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Proust / Il male

Antoine Compagnon
Proust tra due secoli
Miti e clichés del decadentismo nella Recherche
(Proust entre deux siècles, Éditions du Seuil 1989)
Traduzione di Francesca Malvani con la collaborazione di Pierfranco Minsenti
Einaudi, 1992
Pagine XXIII-329

«Entre-deux», il tra, lo spazio della molteplicità e della differenza, il tempo che coniuga e che attende. È questa la chiave di lettura della Recherche proposta da Antoine Compagnon. Il romanzo di Proust, infatti, è intessuto di simmetrie, costituito di rimandi e paralleli che poi però lo scrittore fa saltare, deviare, li perde, per ricongiungerli infine in una imprevedibile sintesi. La stessa scrittura di Proust, che accumula paperoles, personaggi, vicende, al di là del progetto iniziale e delle prime redazioni, testimonia di una vicenda artistica e teoretica che somiglia a un labirinto, che è un labirinto.
Come si situa quest’opera nella storia culturale europea? A tale domanda Compagnon offre una molteplicità di risposte, tutte comunque sotto il segno dell’entre-deux. La Recherche è romanzo ed è critica, è letteratura ed è filosofia. Vive nello iato fra tradizione e innovazione, fra continuità e rottura. «Proust non è né reazionario, né futurista» (p. 306) e anche per questo la sua opera rimane inclassificabile. Il suo è l’ultimo romanzo organico dell’Ottocento ed è insieme il primo grande romanzo sperimentale del Novecento. E ciò proprio in forza della sua costitutiva molteplicità, che rende impossibile riassumerlo sotto un unico segno.

Compagnon cerca di cogliere la duplicità del romanzo attraverso una serie di scandagli in alcuni dei suoi innumerevoli anfratti. Emerge così la centralità di Baudelaire nella costruzione dell’estetica proustiana, un Baudelaire significativamente accomunato a Racine come sintesi di misura ed eccesso, classicità e mutamento. Acquista quindi un significato non soltanto esistenziale il tema dell’omosessualità, del travestimento, dell’analogia tra ebrei e invertiti in quanto figure della compresenza, dell’ambiguità non riducibile a uno solo dei suoi componenti. Non è un caso che il personaggio più citato da Compagnon sia il barone di Charlus, e cioè l’autentico grande protagonista -dopo il Narratore- del romanzo.
La musica, in particolare Fauré; la lettura così intima del Rinascimento italiano; i lunghi inserti etimologici di Brichot; l’estetica militante di Mme de Cambremer; l’aggettivazione disuguale, sono solo alcuni dei temi nei quali emerge la molteplicità di prospettive del romanzo. Compagnon li analizza tutti con efficacia. Ma c’è un problema che consente più di altri di cogliere la profondità metafisica del romanzo. È il tema del male, che tutto lo pervade: «Nessuno potrà negare che il male regni nella Ricerca del tempo perduto» (p. 145)

Nella lettura di Compagnon il male non è per Proust qualcosa di ontologico, la natura non è malvagia, come invece pensa Baudelaire. Il male è, semplicemente, il desiderio. È la gratuità del desiderio sessuale, là dove esso manca di scopi, dove non è volto alla riproduzione: «Tranne che per gli angeli e gli ermafroditi, la sterilità si identifica alla ferocia. Per Proust, come per Baudelaire, l’amore, se non è riproduzione, è crudeltà: questo è il male fatidico» (p. 165). Ma sia Baudelaire sia Proust odiano la riproduzione sessuale. Ogni volta che nella Recherche appare una donna incinta il tono è immancabilmente sarcastico, la gravidanza è descritta come una malattia. L’amore è quindi ferocia, una lotta tra i sessi che niente può riscattare. Se sterile, l’accoppiamento è sadismo. Se fecondo, è malattia. È un amore inseparabile dall’odio, sempre. Tanto è vero che con grande semplicità Proust scrive che «‘appena non si ama più si smette di odiare’. Una lezione identica emerge da tutti gli amori della Ricerca del tempo perduto, amori fondati sull’odio, sul disgusto, sull’orrore, che costituiscono la condizione stessa del loro essere: amori senza carità in un mondo senza Dio» (p. 181).

