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Finale di cortile

Zō. Centro culture contemporanee – Catania
Il cortile
di Spiro Scimone
con Spiro Scimone, Francesco Sframeli, Gianluca Cesale
scene e costumi di Titina Maselli
regia di Valerio Binasco
produzione Compagnia Scimone Sframeli

Dialoghi ripetuti e sempre uguali. Peppe chiama Tano, gli chiede di sistemargli la coperta sui piedi, dargli il bastone, un poco d’acqua, da mangiare. Che lo aiuti a urinare. Che lo faccia salire in alto con un argano, che uccida il topo che una volta gli faceva compagnia ma che ora gli mangia i piedi, che lo porti in cortile. E ogni volta gli chiede se tutto questo è la prima volta che lo fa. Alla risposta negativa di Tano, osserva «Te lo chiedo perché lo fai con amore, perché lo fai con piacere, perché lo fai con mestiere». Da un qualche angolo di un ambiente insieme tecnologico e macilento, un mondo di rovine, si sente anche la voce di Uno, che poco dopo compare. Appare a chiedere anche lui del cibo, a supplicare di aiutarlo a fare pena, sempre più pena. Uno striscia come un verme verso di loro e parla di quando aveva un lavoro, della moglie che lo aspetta immobile, delle dentiere che la gente butta e lui raccoglie, che la gente butta perché non c’è più nulla da mangiare.
Sembra di assistere alla continuazione, a una qualche continuazione, di Finale di partita con Hamm, Clov e gli altri pochi personaggi stralunati, miserabili e viventi nell’altrove, abitanti l’estraneità radicale di parole che quanto più sembrano esatte e rivolte a indicare oggetti e atti assai precisi, tanto più risultano bislacche e quasi incomprensibili. L’estraneità di un mondo dal quale è evaporata l’energia. Ne è rimasta solo la quantità necessaria e sufficiente a proseguire un respiro ormai insensato. L’estraneità alla luce, chiusi in un cortile dentro il quale la malinconia stende il suo sudario.
I corpi di Sframeli e Scimone, lo strisciare di Cesale, i gesti di tutti, colmi e insieme vuoti, costruiscono un abisso, descrivono l’infondato.

Dea del Tempo

Ho messo a disposizione su Dropbox il file audio (ascoltabile e scaricabile sui propri dispositivi) della terza lezione dedicata a Proust, da me svolta al Disum di Catania il 20 aprile 2018.
Aggiungo qui le diapositive che ho utilizzato in questa occasione. Scorrendo le immagini/testo e ascoltando l’audio, spero si possa cogliere la potenza della scrittura di Marcel Proust, della sua arte, della dimensione cosmogonica e sacra delle parole che raccontano l’illusione suprema che sempre ci spinge verso l’Altro. L’oggetto amato è figura del Dio, in lui cerchiamo la Grazia, in lui ci sentiamo redenti. Abbiamo bisogno di tanto in tanto di trarre dalla specie una persona che diventa lo splendore che ci salva, che ci regala la gioia.
La Recherche è la notte dell’esistenza in un libro figlio del silenzio. È l’Adoration perpétuelle. È la Gloria.

«Del resto, le amanti che più ho amate non hanno mai coinciso con il mio amore per loro […] Quando le vedevo, quando le udivo, non trovavo nulla in loro che somigliasse al mio amore e potesse spiegarlo. Eppure, la mia sola gioia era di vederle, la mia sola ansia di aspettarle […] Sono incline a credere che in questi amori (lascio in disparte il piacere fisico che d’altronde s’unisce abitualmente a essi ma non basta a costituirli), sotto l’apparenza della donna, ci rivolgiamo in realtà alle forze invisibili accessoriamente unite a lei, come a oscure divinità. È la loro benevolenza a esserci necessaria, è il loro contatto quello che cerchiamo, senza trovarvi nessun piacere vero».
Marcel Proust, Sodoma e Gomorra, Einaudi 1978, pp. 560-561

«Di per sé lei è meno di niente, ma nel suo essere niente c’è, attiva, misteriosa e invisibile, una corrente che lo costringe a inginocchiarsi e ad adorare una oscura e implacabile Dea, e a fare sacrificio davanti a lei. E la Dea che esige questo sacrificio e questa umiliazione, la cui unica condizione di patrocinio è la corruttibilità, e nella cui fede e adorazione è nata tutta l’umanità, è la Dea del Tempo. Nessun oggetto che si estenda in questa dimensione temporale tollera di essere posseduto, intendendo per possesso il possesso totale che può essere raggiunto con la completa identificazione di soggetto e oggetto. […] Tutto ciò che è attivo, tutto ciò che è immerso nel tempo e nello spazio, è dotato di quella che potrebbe essere definita un’astratta, ideale e assoluta impermeabilità».
Samuel Beckett, Proust, SE 2004, pp. 41-42.

