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Una decadenza

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Minetti. Ritratto di un artista da vecchio
di Thomas Bernhard
traduzione di Umberto Gandini
con Glauco Mauri
e con Stefania Micheli, Federico Brugnone, Danilo Capezzani, Francesca Trianni, Pietro Bovi, Giuliano Bruzzese
regia Andrea Baracco
produzione Compagnia Mauri Sturno

Bernhard Minetti è stato l’attore più amato dal drammaturgo Thomas Bernhard (1931-1989) che al suo amico  dedicò un testo teatrale e teoretico di grande interesse.
Minetti. Ritratto di un artista da vecchio raffigura infatti un attore che porta questo nome, il quale ormai molto anziano arriva la sera di Capodanno in un albergo dove ha appuntamento con un direttore di teatro che gli ha chiesto di portare ancora una volta in scena il King Lear di Shakespeare. È questa l’unica opera che Minetti salva dal naufragio della cultura classica, che personalmente detesta, tanto da essersi ritirato dalle scene per non dover interpretare le parole di un mondo al quale non crede più. In verità Minetti non spiega le ragioni di questo rifiuto. Piuttosto in un lungo monologo, al quale prestano ascolto due giovani signore e un impiegato dell’albergo, parla delle città, dei teatri, del pubblico. Tutti elementi verso i quali nutre un astio profondo e insieme un’evidente nostalgia.
Nella messa in scena di Andrea Baracco mentre l’attore parla appaiono figure deformi, dei giovani con le maschere, spettri di un mondo in rovina. Minetti fa continuo riferimento a una maschera di King Lear appositamente preparata per lui trent’anni prima da un grande scultore. Quando le luci della festa e della vita si spengono, l’attore indossa ancora una volta la maschera mentre la scena e la sua finzione vengono disvelate al pubblico.
Glauco Mauri, attore di 92 anni, è capace di ricordare e interpretare l‘intero monologo con i tempi e le pause giuste. La regia è onirica e inquietante e viene così spiegata da Andrea Baracco:
«La scena su cui si aprono le pagine o si levano i sipari di Bernhard è quella del day after: l’esplosione è già avvenuta, è ormai lontana. Il mondo, intatto solo in apparenza, è scardinato in profondità. Follia, gelo, malattia e devastazione: ruota come impazzito seguendo un’orbita indecifrabile e assurda. Il superstite, con facoltà di parola, si pone di fronte a questo caos, a questo perturbamento: tenta di decifrarlo, di contrapporglisi, persegue questo scopo con folle determinazione, pur essendo conscio che porterà soltanto alla dissoluzione fisica e mentale.
L’unica possibilità di sopravvivenza sembra essere, allora la ricerca della perfezione in campi che fino a poco tempo fa erano il luogo della bellezza, del senso: il teatro, la musica, la letteratura, la filosofia» (Programma di sala, p. 4).
In verità Minetti e Bernhard non sembrano cercare la perfezione della conoscenza e dell’arte ma, al contrario, prendere atto di quello che mi sembra un nichilistico rifiuto della parola e della bellezza proprio mentre la parola fluisce un poco ovvia e in ogni caso risentita verso la storia e l’umano.
Il testo è alla fine una metafora dell’inevitabile, del morire. Metafora del tramonto di una vita che non sa perché è stata, quale sia il senso. Il senso non dell’esistenza di Minetti ma di tutti.

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