Piccolo Teatro Strehler – Milano
Giulio Cesare
di William Shakespeare
traduzione Agostino Lombardo
ideazione e progetto scenico Marco Rossi e Carmelo Rifici
luci A.J. Weissbard
costumi Margherita Baldoni
musiche Daniele D’Angelo
adattamento drammaturgico Renato Gabrielli
con: Massimo De Francovich (Giulio Cesare), Marco Foschi (Bruto), Sergio Leone (Cassio), Danilo Nigrelli (Antonio), Federica Rosellini (Porzia), Giorgia Senesi (Calpurnia), Marco Balbi (Cicerone), Max Speziani (Indovino)
regia Carmelo Rifici
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Sino al 6 maggio 2012
Niente toghe, niente templi e colonne, niente piazze. Solo l’essenza del potere. Rome is a room. Questo spettacolo traduce alla lettera l’intraducibile gioco di parole con il quale Shakespeare definisce la struttura chiusa del potere, penetra nella sua dimensione costantemente cospiratrice, segreta, onirica («Now is it Rome indeed and room enough, / When there is in it but one only man», atto I, seconda scena).
La regia di Carmelo Rifici dà grande risalto ai sogni, ai presagi, alla magia. Si comincia con l’indovino che enuncia monconi di frasi, di visioni, di paure e intorno al quale -improvvise- si accendono delle fiamme. Gli incubi di Calpurnia, moglie di Cesare, sono contemporanei all‘insonnia di Bruto e di Porzia. E il terrore della notte si scatena in tempeste, allucinazioni, squarci.
Ma è un sogno, questo, che si intreccia con il razionalistico piano inclinato dell’ambizione che tutti afferra e che si esprime nella elegantissima retorica dei discorsi di Bruto e di Antonio. Il primo tiene la sua conferenza stampa dopo l’assassinio di Cesare, argomentandone la necessità e i vantaggi per l’intera Roma; il secondo parla in un obitorio, con il popolo romano seduto in poltrona nelle proprie case -come fosse davanti allo schermo televisivo-, pronto a trasformare il sostegno ai cesaricidi in impulso di vendetta contro di loro, mano a mano che il raffinato eloquio di Antonio trasforma Bruto e Cassio da “uomini d’onore” in volgari traditori e assassini, rosi dall’ambizione assai più di quanto lo sia stato Cesare.
La scena si volge poi a descrivere i congiurati e i loro nemici nelle stanze degli stati maggiori, a stabilire tattiche belliche, a impartire ordini, a ricevere dispacci, a esultare per la vittoria o a prendere atto del fallimento. Tutti, comunque, burattini in mano alla volontà di potere, guidati da passioni mascherate dietro parole come “libertà, onore, popolo, giustizia”, trasparenti e inutili maschere razionalizzanti.
Nella lettura e nella messinscena di Rifici, Cesare «intuisce la fine e decide di consegnarsi alla morte, innescando lui stesso i conflitti perché l’azione possa precipitare velocemente» (Programma di sala, p. 8); Antonio utilizza il linguaggio come la più potente arma atta a condurlo al suo vero obiettivo: il potere; il popolo è pronto a seguire l’ultimo che parla; una geometrica freddezza intesse il dipanarsi degli eventi con il loro inevitabile esito, la morte.
«Cowards die many times before their deaths;
The valiant never taste of death but once.
Of all the wonders that I yet have heard
It seems to me most strange that men should fear;
Seeing that death, a necessary end,
Will come when it will come».
[I vigliacchi muoiono tante volte prima della loro morte: il coraggioso non assapora la morte che una volta sola. Di tanti prodigi che ho sentito il più singolare a me sembra che un uomo possa averne paura. La morte è una necessaria conclusione: verrà quando verrà» (atto II, seconda scena)]
Sono le parole con le quali Cesare risponde alle paure di Calpurnia. Parole come queste, la loro bellezza, danno ragione a Canetti quando afferma che a contrastare l’aculeo del potere non serve altro potere ma la filosofia, l’arte, il linguaggio: «Così i morti si offrono come il più nobile nutrimento ai vivi. La loro immortalità torna a vantaggio dei vivi: grazie a questo capovolgimento del sacrificio dei morti, tutto prospera. La sopravvivenza ha perduto il suo aculeo e il regno dell’inimicizia è alla fine» (Massa e potere, Adelphi, p. 336).