degli enti -compresi gli enti divini- con il monismo olistico, nel porre a fondamento di tutto una Identità plurale permeata della ricchezza della Differenza. Dualismi, idealismi, materialismi vengono così oltrepassati perché l’essere non è il due di soggetto/oggetto, non è l’uno separato dall’intero ma è l’uno molteplice che accoglie in sé l’energia, la massa, la vita, il pensiero, il sacro.
Questo è lo spirito naturaliter religioso della specie umana. Esso si è espresso per millenni nelle forme  rituali, dottrinarie, cultuali più diverse. Su di esso si è poi innestato con forza dirompente e di fatto distruttiva il principio abramitico dell’esclusione, del primato di una forma religiosa su tutte le altre. «È solo con il monoteismo abramitico che si spezzano del tutto i rapporti tra l’uomo e il cosmo» (25). Bibbia e Corano costituiscono dunque la radice della desacralizzazione del mondo e della sua distruzione per opera di una parte che si è proclamata signora e padrona del mondo, immagine dell’unico Dio. Ebraismo, cristianesimo e islam sono intrinsecamente totalitari -la loro storia lo dimostra ampiamente- proprio perché partono dalla «riduzione del molteplice alla dittatura dell’unico» (30). Ne conseguono gli elementi comportamentali tipici di ogni gerarchizzazione totalistica, di «un approccio aggressivo, maschilista, dogmatico, omofobo e sessuofobico» (97).
Vi è un’enorme distanza tra l’ossessione sessuofobica cristiana (oggi temperata) e islamica (tuttora violentissima verso le donne e il piacere) e i templi di Khajuraho, nei quali eros e gioia vedono il loro trionfo nella pietra. «Shiva […] non è infatti raffigurato esclusivamente da un’immagine antropomorfica: oggetto delle offerte dei fedeli, nella parte più interna e sacra del tempio, è la forma aniconica di Shiva, ovvero una pietra fallica (linga), spesso inserita in un’altra di forma tondeggiante, simbolo della vagina femminile (yoni), che insieme vanno a costituire un Tutto dove i due principi, maschile e femminile, complementari e interdipendenti, rappresentano la fonte della vita» (107).
Anche per tali ragioni mi sembra contraddittorio l’uso polemico che in questo libro si fa di categorie come materia e animalità. Nel primo caso si può capire che l’obiettivo critico è il ‘materialismo consumistico’ che dall’Occidente invade il mondo e distrugge culture. Il secondo, invece, rimane incomprensibile, soprattutto quando si parla di riduzione dell’uomo «alla sua componente animalesca e istintuale» (55). Animalità e umanità non sono due strutture contrapposte ma costituiscono espressioni diverse della stessa sostanza.
Assai più convincente è il discorso quando si paragona l’angoscia bulimica e la devastazione ambientale degli attuali padroni del mondo -gli Stati Uniti d’America, permeati di calvinismo- all’equilibrio individuale e collettivo che caratterizza l’esistenza di popoli come i Sami (in Scandinavia) e i Kalash (in Pakistan), i quali hanno conservato sino a oggi forme, costumi, credenze pagane e vivono quindi in equilibrio con le risorse naturali e con l’alterità non antropica. Tra queste comunità «l’ego individuale si dissolve nel Tutto organico delle forze cosmiche primordiali in continuo divenire» (129). Gli USA, invece, sono nati da un «consumo indiscriminato del territorio lasciato in condizioni di verginità dai nativi e distrutto man mano sotto i colpi delle accette a partire dai primi coloni puritani. Essi intendevano eliminare il ritmo ancestrale e dionisiaco della foresta, che nella loro accezione costituiva l’istintualità e la barbarie contro cui si scagliavano, forti di una rivelazione divina da esportare in nome del bieco utilitarismo antropocentrico della sua morale» (51).
La proposta culturale e politica che emerge da questa ricerca è dunque condivisibile e certamente anticonformista rispetto agli schemi geopolitici ossessivamente ribaditi dal mainstream mediatico. È infatti «necessario riposizionare il baricentro culturale altrove, al di là dell’Atlantico, e precisamente tra un’Europa razionalistica e un oriente spirituale, complementari e interdipendenti» (54).