E tuttavia Compagnon sottolinea la distanza di Proust dalla Gnosi e, in generale, dal sacro: «Mentre ogni metafisica del male porta a proteggere un’aristocrazia in lotta contro la stupidità del mondo, a privilegiare una scrittura segnata dal desiderio di solitudine […] nulla di tale si manifesta in Proust. […] Il male, in Proust, è comune, consiste nel desiderio, nel desiderio e nell’orrore» (Ibidem).
Il male sarebbe quindi una realtà soltanto psicologica, non metafisica. Ma è veramente così? Non è l’umanità stessa una escrescenza della materia che soltanto la bellezza può redimere? Non pulsa anche nella Recherche il disprezzo verso le masse? I lunghi anni nella solitudine della scrittura sono frutto soltanto della malattia e del bisogno di salvare il tempo? Nello sguardo sensibile ma distante, gelido e ironico di Marcel Proust che cosa si svela e si nasconde?
«Sous l’apparence de la femme, c’est à ces forces invisible dont elle est accessoirement accompagnée que nous nous adressons comme à d’obscures divinités. C’est elles dont la bienveillance nous est nécessaire, dont nous recherchons le contact sans y trouver de plaisir positif», ‘Sotto l’apparenza della donna, ci rivolgiamo in realtà alle forze invisibili accessoriamente unite a lei, come a oscure divinità. È la loro benevolenza a esserci necessaria, è il loro contatto quello che cerchiamo, senza trovarvi nessun piacere vero’ (Sodome et Gomorrhe, in À la recherce du temps perdu, Gallimard 1999, p. 1602; trad. di Elena Giolitti, Einaudi 1978, p. 561)

Sui sette volumi della Recherche ho scritto qui:

La strada di Swann

All’ombra delle fanciulle in fiore

I Guermantes

Sodoma e Gomorra

La prigioniera

La fuggitiva

Il Tempo ritrovato

«La gloire du soleil sur la mer violette»

Gli impressionisti a Catania
Catania – Palazzo Platamone
A cura di Vincenzo Sanfo
Sino al 21 aprile 2019

ἡ ψυχὴ τὰ ὄντα πώς ἐστι πάντα. Così Aristotele nel Περὶ ψυχῆς (libro III; 431b, 20): la mente è in qualche modo tutte le cose. Con la pittura impressionista la mente diventa infatti paesaggi, acque, fiori, crepuscoli, soli, cattedrali, città, umani. Ogni cosa viene filtrata dal tremolio degli istanti, dalla luce dei tramonti, dal riverbero dell’indagine, dalla ποίησις che trasforma i pensieri in enti, i sentimenti in colori, le impressioni in sostanza. L’impressionismo francese è anche la risposta della pittura all’invenzione della fotografia, la quale rese superfluo ogni realismo rappresentativo e indirizzò l’agire artistico verso lo sguardo e non più verso le cose.
La mostra in corso nel bel Palazzo Platamone di Catania si presenta enfaticamente come «la più completa possibile» sugli impressionisti. Così non è. E non perché non siano davvero numerosi gli artisti dei quali almeno un’opera è in mostra ma perché essa è costituita da incisioni, acqueforti, pastelli, piccole sculture. Pochissimi sono gli oli e tra questi Les Nymphéas che Monet dipinse in un mattino del 1905 e la splendida Seine a Suresnes di Alfred Sisley (qui sopra). La prima è uno sguardo già informale sul mondo. La seconda celebra le nozze tra la luce e la geometria.
La mostra si chiude sul Ritratto di Baudelaire che Manet dipinse nel 1863. Baudelaire il quale descrisse il mondo allo stesso modo degli impressionisti ma lo seppe fare con le parole. Parole come queste:
«La gloire du soleil sur la mer violette,
La gloire des cités dans le soleil couchant»
(Les Fleurs du Mal, «Le Voyage», strofa V)
“La gloria del sole sul mare color viola, / La gloria delle città nel sole che declina”.
La gloria della mente che sa guardare il riflesso della luce nello spazio. Anche questo è l’impressionismo.

Nota tecnica.
Sul sito della mostra si trova un’applicazione che permette di ascoltare sul proprio cellulare informazioni su alcune delle principali opere in mostra, esattamente su 35 di esse (su un totale di circa 190). Un’idea davvero buona. Peccato però che la voce che legge sia quella di un software anglofono, che deforma sistematicamente le parole e gli accenti sia francesi sia italiani, con effetti comici e penosi. Non si poteva spendere qualche euro per far leggere i testi a una persona vera? Non necessariamente una grande attrice, sarebbe bastata una persona viva.

«Forêts de symboles»

Il Simbolismo. Arte in Europa dalla Belle Époque alla Grande Guerra
a cura di Fernando Mazzocca e Claudia Zevi in collaborazione con Michel Draguet
Palazzo Reale – Milano
Sino al 5 giugno 2016