Seconda lezione su Proust (6.4.2018)

«Perché ci siamo?»

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Dipartita finale
di Franco Branciaroli
Con: Gianrico Tedeschi (Pol), Ugo Pagliai (Pot), Franco Branciaroli (Toto, la morte), Maurizio Donadoni (il Supino)
Regia di Franco Branciaroli 
Sino al 14 giugno 2015

Dipartita_finalePol e Pot sono forse gli ultimi due mortali rimasti sulla Terra ormai incandescente. Sono vecchissimi, sono oltre ogni età. Uno rimane sempre a letto e per lo più dorme, l’altro lo sostiene. Con loro sta il Supino, un immortale che però ha deciso di non seguire tutti gli altri Ricchi nella colonizzazione di nuovi pianeti. Tra dialoghi chiaramente beckettiani e situazioni da commedia surreale, arriva la Morte. La quale però non vuole più prendersi nessuno ma soltanto starsene tranquilla. Anzi, si sente pure male e alla fine è lei a morire. Il Supino si alza -era rimasto per l’appunto disteso lungo tutto il tempo- e fa un lungo discorso nel quale pone molte domande tra le quali quella fondamentale: «Perché ci siamo?».
Il cosiddetto Teatro dell’Assurdo è in realtà un Teatro Gnostico e questa inversione del titolo beckettiano ne costituisce una prova ulteriore. Dipartita finale è una ironica, divertente, radicale riflessione sul morire e sull’essere stati, sull’eternità e sul tempo. «Perché ci siamo?» è la domanda alla quale il testo/spettacolo risponde in modo pirotecnico e pieno di energia, disperazione e umorismo. Una risposta precisa e netta alla domanda sull’essere stati non c’è. Il significato ultimo è suggerito da una trama di linguaggio allusivo, amaro, ultraironico, in ogni caso dolente verso tutto ciò che è umano. La forma è spettacolare perché è intessuta di umorismo, di gaio turpiloquio anche, di una modalità vicina all’invito nietzscheano a ridere. A farlo in ogni caso, anche nel caso della più totale insensatezza. Dipartita finale è quindi anche un compendio di un corso di filosofia, o almeno di un seminario sull’esistenzialismo, tenuto da un teatrante -come Branciaroli- esperto e gigione, carnale e metafisico.

La mente amorosa

Bellerofonte Castaldi
«O crudel Amor»
Laura Fabris – Ensemble ‘Il Furioso’

[audio:Bellerofonte_Castaldi_O_ crudel_amor.mp3]

«Comment a-t-on le courage de souhaiter vivre, comment peut-on faire un mouvement pour se préserver de la mort, dans un monde où l’amour n’est provoqué que par le mensonge et consiste seulement dans notre besoin de voir nos souffrances apaisées par l’être qui nous a fait souffrir?» (M. Proust, Sodome et Gomorrhe, in À la recherche du temps perdu, Gallimard 1999, p. 1673)
Ritorno su questo tema -affrontato qui altre volte- anche sollecitato dalla lezione che ho tenuto ieri ai  giovani artisti e attentissimi allievi del Maestro D’Ascola al Conservatorio di Milano. L’amore dunque nascerebbe dalla menzogna e consisterebbe nel bisogno di vedere le nostre ferite curate proprio da chi le ha inferte. Paradossi? No, naturalmente. Esatta fenomenologia del sentimento, piuttosto. Che si tratti di esperienze universali lo mostra anche la consonanza tra Proust e il poeta/compositore Bellerofonte Castaldi (1580-1649) il quale si rivolge al crudele dio d’amore chiedendogli di volgere «lo sguardo  / a costei ch’ogn’or m’ancide, / per cui mi struggo & ardo / mentre del mio mal si ride»; ricorda poi al dio l’ipocrisia della donna, che «con faccia pietosa / ma con mente nera, / sta ver me sempre orgogliosa. // Con finto riso / mostra ogn’hor di darsi vinta, porgendo il Paradiso / con la sua pietà dipinta». Alla «dipinta» e cioè fasulla e apparente pietà dell’amata si contrappone la densa realtà del «crudo inferno di dolor» nel quale l’innamorato si sente precipitare. Un inferno che consiste esattamente nel «monde où l’amour n’est provoqué que par le mensonge».
Naturalmente non si tratta qui di banale strategia amorosa, di psicologiche bugie. Si tratta del fatto che «nessun oggetto che si estenda in questa dimensione temporale tollera di essere posseduto, intendendo per possesso il possesso totale, che può essere raggiunto soltanto con la completa identificazione di oggetto e soggetto. L’impenetrabilità della più volgare e insignificante creatura umana non è semplicemente un’illusione della gelosia del soggetto […]. Tutto ciò che è attivo, tutto ciò che è immerso nel tempo e nello spazio, è dotato di quella che potrebbe essere definita un’astratta, ideale e assoluta impermeabilità», impermeabilità che contribuisce in modo determinante alla trasformazione di ogni istante della vita «in un veleno che esaspera il suo amore o il suo odio o la sua gelosia (termini, questi, intercambiabili) e corrode il suo cuore» (S. Beckett, Proust, SE, 2004, pp. 41-42).
Questo è il lavoro della mente amorosa, l’incessante attività di un’ermeneutica della diffidenza che non potrà mai conseguire alcuna certezza poiché tale sicurezza ha come condizione l’intero temporale nel quale l’Altro distende il proprio corpo negli anni.
Ed è questo che la splendida voce del soprano Laura Fabris ci racconta in un brano dolce e struggente come può essere la nostalgia del paradiso perduto.