Jahvé

Il manifesto del 1 agosto 2015 ci informa di come dei coloni ebrei abbiano dato fuoco a una casa palestinese in Cisgiordania. Un bambino di 18 mesi è morto bruciato vivo. I genitori e un fratello di 4 anni sono ricoverati in ospedale.
Ali Dawabsheh è stato bruciato vivo a 18 mesi di vita. Eretz Yisrael, il Grande Israele promesso da Jahvé il maledetto ai suoi fanatici credenti, continua a mietere vittime in modo atroce. Con questa fede, nata nei deserti del Vicino Oriente, si è generato il culto dell’Uno contro la gloria della Differenza, si è generato il monoteismo più intransigente contro l’apertura pagana alla molteplicità degli dèi. Dall’ebraismo sono scaturiti il cristianesimo e l’islam, le tre forme della più radicale violenza che la storia mediterranea abbia conosciuto.
Céline ha ragione: «Bibbia il libro più letto del mondo…più porco, più razzista, più sadico che venti secoli di arene, Bisanzio e Petiot mescolati! …di quei razzismi, fricassee, genocidi, macellerie dei vinti che le nostre più peggio granguignolate vengono pallide e rosa sporco in confronto» (Rigodon, Einaudi 2007, p. 14).

Sul Dio abramitico

Mente & cervello 123  – marzo 2015

 

«Violento, arrogante, intollerante con i nemici, benevolo solo se blandito con offerte e atti di sottomissione. Non è il ritratto di un bullo di quartiere ma di un dio, anzi del Dio onorato dalle religioni del Libro, ebraismo, cristianesimo e islam» (P.E.Cicerone, p. 26). È quanto emerge dall’analisi del monoteismo condotta da Hector A. Garcia nel suo libro Alpha God. The Psychology of religious violence and oppression (Prometheus Books, 2015, pp. 287).
E in effetti basta leggere la Bibbia, leggerla davvero per ciò che vi è scritto e non tramite filtri allegorici o pregiudizi di fede, per comprendere che il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è un Dio violento: «Lo scrittore Steve Wells si è preso la briga di contare quante sono le persone uccise da Dio durante tutta la narrazione e si arriva alla cifra di 24 milioni. Per avere un riferimento, le persone uccise da Satana nella stessa narrazione sono 60» (Garcia, p. 27); Hitler e Stalin messi insieme non arrivano a un tale successo.
Il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è un Dio che ama l’ignoranza: «Una delle mistificazioni trasmesse dalla fede è l’idea che la conoscenza sia un peccato: le religioni tendono a sopprimere la cultura, il pensiero critico» (30).
Il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è un Dio vanitoso (e antispinoziano): «In effetti è curioso pensare che un essere morale e onnipotente richieda rispetto: il rispetto è una conferma del proprio potere, di cui potrebbe avere bisogno un maschio dominante. Ed è uno dei modi con cui è gestito il potere nelle gerarchie maschili, perché implica che la posizione dominante possa essere assunta da qualcun altro, e che sia necessario impegnarsi per mantenerla» (29).
Il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è un Dio inquinante e nemico della Natura: «In una religione di questo tipo l’uomo è visto come colui che deve dominare le altre forme di vita piuttosto che instaurare con esse un rapporto egualitario» (31).
Il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è quindi un Dio maschio alfa, «e quando nella religione si fa strada la psicologia del maschio dominante, combattere la violenza diventa impossibile. Come si fa a contrastare la volontà dell’essere più potente dell’universo? Come si esprime il dissenso, quando andare contro il volere di dio è considerato blasfemia?» (28). Bisogna ricordare che il comandamento mosaico del ‘Non uccidere’ si riferisce «ai membri della tribù, della comunità, non all’umanità in generale»; e infatti «la Bibbia è piena di stragi, rapimenti, stupri. Nel Nuovo Testamento la violenza è meno presente, ma accanto agli inviti alla mitezza non mancano minacce contro i non credenti. […] D’altronde la Chiesa ha sempre combattuto  e sterminato popolazioni in nome di Dio. Pensiamo a quello che è avvenuto in Sud America con i conquistadores» (28-29). Stragi, genocidi, guerre, torture non costituiscono comportamenti ‘da deboli peccatori’ ma rappresentano il modo più coerente di essere ebrei, cristiani e musulmani.
Anche le religioni animistiche e politeistiche presentano alcuni caratteri violenti ma essi sono del tutto incommensurabili con ciò che ebraismo, cristianesimo e islam hanno generato: «Le religioni più antiche sono state religioni politeistiche con divinità di entrambi i sessi, spesso ispirate a fenomeni naturali. Più avanti l’organizzazione delle società è diventata più complessa, i sistemi di potere hanno sentito l’esigenza di tutelarsi, e così in Medio Oriente è nato il monoteismo, da cui poi si sono evolute le religioni abramitiche» (26-27).
Capisco che leggere simili affermazioni può risultare disturbante ma è dalla Bibbia che scaturisce l’abominio. Bisogna comunque riconoscere che se tutto questo è stato ed è ancora possibile è anche perché «la religione, in particolare le sue tendenze oppressive, è radicata nel nostro passato evolutivo profondo» (27). Forse possiamo difenderci dalle più disastrose conseguenze di tale eredità filogenetica, dalla demenza monoteistica, con gli stessi strumenti con i quali è possibile difenderci dall’Alzheimer: «La lettura, l’apprendimento e il gioco accrescono la cosiddetta riserva cognitiva, che permette di rallentare il declino cognitivo e il rischio di demenza. D’altra parte la pratica di un’attività fisica regolare favorisce la liberazione di molecole dette neurotrofine e la produzione di nuovi neuroni -o neurogenesi- che contribuiscono allo sviluppo di questa riserva cognitiva» (L.Buée, 78-79).
M&C_123_marzo_2015I giovani europei che lasciano le loro vite per entrare nell’ISIS o in analoghe organizzazioni -come Boko Haram allo scopo di imporre mediante lo sterminio delle esistenze altrui la verità secondo cui «Allah è l’unico Dio e Maometto è il suo profeta»; allo scopo di distruggere i resti di millenni di civiltà politeistiche e animistiche; allo scopo di rinunciare per sempre alla libertà del corpomente; tali giovani avrebbero tutto da guadagnare da qualche conoscenza filosofica e storica in più, da qualche esercizio fisico nello spazio libero della natura. Quello spazio che il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani contrae sino alla propria piccola persona.