VonKeller_AuCrépuscoleNei simboli si raggruma la facoltà che la nostra specie ha di vedere ciò che non appare immediatamente percepibile. Anche per questo il simbolo è di per sé un concetto. Tutto ciò che chiamiamo cultura ha una struttura simbolica. Perché dunque denominare Simbolismo una particolare temperie artistica? La motivazione principale sta nel fatto che tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo molti artisti fecero propria la definizione del mondo data da Baudelaire, per il quale «la Nature est un temple où de vivants piliers / Laissent parfois sortir de confuse paroles; / L’homme y passe à travers des forêts de symboles / Qui l’observent avec des regards familiers» (Correspondances, vv. 1-4). Simboli che attingono la loro potenza dalla forze profonde, pulsanti, estreme della vita.
All’interno della formula unitaria Simbolismo convivono in realtà espressioni e posizioni diverse come la Secessione viennese, i Nabis parigini, il Divisionismo. Le opere dei numerosi artisti che si riconobbero sotto questa formula indicano in modo assai chiaro due verità, una di natura generale e un’altra riguardante la storia.
La prima verità è che un eccesso di razionalità non è diverso da altri eccessi e dunque è pronto a capovolgersi nel suo opposto. I successi del positivismo, la convinzione di poter tutto ricondurre e ridurre alle metodologie della scienze dure, generarono un mondo fatto di segni inquieti, di sogni angoscianti, di incubi esoterici.
È questo che esprimono le opere raccolte nella ricca e suggestiva mostra di Palazzo Reale.
Malczewski-Thanatos-IThanatos di Jacek Malczewski (1898) ha l’implacabile freddezza della pura ferocia. Al chiaro di luna di Albert von Keller (1894) consiste nello stridente contrasto tra il corpo sensuale di una donna e la sua posa crocifissa. Parsifal di Leo Putz (1900) è il sogno del guerriero che immagina splendide creature nude pronte ad accogliere il suo ritorno. Si potrebbe continuare a lungo nell’indicare opere nelle quali il sogno si fa reale e la realtà assume i contorni onirici delle profondità interiori. Almeno un altro quadro va comunque ricordato: L’isola dei morti di Arnold Böcklin (1880-1896); e va ricordato non soltanto per la sua struttura e il suo contenuto davvero emblematici del Simbolismo -colori forti e insieme spenti, paesaggio lugubre e geometrico, centralità del morire- ma anche e soprattutto perché si tratta di un dipinto che fu molto amato da personaggi che apparentemente sembrano assai lontani tra di loro come Lenin, Hitler, Strindberg, D’Annunzio, Freud. Tutti costoro, in un mondo o nell’altro, non credevano più nella Ragione, nella sua autorità sulle vicende umane individuali e collettive. La ricorrente presenza di figure come Orfeo e Medusa indica l’estrema volontà di fare dell’arte una barriera contro l’orrore. Ma per far questo l’arte stessa assume i caratteri della paura.
La seconda verità è che queste opere mostrano in modo lancinante come l’Europa fosse pronta al trionfo della morte che afferrò il continente tra il 1914 e il 1918. Si moltiplicano infatti i segni della violenza, della distruzione e del demoniaco, seppur trasportati su piani allegorici.
A margine ma non tanto: la grandezza di Nietzsche sta anche nell’essere stato immerso in tali atmosfere ed esserne rimasto di fatto immune. Perché Nietzsche era un greco, lontano da ogni decadenza.

Les Fleurs

I fiori del male
(Les Fleurs du mal)
(1857-1868)
di Charles Baudelaire
Garzanti, 1978
Pagine XXIII-349

«Mais mon coeur, que j’amais ne visite l’extase» (L’irreparabile), eppure è tutta un’estasi questo canto notturno, ironico e fremente, che sembra precipitarsi verso il Nulla. Satana lodato e benedetto, padre delle tenebre e protettore dei disperati, è una maschera rovesciata del Dio che mai è stato; l’amore si trasforma in spettro; l’oppio e il vino diventano gli strumenti del nirvana. E il Tempo, il Tempo che precipita, annienta e purifica, è odiato dal poeta come l’immagine di un «dieu sinistre, effrayant, impassible» (L’orologio). «Amour…gloire…bonheur!» sono delle chimere e nonostante la magnificenza di alcuni paesaggi -«La gloire du soleil sur la mer violette, / La gloire des cités dans le soleil couchant»- la vera «chose capital» è «le spectacle ennuyeux de l’immortal péché». Il Baudelaire che loda San Pietro per aver rinnegato Gesù ha nel fondo il sentimento più desolato e irreparabile del peccato che involve l’umano sin dal suo apparire. E dunque disgusto, putrefazione, violenza, assassinio, illusioni, voluttà, maledizioni, demenza, oppio, «Tel est du glob entier l’éternél bullettin» (Il viaggio).
C’è tuttavia in questo libro l’affermazione decisa di un sì, l’affermazione della potenza dell’arte come unico «Inconnu» nel quale si possa «trouver du nouveau!» (Il viaggio). Così se «Lorsque, par un décret des puissances suprême, / Le Poëte apparaît en ce monde ennuyé» (Benedizione) l’universo intero sembra rifiutare questa creatura strana e insensata, tuttavia nel procedere dei tempi la poesia appare compagna e amica della vita, la bellezza splende come «unique reine» della mente e di quei pochi uomini che sanno ancora ascoltare la Terra sacra e maledetta (Inno alla bellezza).

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