 

L’oggetto amoroso

Si sono concluse oggi le lezioni del corso di Filosofia della mente dedicate al tentativo di elaborare insieme agli studenti e con l’aiuto di Meinong, Husserl, Paci, Beckett, Proust, Barthes, una teoria dell’oggetto amoroso.
Ringrazio qui pubblicamente gli studenti che hanno seguìto le lezioni con un’attenzione profonda, che si è spesso manifestata anche attraverso interrogativi e contributi sempre pertinenti e capaci di aprire nuovi itinerari alla comune riflessione.
L’oggetto amoroso è una utopia temporale, è  la volontà di possedere l’altro in ogni suo stare e muoversi nello spazio e nel tempo, rinchiudendolo nel sempre, penetrando in ogni suo labirinto e sciogliendo il frattale che è l’alterità in una retta sempre a disposizione del nostro sguardo.
L’oggetto amoroso è un oggetto linguistico prodotto dalla parola con la quale l’innamorato narra a se stesso il proprio desiderio sempre uguale e sempre rinnovato. Una delle principali figure retoriche dell’amore è la tautologia: “Ti amo perché ti amo”.
Nel contrappunto doloroso ed esaltante del sentimento, l’oggetto amoroso rimane un enigma. Ma esso è anche un oggetto innocente poiché è l’innamorato a dargli la potenza che lo caratterizza. Esso non ha colpe. L’esperienza d’amore è infatti anche un dramma ermeneutico, nel quale ci infliggiamo da soli delle torture che attribuiamo all’altro.
L’oggetto amoroso è sempre raggiunto e sempre desiderato poiché è un oggetto semantico, una pienezza di significati nella quale si cede tutto di se stessi. È una “cosa mentale”, come Leonardo dice della pittura. È un oggetto iconico, un’immagine costruita dal corpomente. Immagine che si installa come pienezza del tempo, come inquietudine di un’attesa che in realtà non avrà mai fine. La struttura iconica e mentale dell’Altro diventa la cosa stessa poiché il soggetto amoroso è un soggetto creatore. Anche nei momenti più appassionati, dolci e sereni l’Altro rimane una nostra invenzione, è l’entità che ci concilia con la morte e dunque con noi stessi. Anche per questo l’esperienza d’amore è così esaltante. Poter trasformare la tragedia ermeneutica nella pienezza dell’istante –Kairós– è la ragione per la quale torniamo sempre a innamorarci.
Abbiamo compreso la verità delle parole di Ruysbroeck: in quell’esperienza totale ci ubriachiamo di un vino che non abbiamo mai bevuto e che mai berremo.

[È possibile ascoltare una di queste lezioni sull’amore]

 

Diversa, diffusa, molteplice

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Un amore di Swann
di Marcel Proust
Traduzione di Giovanni Raboni
Drammaturgia di Sandro Lombardi
Con: Sandro Lombardi (Charles Swann), Elena Ghiaurov (Odette de Crécy), Iaia Forte (Madame Verdurin)
Regia di Federico Tiezzi
Sino al 19 maggio 2013