Tenebre

Timbuktu
di Abderrahmane Sissako
Francia-Mauritania, 2014
Con: Ibrahim Ahmed (Kidane), Toulou Kiki (Satima)
Trailer del film

Un villaggio nel deserto del Mali. Pastori, nomadi, piccoli mercanti che scambiano ciò che possiedono, pescatori. Il Sole e il silenzio. Il canto e gli affetti. Sino a che non arrivano i militanti del Jihād , della Guerra Santa, a imporre i loro divieti, i loro matrimoni forzati, le loro frustate, i loro tribunali, la loro inquisizione. È proibito fare musica. È proibito alle donne farsi vedere senza velo e senza guanti, anche quando devono pulire il pesce al mercato. È proibito fumare. È proibito stare sulla porta di casa. È proibito giocare al calcio. Ma i ragazzini si inventano una partita di pallone senza il pallone. Nelle case qualcuno continua a suonare. Una donna e sua madre rifiutano il matrimonio con uno dei militanti. Vengono tutti puniti con decine di frustate sulla pubblica piazza. Seguendo la legge mosaico-maomettana -«Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno esser messi a morte», (Levitico, cap. 20, versetto 10)- un uomo e una donna vengono seppelliti sino alla testa nella sabbia e colpiti dalle pietre dei militanti. Anche Kidane subisce la Shariʿah, la Santa Legge. Pastore tranquillo, innamorato della moglie, protettivo nei confronti dell’unica figlia dodicenne, a Kidane viene uccisa una mucca. Nel litigio che segue parte un colpo di pistola, il suo avversario muore, il tribunale lo condanna alla pena capitale. A Kidane non fa paura morire ma lasciare senza protezione la figlia e la moglie. Nel mezzo di questo buio, la luce di una donna folle che parla ai galli; la gentilezza di un traduttore; la calma dell’imam del villaggio; la ribellione di un motociclista.
Timbuktu è opera elegante nella forma, bellissima nei paesaggi, profonda negli sguardi, silenziosa nelle notti. Un film che con lievità sa narrare l’orrore. Sa narrare la tenebra che pensavamo di aver superato e che invece ritorna nel culto per i libri maledetti -Bibbia, Corano- e per le loro atrocità. Timbuktu comincia con degli uomini che uccidono una gazzella e sparano contro gli «idoli», contro delle belle sculture animistiche. Quei libri antropocentrici disprezzano la natura e cancellano le culture che non si sottomettono all’Uno.