La volgarità è uno dei temi della Recherche du temps perdu.
Volgarità dei salotti, di una società che vive di snobismo, di pettegolezzi, di meschinità elevate al rango di significati. Madame Verdurin ne costituisce l’emblema. Charles Swann la descrive come un uccello le cui piume sono state bagnate nel vino caldo. Questa donna spregevole articola con i suoni appunto di un uccello il proprio odio per tutto ciò che non riesce a comprendere e che la supera.
Volgarità della seduzione. Della finzione d’amore volta soltanto al dominio sull’altro. Di dolci parole vibrate come pietre a colpire il cuore di chi le ascolta. E sottometterlo. Per poi -una volta ottenuto l’obiettivo di farsi sposare o mantenere- volgere la seduzione in insulto, tradimento, ironia. Odette de Crécy -prostituta d’alto bordo, ignorantella e fasulla- conquista in questo modo il tempo e il rango di Charles Swann.
Volgarità del desiderio. Che non si accorge di come stiano arrivando tempeste di sabbia nella vita, onde di polvere, a intasare la lucidità dei neuroni e la calma dei sentimenti. Charles Swann in verità se ne accorge, tanto da rispondere ai primi gesti seduttivi di Odette dicendole che non vuole conoscerla meglio “per non diventare infelice”. Ma cede poi alla menzogna di una donna della quale, molti anni dopo, dirà «j’ai gâché des années de ma vie, j’ai voulu mourir, j’ai eu mon plus grand amour, pour une femme qui ne me plaisait pas, qui n’était pas mon genre!» (À la recherche du temps perdu, “Du côté de chez Swann”, Gallimard 1999, p. 305).
I tre attori che danno vita a questa fenomenologia della ferocia alternano la voce del Narratore con quella dei personaggi, riuscendo in tal modo a trasmettere almeno un’idea della magnifica ricchezza del testo proustiano. Esso ci mostra che L’Altro è un pericolo, l’Altro è un concorrente, l’Altro è un fastidio, l’Altro è anche “l’enfer” (Sartre) ma questa differenza dell’Altro è così drammatica perché l’Altro è la nostra identità, l’Altro siamo noi. L’alterità è costitutiva della vita mentale. Un’alterità che nella vita amorosa diventa  identità. Il soggetto amoroso è un soggetto nichilistico in quanto vorrebbe eliminare la differenza duale a favore dell’identità unica. Ma l’altro rimane irriducibile. È altro perché non è io, è un io che non è me e che non potrà mai diventare me come io non potrò diventare lui. Se lo diventassi, lo annullerei. Se lo diventassimo, ci annulleremmo come alterità. Se infatti l’Altro fosse raggiunto, esso sarebbe negato in quanto Altro. Anche per questo, dato che la ripetizione amorosa è una ripetizione seriale (Deleuze), l’innamorato è un serial killer che opera in base ai due principi della ripetizione e della differenza.
Insignificanza, volgarità, nullità costituiscono la condizione naturale dell’Altro. È soltanto il desiderio di possedere il suo corpotempo -fatto di eventi e di memorie, assai più che il corpo fatto di organi e tessuti- a trasfigurare l’oggetto amoroso nella favolosa e asintotica meta della nostra passione. L’oggetto amoroso è dunque un segno. Un segno dell’intero al quale vogliamo pervenire, là dove la scissione tra il tempo che siamo e il tempo che è possa finalmente annullarsi nella totalità. «Di per sé lei è meno di niente, ma nel suo essere niente c’è, attiva, misteriosa e  invisibile, una corrente che lo costringe a inginocchiarsi e ad adorare una oscura e implacabile Dea, e a fare sacrificio davanti a lei. E la Dea che esige questo sacrificio e questa umiliazione, la cui unica condizione di patrocinio è la corruttibilità, e nella cui fede e adorazione è nata tutta l’umanità, è la Dea del Tempo» (Beckett, Proust, SE 2004, p. 41).
La dea del tempo innamorato è una sorta di Madonna del Desiderio. Appare con volti diversi, abita istanti diffusi, occupa luoghi molteplici. Swann la incontra sotto le specie di una cortigiana bella e feroce. È per Swann e tramite Swann che Odette assume la figura di una Dea sotto il cui incedere “si volgono i mondi”: «Tout d’un coup, sur la sable de l’allée, tardive, alentie et luxuriant comme la plus belle fleur et qui ne s’ouvrirait qu’à midi, Mme Swann apparaissait. […] Or, autant que du faîte de sa noble richesse, c’était du comble glorieux de son été mûr et si savoureux encore, que Mme Swann, majestueuse, souriant et bonne, s’avançant dans l’avenue du Bois, voyait comme Hypatie, sous la lente marche de ses pieds, rouler les mondes» (À la recherche du temps perdu, “À l’ombre des jeunes filles en fleurs”, Gallimard 1999, pp. 503 e 506).

 

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