Bresson / Schopenhauer

Au hasard Balthazar
di Robert Bresson
Francia-Svezia, 1966
Con: Anne Wiazemsky (Marie), François Lafarge (Gerard), Walter Green (Jacques), Philippe Asselin (Padre di Marie), Nathalie Joyaut (Madre di Marie)

Battezzato con il nome di Balthazar dai suoi padroncini, un asino attraversa la vita in un borgo e nelle campagne francesi. Il suo occhio oggettivo assiste alle azioni degli umani, alla loro violenza,  insensatezza, malvagità. Al loro pianto e alle loro menzogne. Caricato di pesi, ridicolizzato in un circo, oberato di lavoro, frustato e preso a calci, utilizzato per il contrabbando, si spegnerà in un mattino di luce, circondato da un gregge. Il legame più costante di Balthazar è con Marie, una ragazza altrettanto sola e perduta, e con Arnold, un ubriaco che lo picchia e che qualche volta lo protegge.
Ciò che segna questo capolavoro è l’assoluta sobrietà dello sguardo cinematografico, l’oggettività degli eventi -come un piano inclinato, come una legge della materia che va da sé, senza volontà di alcuno-, la sapienza del montaggio capace di trasformare in pensiero un qualunque fotogramma. Il mondo degli esseri umani vi viene descritto per quello che è, per quello che è sempre stato, per quello che sempre sarà: un mondo perduto.
E soprattutto vi appare la distanza e la vicinanza tra l’umano e l’altro animale. Distanza nell’essere l’altro animale libero dal male libero dal bene. Vicinanza nella sciagura che per l’animale rappresenta l’incontro con l’umano.
Proiettato qualche giorno fa al Centro San Fedele di Milano, al film è seguita l’analisi di un filosofo cattolico. Il quale ha accentuato la simbologia cristologica dell’asino -certamente presente in Bresson- ma che ha quasi con disprezzo respinto la dimensione anche animalistica dell’opera. Non c’è niente da fare, ha ragione Schopenhauer:

Si guardino invece le atrocità inaudite che nei paesi cristiani la massa commette contro gli animali, ammazzandoli, ridendo e spesso senza nessuno scopo, mutilandoli e torturandoli, e perfino quando si tratti di animali che direttamente procurano il pane all’uomo, come i cavalli, che anche in vecchiaia vengono strapazzati fino all’estremo delle forze, perché si cerca di tirare l’ultimo midollo dalle loro povere ossa, finché non crollano sotto le bastonate del padrone. In verità verrebbe da dire che gli esseri umani sono i diavoli sulla terra e le bestie le anime torturate. Queste sono le conseguenze di quella ‘scena di insediamento’ nel giardino del paradiso. Infatti soltanto la violenza o la religione possono avere influenza sul volgo: ma per quello che riguarda gli animali il cristianesimo ci pianta vergognosamente in asso. […] Non già pietà, ma giustizia si deve all’animale.
(Parerga e Paralipomena tomo II, a cura di G. Colli, Adelphi 1981, pp. 488-489)

Queste parole potrebbero ben costituire una summa di Au hasard Balthazar. Le ragioni del vero e proprio accanimento teoretico e pratico del cristianesimo e della sua teologia contro la Natura, e in particolare contro il mondo animale, sono chiare. Esse affondano nell’antropocentrismo biblico, in una cosmologia che fa dell’essere umano il senso e il padrone dell’universo, in una teologia convinta che persino il Dio si sia fatto uomo e sia morto per la nostra specie, in una escatologia che riserva a tutto ciò che non è umano un solo destino: la nientificazione. Sono altri i miti e le religioni che possono aiutarci a riconoscere nello sguardo dell’animale, nell’occhio di Balthazar, un’alterità senza la quale è l’umano a essere niente.

«que plus rien existe…»

Rigodon
di Louis-Ferdinand Céline
(1961)
Traduzione di Giuseppe Guglielmi
Introduzione di Massimo Raffaeli
Terzo volume della Trilogia del Nord
Einaudi, Torino 2007
Pagine XIV-271

rigodonCéline, la moglie Lili, il gatto Bébert attraversano nella primavera del 1945 l’Europa in guerra, sondano le rovine, si immergono nella «Germania in furia nichilista» (pag. 61), con le sue città in fiamme, colpite dalle bombe al fosforo lanciate sempre dalle stesse potenze, ad Amburgo allora come nel Vicino Oriente oggi, scagliate da «gente ricca…ricca senza fondo…uuuh! …che questo li diverte…e che illuminazione!» (142), come a «Hannover…dei fuochi di resti di case…bisogna avere visto…ogni casa giusto nel mezzo…tra ciò che erano i suoi quattro muri, una fiamma che ruota, gialla…viola…turbina…fugge!…alle nuvole!… danza … scompare… riprende… l’anima di ogni casa…una farandola di colori, dalla prime macerie a tutto là in fondo…» (136). Un mondo finito, dove «c’è mica speranza, disgraziati!» (6) ma la speranza è la scrittura, è saper guardare e dire senza esitazioni e consolazioni tutto l’orrore delle cose. L’orrore dell’uomo che è «un degenerato un mostro tra gli altri, che per fortuna si riproduce sempre più di rado» (186), l’orrore del Cosmo, che è anch’esso menzogna, è la bugia delle «stelle che brillano, miliardi pieno il firmamento, falsarie…che sono morte da miliardi di anni! …evaporate!» (96).
E in questa menzogna universale che è l’esserci, rimangono soltanto due elementi nella loro potenza primigenia e costante: «Solo la biologia esiste, il resto è blablà…» (109), solo la forza della vita che vuole vivere ancora, cieca e insensata, l’energia dei corpi che pur affamati malati stanchi storpiati feriti si trascinano per regioni e città, alla ricerca di una salvezza purchessia; l’altro elemento è la scrittura, è la petite musique, è lo stile sincopato, estremo, vivo, jazzistico, con i suoi «tre puntini…da farmi perdonare» (171), con il rifiuto del «“solido buon senso”» anche nella scrittura, poiché esso è «la morte del ritmo!» (269), con la certezza visionaria e insieme lucida di essere «pieno di stile […] che li renderò tutti illeggibili! …tutti gli altri! […] l’epoca è mia! io sono il benedetto delle Lettere!» (181). Uno stile che somiglia, appunto, al rigodon, la danza arcaica, immobile e tuttavia frenetica nel suo «delirio di immobilità» (M. Raffaeli, pag. VIII), «…il ballo al bersaglio, il rigodon che è tutto! per la madonna che si salta!» (268).
Questo stile si scaglia contro coloro che andranno a occupare le terre di Palestina, «tutti così perseguitati, ansanti, eroi del lavoro e del dissodamento, della falce, della banca e del martello…» (255); contro le masse e i politicanti sempre pronti a correre in soccorso del vincitore, come disse una volta Flaiano: «Ci fosse stato qui per esempio l’Hitler a vincere, c’è mancato un pelo, vedreste ve lo dico io l’ora attuale, che sarebbero tutti per lui…a chi che avrebbe impiccato il più di ebrei, chi che sarebbe stato il più nazi…tirato fuori l’entragna a Churchill, portato in giro il cuore strappato a Roosevelt, fatto il più di tutti l’amore con Goering…» (268); contro una delle più radicali espressioni della spietatezza e dell’intolleranza: «Bibbia il libro più letto del mondo…più porco, più razzista, più sadico che venti secoli di arene, Bisanzio e Petiot mescolati! …di quei razzismi, fricassee, genocidi, macellerie dei vinti che le nostre più peggio granguignolate vengono pallide e rosa sporco in confronto» (14). Tutto questo è frutto dell’umano. E perciò il libro ha una splendida dedica «Agli animali».
Ancora una volta -e sino all’ultima parola che chiude il romanzo e la vita di Céline- questa lingua feroce e dolente è una «luce così cruda così violenta quasi da straziare le facce…» (183), una luce assoluta, «di quelle profondità spumose che più niente esiste…» (271).

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